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Le Ultime Cose

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.

Le Ultime Cose, unico film italiano in concorso alla Settimana Internazionale della Critica, è la prima sceneggiatura di finzione della documentarista torinese Irene Dionisio, che firma anche la regia. Il film proiettato il 2 settembre a Venezia, sarà in sala a partire dal 29 settembre.

Irene tu vieni dal documentario, questa è la tua prima sceneggiatura di finzione?

Si di finzione si. Anche se già nel documentario io scrivo molto, con il mio progetto precedente ho vinto il premio Solinas per la scrittura di documentario. Sono della scuola del documentario scritto, non tutti la pensano così, ma per me è importante.

Come da nostra abitudine ti chiedo un pitch del film. Cosa racconta Le Ultime cose?

Le Ultime cose è ambientato in un banco dei pegni, quindi racconta questo luogo e i suoi meccanismi operativi e le persone che lo frequentano. L’intento era di raccontare il tema del debito. Quindi cosa vuol dire essere in debito? A livello primariamente economico, ma anche morale e spirituale. Il film racconta questo luogo e la tematica del debito attraverso 3 personaggi.

Perché hai scelto di raccontare tre storie parallele legate da un luogo e da un tema?

Inizialmente, data la mia esperienza di documentarista, è stato normale fare uno studio di questo luogo, rimanerci del tempo e lavorare sull’osservazione, facendo molte interviste alle persone che lo frequentano. Stando lì ho capito che l’unico modo per raccontare un luogo del genere era la coralità. È un posto che veramente accoglie innumerevoli storie, limitarsi a una sola sarebbe stata una falsificazione rispetto a quello che è quel posto e che può offrire. In più quando ho iniziato a raccogliere le storie delle persone, alcune di queste sono entrate poi nel film, ho capito che avevo voglia di raccontare tutti i diversi lati di questo posto. Poi naturalmente ho scelto le storie che mi avevano più colpita ed emozionata, che mi avevano fatto riflettere e poi le ho lavorate per riportarle in una sceneggiatura.

Concretamente, anche a livello di tempistiche come ha funzionato il lavoro di documentazione e scrittura?

Io sono stata circa sei o sette mesi nel posto e in questo periodo ho scritto il soggetto. Quello che ho fatto è stato soprattutto osservare come funzionava il luogo, fare interviste alle persone che ci lavoravano. Successivamente mi sono soffermata sulle storie che mi piacevano di più e ho scritto il soggetto e da lì la sceneggiatura. Ma la sceneggiatura è stata una sorta di struttura, un materiale fluido, che ho molto rivisto e rimpolpato in varie stesure durante la preparazione del film, soprattutto nel corso dei casting e delle prove con gli attori. Anche perché molti di loro sono non professionisti, quindi lavorare a lungo con loro, con improvvisazioni mi è servito a rimpolpare e rendere più vera la sceneggiatura.

In termini produttivi come ha funzionato questo processo?

Sin dalla scrittura del soggetto avevo cominciato a lavorare con Tempesta Film di Carlo Cresto-Dina, che è un produttore creativo ed è una persona che è stata molto presente nella prima fase di lavoro e mi ha aiutato proprio come sponda, per riflettere sugli elementi che raccoglievo. Poi avere un certo tipo di produzione è importante perché significa essere appoggiati anche nella prassi di lavoro. Per esempio i casting, per cui comunque io cercavo non professionisti, quindi seguivano una modalità atipica rispetto all’ambito più codificato della produzione. Ho avuto molta libertà di gestirmi i casting e la preparazione e sono stata affiancata da persone che capivano questa modalità fluida di lavoro. Questa libertà e comprensione non era una cosa scontata ed è stata molto importante per il film.

Mi racconti meglio questa fase di casting così complessa e fondamentale proprio da un punto di vista creativo?

La fase di casting è stata lunga, ma discontinua, nel senso che c’erano momenti più produttivi e momenti in cui si faceva meno, però è durata dei mesi. Durante questa fase io ho chiesto di essere affiancata da Tatiana Lepore, che ha curato il casting, ma anche il coaching. Questo perché alla fine il cast è misto di professionisti e non, quindi quando si trattava di attori la difficoltà era trovare chi potesse incarnare il personaggio e anche un po’ ibridarlo, la ricerca non è stata semplice. Poi volevamo fare un “cast eretico”, quindi non avere sempre le solite facce e non è stato facile. Poi c’è stata tutta un’altra parte del lavoro che è stato uno street-casting incentrato attorno al banco dei pegni. Quindi i clienti, gli impiegati, i ricettatori… C’è Christina Andrea Rosamilia che per la prima volta appare sullo schermo ed è sia persona che attrice nel film e ha fatto un grandissimo lavoro proprio attoriale, mettendo però molto di se stessa nel suo personaggio.

Dicevi che la sceneggiatura è stata molto rivista in fase di preparazione, poi quando hai girato hai avuto ancora un margine per fare improvvisazione o hai seguito la sceneggiatura?

Venendo dal documentario mi sono resa conto che il set è comunque una violenza rispetto al processo artistico. Non perché sia terribile affrontarlo, ma perché dopo tutto il lavoro libero di rielaborazione con gli attori, trovarsi in una struttura rigida e gerarchica come è necessariamente quella del set non è facile. Abbiamo girato per 5 settimane con un ritmo molto cadenzato e organizzato e quindi si è fatto quello che era stato scritto, non c’era molto margine per cambiare. Ma sono stata fortunata ad avere comunque una certa libertà prima.

Tornando alla scrittura, come hai gestito la coralità del tuo racconto? Per essere una prima sceneggiatura di finzione la scelta di un racconto multi-strand è coraggiosa, non è una forma semplice.

Si, mi sono messa nei guai da sola! In realtà l’esigenza di fare un racconto corale e molteplice era per me molto forte, quindi ho lavorato tantissimo sui particolari, con continue riscritture. La difficoltà maggiore nello scrivere il film per me non è stata quella di avere tre storie, ma il fatto che il banco dei pegni sia un luogo molto complesso e richiede un linguaggio tecnico che si deve comprendere. Quindi la difficoltà è stata combinare queste tre storie, con il loro spessore psicologico e la loro complessità di fatti, insieme al linguaggio tecnico legato al banco dei pegni. Queste storie riflettono i meccanismi del banco dei pegni e questi meccanismi dovevano essere compresi dallo spettatore. Ovviamente mi sono confrontata molto su questo aspetto e ho avuto anche la revisione della sceneggiatura da parte di un perito del banco dei pegni, che doveva controllare la verosimiglianza di quello che avevo scritto. Per quel che riguarda i personaggi ho lavorato molto con ogni attore sul percorso personale dei personaggi, facendo anche delle modifiche di scrittura, questo è stato molto importante.

La scelta delle storie e dei tre protagonisti come è avvenuta?

Nel soggetto ero sicura di voler raccontare il rapporto tra un perito e un utente, avevo capito che questa relazione era la chiave di volta per la comprensione di questo luogo. Infatti una prima versione del film aveva solo due personaggi. Successivamente ho capito che c’era qualcosa di molto interessante nella relazione tra chi lavorava dentro al banco e chi si trovava fuori, quindi i ricettatori e ho aggiunto questa componente. Ma la mia idea è che il film racconta quattro personaggi, uno dei quali è proprio il banco dei pegni. L’ottanta per cento del film è ambientato dentro il banco dei pegni e io l’ho proprio sempre pensato e raccontato come se fosse un personaggio.

Come sei riuscita a esplorare un tema complesso come quello del debito? Come è raccontato attraverso i personaggi?

Io ho cercato di raccontare i personaggi in funzione del luogo, mentre invece di solito è il contrario, è considerato un errore di sceneggiatura. Il film è breve, dura 85 minuti, per essere anche un racconto corale è proprio breve. Io volevo che i personaggi fossero come fotografati all’interno di un luogo nelle loro vite. Quindi non c’è un racconto del passato o del futuro dei personaggi, ho voluto raccontare il momento presente, legato al posto, certo facendo arrivare le motivazioni dei personaggi. Questi personaggi raccontano una dinamica, che è quello che succede spesso nel documentario, nella sceneggiatura io sono stata molto influenzata dal lavoro nel documentario. Non sono andata a raccontare tante cose sui personaggi, li ho sempre inquadrati nella loro relazione con il banco dei pegni. Quindi il tema del debito è la chiave di lettura del film, la scelta di raccontare quei personaggi è stata dettata dal volere raccontare come ognuno di loro viveva la questione del debito in maniera diversa. Forse ho fatto un lavoro un po’ concettuale, ma ho seguito la mia indole e la mia ispirazione. Mi sono data delle regole, che non sono universali, ma per me hanno funzionato e magari ne ho trasgredite altre…

Quali sono le regole che ti sei imposta?

Questa cosa della brevità, è una cosa rara in un racconto corale. Ma soprattutto ho lavorato su una narrazione ellittica, che era un’intenzione fin dall’inizio. Raccontare i personaggi in modo ellittico può essere considerato un errore, invece è proprio voluto.

Mi parli del tuo percorso di formazione e professionale?

Mi sono laureata in filosofia a Torino, ma sono sempre stata appassionata di documentario e ho fatto un percorso di formazione prima in Francia e poi ho frequentato il corso di Daniele Segre e ho seguito anche un corso con Alina Marazzi, che stimo molto e ho avuto la possibilità di lavorare anche sul suo primo film di finzione. Il mio primo documentario La Fabbrica è piena. Tragi-commedia in otto atti, ha girato vari festival anche all’estero e mi ha permesso di conoscere il mio produttore Carlo Cresto-Dina, con cui è iniziata una collaborazione. Il mio secondo lavoro, che ha vinto il Solinas documentario nel 2012, si intitola Sponde. Nel sicuro sole del Nord, e anche questo ha girato diversi festival.

Torino negli ultimi anni si è affermata come seconda città del cinema in Italia dopo Roma, tu come ti trovi e perché hai scelto di vivere e lavorare lì?

Torino soprattutto per il documentario è una piazza molto interessante e ricca. Sia per la film commission che sostiene film interessanti e lavora molto bene, sia per la presenza di molti documentaristi attivi che fanno film e sono in rete fra di loro. Quello che manca però a Torino è la formazione, non c’è una scuola di documentario istituzionale, e questo è un peccato perché ci sono moltissimi giovani interessati al documentario e creare una scuola sarebbe un passo importante per allargare il pubblico.

Concludiamo con le domande su questioni più sindacali. Tra pochi mesi dovrebbe essere votata in Parlamento la nuova legge cinema, secondo la quale la parte più rilevante dei finanziamenti di sostegno alla produzione – circa l’80% – va ridistribuita tra coloro che hanno incassato di più nel corso dell’anno precedente. Cosa ne pensi?

È difficile dare un’opinione su due piedi, anche perché non sono un’esperta in materia. Io trovo interessante che si valuti il fatto che il film raggiunga il pubblico, cioè che si consideri positivamente la risposta del pubblico. Ma c’è un problema di fondo, che è legato alla distribuzione in Italia. Per molti film è difficile avere una buona distribuzione, quindi il processo è viziato in partenza. Bisognerebbe chiedersi come anche film di ricerca, che comunque sono interessanti per il pubblico, possano raggiungerlo. I film vanno accompagnati e portati in giro, non è la domanda che manca. Io lo vedo con i documentari, che sono film che spesso l’autore accompagna in giro per le sale e mi è capitato, a me come a colleghi con più esperienza, di avere dei risultati di pubblico eccezionali, c’è una grande curiosità e un grande entusiasmo da parte della gente, che uno non si aspetterebbe.

Tu sei iscritta alla SIAE? Lo Stato italiano, pur accogliendo la normativa europea che permette agli autori di scegliere una collecting di loro gradimento, ha deciso di non modificare la condizione di monopolio della Siae. Potrebbe però esserci una riforma interna della Siae stessa. In vista di questa, tu che tipo di gestione vorresti per i tuoi diritti d’autore?

No io non sono iscritta. Quindi non ho un’esperienza diretta. So da amici musicisti qui a Torino che ci sono state diverse class-action contro il monopolio, ma non è una questione che ho seguito in prima persona, quindi non posso dire molto di più.

Non c’è problema, sono questioni complesse, era solo per avere un’idea della tua posizione. Ti ringrazio molto e in bocca al lupo per Venezia!

L’intervista è a cura di Fosca Gallesio

Scrittori a Venezia – Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 73 Mostra internazionale d’Arte Cinematografica (31 Agosto -10 settembre 2016).

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