Writers

Mr. Robot

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.

Quest’articolo di Denis Faye è stato ripreso per gentile concessione della WGA dal suo sito, dove è apparso lo scorso 11 settembre.

Il creatore di Mr. Robot Sam Esmail commenta le analogie della serie “sleeper” di successo con i recenti tragici eventi e spiega perché spostare il fuoco della serie da quello che avviene nella società di oggi sarebbe un errore.

Non si può negare che Mr. Robot – la serie “sleeper” di successo targata USA Network che racconta la storia di un vigilante haker mentalmente instabile – abbia centrato in pieno lo zeitgeist di quest’estate. Lo spirito dei tempi era così azzeccato da andare di pari passo con l’attualità. Infatti il finale di stagione, che conteneva una scena particolarmente violenta, è stato rimandato per rispetto nei confronti delle vittime della sparatoria in diretta avvenuta ad agosto in Virginia.

Secondo il creatore della serie, Sam Esmail, sebbene non si possa rimanere indifferenti a coincidenze di questo tipo, è importante metterle nella giusta prospettiva. “Non stiamo facendo un racconto in costume, stiamo facendo una serie contemporanea,” ha spiegato in un’intervista per il sito web della Writers Guild of America West. “Nel momento in cui restituiamo ciò che sentiamo della società e dei paradossi odierni nel 2015, vuol dire che stiamo facendo bene il nostro lavoro. Sfortunatamente ci sono queste analogie inquietanti con la vita reale che spesso sono incredibilmente scomode. Ovviamente provo sentimenti contrastanti a riguardo, ma alla fine penso che commetteremmo un passo falso se tradissimo l’idea di rispecchiare la società di oggi.”

Detto questo, ha in programma di tenere le orecchie aperte per la seconda stagione. “Cominceremo la writers’ room fra meno di un mese e tutto quello che è successo e tutte le reazioni alla prima stagione verranno prese in considerazione,” dice Sam. “Alcune persone provano a ignorare le critiche o le reazioni del pubblico. Io penso che sia un po’ stupido, dico io, perché non tenere conto del feedback? Non può che essere d’aiuto, se non ci distrae da quella che è la vera storia al centro della serie.”

Mentre Elliot scivola dentro e fuori la realtà, come riesci a far collimare ciò che accade nel mondo reale della serie con quello che accade all’interno del suo punto di vista?

Una delle cose che ho detto al network – cosa inusuale per molte serie televisive – è che volevo davvero che tutte le sceneggiature fossero pronte prima delle riprese, proprio per questo motivo. La continuità sulla serie è incredibilmente importante, ma è anche molto dispendiosa in termini di tempo. Dire “seriale” è quasi un understatement. Abbiamo dovuto fare i classici setup e payoff, ma su un arco di otto episodi, sette episodi, così abbiamo dovuto soppesare ogni decisione che ogni personaggio faceva in modo che collimasse con il resto. Quindi c’è questa componente e c’è anche il punto di vista. Elliot ha un punto di vista molto preciso. Lui vede, per esempio, la E Corp come Evil Corp, e dobbiamo fare in modo che la storia abbia un senso, e a questo stiamo molto attenti. Se Elliot non è in scena e adottiamo il punto di vista di qualcun altro, quella cosa non la vediamo. Questo è solo un piccolo dettaglio di ciò di cui stiamo parlando. Il punto di vista è una cosa che abbiamo affrontato in maniera molto esplicita. C’era una griglia precisa a cui dovevamo attenerci, in modo tale che quando andavamo a creare la scena sapevamo qual era il punto di vista da cui cominciavamo. E poi i dettagli della trama, di nuovo, è stato un processo quasi matematico. Avevamo una lavagna enorme nella writers’ room, e dovevamo assicurarci che l’equazione funzionasse.

Con tutta queste responsabilità da tenere a mente, sembra che stiate scrivendo per tre pubblici diversi. Avete persone che guardano la serie via via che escono gli episodi, avete quelli che fanno binging e, visto che diventerà una serie cult, avrete persone che guarderanno le puntate più volte per controllare la continuità. Eri consapevole di tutto questo?

Sì, certo. Ero un grande fan di Lost, e mi ricordo che interagivo molto online, ma ancora di più di persona. Mi ricordo che mi ritrovavo a parlare con amici e colleghi dell’ultimo episodio, cominciavamo a teorizzare e a passare al vaglio i dettagli per vedere quando quadravano e quando no – e se non quadravano perché, era intenzionale oppure no, e che significa quando una cosa non quadra? Questo tipo di coinvolgimento lo trovo eccitante.

Un sacco di gente sta cercando di decodificare questa nuova forma di racconto interattivo. A me non ha mai convinto perché si riduce a un: scegli-la-tua-avventura. Solo perché esiste la tecnologia vogliono fare qualcosa in cui uno può scegliere dove va il personaggio. Questa cosa non mi ha mai interessato granché. Per me la cosa interessante è avere una storia che ti coinvolga in modo interattivo, che coinvolga il pubblico in maniera interattiva, ma senza il bisogno di premere bottoni. E’ l’esatto opposto. Significa connetterli emotivamente, intellettualmente con la storia – si ritorna alla classica tecnica di racconto del “voglio sapere cosa accade dopo, ma voglio anche sapere che cosa è accaduto prima e cosa sta accadendo proprio adesso e cosa è accaduto nell’altra storyline che nel frattempo non ho visto.” Di fatto è una specie di tecnica di racconto a 360 gradi. Quando apri quella scatola, diventa molto più affascinante e coinvolgente.

Abbiamo parlato di struttura e storia, ma avete investito molto anche sui personaggi, giusto?

E’ strano, perché il genere che definisce la serie è probabilmente il thriller – a me piace dire cyberpunk, ma forse è una miscela dei due. In entrambi i generi ci sono ovviamente cose che uno si aspetta: colpi di scena e rivelazioni e sorprese e un po’ di azione e molta gente che smanetta sulle tastiere – ma tutto questo non conta se non ti interessano i personaggi.

Uno dei motivi che mi ha spinto a fare la serie è stata la frustrazione nel vedere quanto fossero inverosimili le serie hollywoodiane sugli hacker e sul mondo tecnologico in generale. Devono sempre forzare in qualche modo la mano col dramma. Per quanto mi riguarda, mostrare quello che succede realmente, presentare quel mondo in modo autentico è molto più affascinante. Il motivo per cui hanno evitato di farlo è perché è un mondo davvero molto oscuro, nessuno capisce veramente che cosa digitano i programmatori sullo schermo – il che è vero, ma io so che quando guardo una serie sugli avvocati non necessariamente capisco tutto il gergo legale. La chiave di tutto questo, che si tratti di un medical, un computer thriller, o un film d’azione, è che se non ti interessano i personaggi il resto non conta nulla. Per quanto riguarda Mr. Robot, è sempre difficile rispondere alla domanda, “Di che parla questa serie?” Se ci rifletto a fondo, la serie riguarda prima di tutto Elliot. L’hacking e quant’altro si voglia metterci sopra non è altro che glassa su quello che è il vero viaggio, che è la sua storia.

Quando invece l’hacking lo fate vedere, quello che mi ha aiutato a destreggiarmi sono stati alcuni indizi molto visivi, effetti colorati o grafici. Sono tutte cose che sono state aggiunte per aiutare la gente come me a raccapezzarsi nelle scene di hacking?

La risposta immediata è no. Ho cercato di rimanere in modo più autentico possibile vicino alle cose che stavano facendo, e abbiamo usato i nostri consulenti tecnici per farlo. Credo onestamente che è Elliot – la performance di Rami Malek – che ti aiuta, non tanto a capire il gergo tecnico, ma qual è la posta in gioco. E ovviamente gli effetti visivi, ovviamente usiamo gli effetti visivi per rappresentare lo stato emotivo di Elliot, non tanto la parte tecnologica. Per cui se capisci dove Elliot sta emotivamente durante uno qualsiasi degli attacchi, allora capisci che sta succedendo, capisci qual è il grado di rischio o di successo. Riusciamo ad accompagnarti per mano attraverso lo sguardo di Elliot.

Hai una visione totale d’insieme, esiste un arco gigante della serie o si tratta di un parco giochi in cui qualsiasi cosa di strano può accadere?

In effetti ho in mente un arco gigante. E’ un arco davvero gigante e di lungo respiro. Inizialmente questo doveva essere un lungometraggio e la prima serie era proprio il primo atto del film, quindi in termini di sceneggiatura stiamo entrando solo ora nel vivo della storia, questo è come il turning point dei 30 minuti. La seconda stagione è l’inizio del secondo atto, che tradizionalmente è quando la vera storia comincia, mentre tutto il resto è setup.

Quello che volevo esplorare si riallaccia al viaggio di Elliot e parte di questo è la sua presa di coscienza del suo disturbo dissociativo dell’identità, che è una cosa vera e una cosa complessa e una cosa strana. E questo era quello di cui avrebbe dovuto trattare il film, ciò di cui tratterà la serie. E’ tutto ciò che farò fino alla seconda serie, perché prima voglio che veniamo assorbiti interamente da Elliot.

Cosa fa una persona quando deve fronteggiare il suo alter ego, letteralmente, quando perde tempo con lui, quando perde il controllo su di lui, quando perde la propria identità a scapito suo? Come fa a fronteggiarlo, come si cura una cosa così? Ci sono così tante stratificazioni di senso e la cosa che trovo affascinante è che ciò che volevamo fare nella prima stagione – sperando di esserci riusciti – è di entrare nella testa di questa persona prima di uscire nello spazio circostante. In ultima analisi credo che sia per questo che funziona meglio come serie che non come film. L’ho scoperto quando stavo scrivendo il lungometraggio e sono arrivato a pagina 90 e non ero nemmeno vicino alla chiusura del primo atto.

Per poter mettere piede sul terreno strano e labile di una persona che soffre di questo disturbo, prima dobbiamo essere davvero con lui, dobbiamo davvero partire insieme su un terreno solido per poter raggiungere la destinazione insieme.

Denis Faye

La traduzione in italiano è di Andrea Leanza

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