Scrittori a VeneziaWriters

La Writers Guild Italia è nata con il preciso intento di valorizzare e di far rispettare, sotto ogni aspetto, il lavoro professionale degli sceneggiatori e quindi anche la loro immagine pubblica. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, raccoglie e diffonde la voce degli sceneggiatori italiani, per tentare di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori e le sceneggiature vengono penalizzati dalle comunicazioni dei festival e degli organi di informazione.

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  SCRITTORI A VENEZIA

  Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori italiani presenti con le loro opere alla
  71° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (27 agosto-6 settembre)

 

Gabriele Del Grande, giornalista e autore del blog Fortress Europe, ha scritto e diretto insieme a Khaled Soliman Al Nassiry, poeta e scrittore palestinese siriano, e Antonio Augugliaro, editor e regista televisivo, IO STO CON LA SPOSA, la storia autentica di un viaggio-protesta, presentata a Venezia fuori concorso nella sezione Orizzonti. Il film è stato proiettato lo scorso 4 settembre in Sala Grande. 

IO STO CON LA SPOSA_Locandina

Io sto con la sposa

scritto da… GABRIELE DEL GRANDE

ON THE BRIDE’S SIDE is an interesting project defined “visionary” by the same authors. A docu-fiction and, at the same time, a civil disobedience action, that tells a fake marriage but a true story. Gabriele Del Grande, co-author with Khaled Soliman Al Nassiry and Antonio Augugliaro, explains us how the project’s idea was born and how it was developed, focusing, of course, also on the role of the script.

1. Ciao. Gabriele. Qual è la storia de Io sto con la sposa?

È una storia di disobbedienza civile dai toni surreali. Racconta del finto corteo nuziale, che abbiamo organizzato con una ventina di amici, per contrabbandare da Milano a Stoccolma cinque palestinesi e siriani scappati dalla guerra in Siria e sbarcati poche settimane prima a Lampedusa. Poi c’è una storia nella storia, che è come questo film è stato prodotto. Ovvero attraverso il più grande crowdfunding del cinema italiano: centomila euro raccolti in due mesi, grazie a più di duemilaseicento donatori che, come noi, si sono innamorati da subito di questa storia.

2. Com’è nato il film? Cosa vi premeva raccontare?

Era l’ottobre del 2013, e insieme a Khaled andavamo spesso in stazione centrale a Milano a parlare con le centinaia di famiglie siriane, che ogni giorno arrivano in città in fuga dalla guerra, dopo essere sbarcate sulle coste del sud Italia. Cercavamo di dare una mano, o anche solo qualche consiglio. Per Khaled era la sua gente, visto che lui è palestinese siriano. Per me, era la stessa storia che avevo seguito in Siria, coprendo la guerra come giornalista, fino al mese prima. Tra le tante persone che abbiamo conosciuto, abbiamo deciso di aiutarne cinque a continuare il loro viaggio senza documenti, verso la Svezia, dove volevano chiedere asilo. Così, li abbiamo tolti dalle mani dei contrabbandieri che speculano sulle disgrazie di questa gente. Allo stesso tempo, però, ci stavamo prendendo il rischio di essere arrestati e condannati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: fino a 15 anni di carcere. Per ridurre al minimo i rischi per noi e per i nostri cinque amici, abbiamo escogitato un piano: un finto corteo nuziale. Ci siamo detti: “Chi mai fermerebbe una sposa?”. Quando ne abbiamo parlato ad Antonio, ci ha convinto a documentare questa azione di disobbedienza civile con un film documentario. E così nel giro di solo due settimane, abbiamo scritto una sceneggiatura molto larga, messo in piedi una troupe, organizzato il viaggio, e via, siamo partiti.

3. Che peso dai alla sceneggiatura in un documentario?

Prima di girare avevamo una sceneggiatura molto larga. Essendo un documentario, non avevamo certo dei dialoghi scritti. Ed essendo un road movie, con annessi i pericoli reali di essere fermati e arrestati lungo la strada, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, non avremmo nemmeno avuto il tempo per riprendere scene troppo costruite. La nostra sceneggiatura era soprattutto una serie di appuntamenti, chiamiamoli così, lungo il viaggio. Ci eravamo, cioè, immaginati delle scene, delle situazioni in cui far emergere un personaggio, un racconto, un’immagine. La stessa organizzazione del viaggio passava attraverso questa continua ricerca estetica. Ad esempio, abbiamo attraversato la prima frontiera tra Italia e Francia, non in macchina, in autostrada, ma a piedi sulle montagne del vecchio passo della morte, da dove passavano, fino a cinquant’anni fa, gli italiani che emigravano oltralpe senza passaporto. Per noi quel sentiero, quelle immagini, erano una suggestione, una storia nella storia, un salto nella memoria. Poi, in montaggio chiaramente abbiamo dovuto dare una struttura al film, che in parte ha rispecchiato la sceneggiatura iniziale, in parte l’ha completamente stravolta. Anche perché, mentre giravamo, si sono create situazioni impreviste, racconti inattesi, immagini bellissime. Ad esempio, l’ultimo giorno di viaggio a Stoccolma, dopo una notte di festeggiamenti, alle cinque del mattino abbiamo deciso di andare in piazza a ballare. Un’idea folle, a quell’ora la piazza era deserta. Ma l’abbiamo fatto lo stesso e abbiamo ripreso tutto. E quella scena è diventato il prezioso e poetico finale del film. Allo stesso modo, potrei citarvi molte scene che abbiamo pensato, scritto e girato con tanta fatica, ma che poi non abbiamo minimamente inserito in montaggio.

4. La storia, quindi, è cambiata molto dalla prima idea al film realizzato…

La nostra non è una fiction e non è il classico documentario-intervista in camera. È vita vera in presa diretta. La storia per come ce l’eravamo immaginata, l’avevamo vissuta in pieno. Anzi, pure oltre ogni nostra aspettativa. Voglio dire che sono stati cinque giorni di avventura bellissimi e intensissimi. Immagina l’energia di un gruppo di venti persone che sta rischiando la galera per fare qualcosa in cui crede. Immagina l’ansia prima di ogni frontiera, la gioia liberatoria a ogni tappa raggiunta e l’intimità dei racconti durante il lungo viaggio in auto. Tutto questo l’avevamo vissuto in prima persona. In parte l’avevamo filmato. E a quel punto si trattava di farlo diventare un film. Prima di tutto abbiamo trascritto e tradotto tutti i dialoghi. Perché avevamo cento ore di girato su tre camere, quasi tutto in arabo. E sulla base di quei dialoghi abbiamo costruito una struttura del film, un telaio, su cui siamo andati a montare il resto. Una volta montato un rough, ci siamo accorti che avevamo bisogno di un confronto esterno con qualcuno che fosse meno dentro al film. Perché noi l’avevamo pensato, scritto, diretto e vissuto! Per questo abbiamo chiesto, a Lizy Gelber, una consulenza al montaggio. Il suo sguardo esterno ci ha sicuramente aiutato a vedere il lavoro dalla giusta distanza.

5. Quali sono i punti di forza del film?

Il punto di forza di questo film è la storia che racconta, insieme all’espressività dei personaggi e al linguaggio nuovo con cui, per la prima volta, si raccontano i temi drammatici della guerra e delle stragi in mare lungo le rotte dell’emigrazione verso l’Europa. Per la prima volta, non si parla degli “altri”, ma di “noi”, dove “noi” è un gruppo di amici italiani, palestinesi e siriani che decidono di disobbedire alle leggi sull’immigrazione, o meglio di obbedire alla propria coscienza, aiutando così cinque profughi di guerra a continuare il loro viaggio illegale dentro la fortezza Europa. Ne esce un film di avventura, dove grazie al carattere dei nostri personaggi si entra subito in empatia con il gruppo. Tanto che, alla fine del film, lo spettatore prova quasi un filo di invidia per non essere stato invitato al corteo nuziale più folle dell’anno. È anche questo un punto di forza del film. Non giochiamo facile con i sensi di colpa e la compassione, facendo l’ennesimo film di denuncia. Al contrario. Anziché dire quanto è brutto il mondo, noi diciamo: guardate come è bello il nostro mondo, un mondo dove nessuno è illegale, dove si può trovare il coraggio di dire no, la determinazione e l’ironia per ribellarsi dando vita a una maschera, a un carnevale, a una grande festa liberatoria.

6. La WGI fa queste interviste per coprire un vuoto d’informazione. Di solito, ai festival si dà poca attenzione alla scrittura. Che ne pensi di questa abitudine?

Fate benissimo!

7. Cosa vi aspettate da Venezia?

Da Venezia ci aspettiamo un trampolino di lancio. Contiamo su questa visibilità per raccontare la nostra storia magica a più persone possibile. Perché lo ripeto, oltre a un film questo è un atto politico. Un gesto di disobbedienza civile, che vuole far riflettere il suo pubblico sulla gravità di quanto sta accadendo lungo le nostre frontiere.

8. Diritto d’autore: vi sentite tutelati? Cosa cambiereste?

Siamo abbastanza inesperti in materia. Questa per noi è la prima volta. Proprio per questo però, semplificherei il tutto. Così come stanno le cose è difficile anche soltanto capire come funzioni e come convenga tutelarsi.

9. Ultima domanda: un tuo commento su quella che reputi la scena più importante del film?

Probabilmente una delle scene più belle del film è quella delle cosiddette “case Gina”, un rudere sul vecchio sentiero del passo della morte, sulle montagne lungo il confine tra Italia e Francia. Lì, negli anni passati, si fermavano per la notte gli emigranti, prima di passare la frontiera di contrabbando con un passatore. I muri sono pieni di graffiti: nomi, città, aforismi. Su quello stesso muro, carico di ricordi e di sogni, il nostro sposo ha scritto i nomi degli amici e dei parenti, morti annegati nel naufragio dal quale, un mese prima, lui si è salvato. Il testo del suo racconto è uno dei più toccanti del film. Eppure non avevamo scritto i dialoghi, né gli avevamo dato alcun suggerimento. Avevamo soltanto deciso che “case Gina” era il luogo adatto per la memoria di quel naufragio. Poi ha scelto lo sposo come. Alla fine la realtà sa essere più tragica e al tempo stesso più comica, di qualsiasi storia di finzione. Noi abbiamo soltanto provato a mettere su un binario la necessità di raccontarsi dei nostri protagonisti.

 Intervista e sinossi in inglese a cura di Mario Olivieri