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Beata Ignoranza

È nelle sale Beata Ignoranza, la nuova commedia del regista e autore Massimiliano Bruno, intrepretata da Marco Giallini e Alessandro Gassman. Insieme a Bruno la sceneggiatura è stata scritta da Gianni Corsi e dal nostro socio Herbert Simone Paragnani. Abbiamo incontrato Herbert per parlare del film, che riflette sul tema delle nuove tecnologie di comunicazione nei rapporti di amicizia e di famiglia, e ne abbiamo approfittato per farci raccontare la sua carriera da sceneggiatore, che l’ha visto autore, fra l’altro, de I Cesaroni, della commedia per teen-agers Una canzone per te e del film Buongiorno Papà.

 

Herbert sei uno dei soci fondatori della WGI, mi fai un excursus della tua carriera?

Io sono arrivato alla scrittura per quella malintesa idea dovuta alla politique-des-auteurs e i Cahiers du Cinéma, per cui il regista è l’autore del film sempre e comunque. I miei maestri sono stati Hitchcock e gli altri registi dall’America ripresi dalla critica europea, il cinema americano di Coppola e Scorsese che rielaborava anche il neorealismo italiano, ma anche della generazione successiva, quella di Spielberg. Ho iniziato frequentando i set, ho fatto l’assistente di Ettore Scola. Quello era un periodo, che adesso sembra archeologia

industriale, in cui non era facile fare un cortometraggio. Produrne uno era complesso e costoso, mentre adesso si possono girare e montare con un telefono. Quindi ho iniziato a scrivere progetti che sognavo di girare ma che non riuscivo mai a “montare”, chi leggeva diceva che era roba buona, che ero bravo. Ho sempre scritto le mie cose, solo storie per il cinema. Io sono pazzo per il cinema, quando passo davanti a un cinema di Roma, anche quelli chiusi, mi ricordo esattamente che film ci ho visto e quando. A un certo punto, tra le altre cose mi capitò di scrivere il primo corto insieme a due amici di scuola, due fratelli che poi sono diventati noti come i Manetti Bros. Inserirono quel corto in un film collettivo intitolato DeGenerazione, composto da diversi cortometraggi, quello fu il mio esordio. Dopo cercavo di realizzare progetti miei, ma era difficile. Tra le altre scrissi una cosa particolare all’epoca, un fantasy insieme ad Antonio Antonelli e questo progetto finì non so come sul tavolo di Enzo Tarquini in Rai che stava organizzando il primo corso di sceneggiatura. All’epoca Mediaset stava avendo un grande successo con Fantaghirò e la Rai si sentiva vecchia e bacucca, che non faceva le cose per i giovani. Quindi grazie a questo progetto entrammo al primo corso Rai, dove io, Brizzi e Martani eravamo i più giovani, gli altri erano già sceneggiatori professionisti che lavoravano. Fu un’esperienza fantastica: vennero Chris Vogler, Dara Marks, c’erano i grandi nomi della teoria di scrittura per il cinema. Questo corso mi fece appassionare alla sceneggiatura. Dopo il corso cominciai a lavorare a dei progetti con altri, sit-com sbagliate, puntate di altre fiction. E così mi sono trovato nel mare magnum della fiction televisiva, che mi ha allontanato dal cinema, che rimaneva però il mio grande sogno. Ma quello in televisione era lavoro pagato. La prima volta che andai a discutere un contratto, ricordo che mi avvertirono che siccome ero nuovo e giovane non mi avrebbero pagato tantissimo: venti milioni di lire… Al che io ho fatto le capriole appena fuori l’uscita: era tantissimo per me! Adesso pagano le stesse cifre, dopo vent’anni… ma lasciamo perdere. In quegli anni si lavorava molto e scrivevo una roba dopo l’altra. La cosa più importante è stata I Cesaroni, io sono stato head-writer insieme a Fabrizio Cestaro della prima stagione. La scrittura dei Cesaroni è stato un momento importante della mia carriera: gli elementi di identità della serie li abbiamo voluti io e Fabrizio. Sai che i tifosi della Lazio ancora oggi chiamano in maniera dispregiativa i romanisti “Cesaroni”? È una cosa che mi riempie di gioia! Perché è il simbolo del successo.

Sicuramente i Cesaroni hanno creato un immaginario di Roma molto potente. È una cosa per cui vi siete battuti?

Moltissimo, anzi in nessun altro caso mi è capitato di lottare così tanto per fare un prodotto preciso, come lo volevamo. Noi capivamo che il prodotto avrebbe funzionato solo a patto che rispettasse certi parametri. Doveva essere molto comico, dovevano funzionare i tre cialtroni, i due fratelli e l’oste, la dinamica dei maschi contro le femmine, con gli uomini scemi e le donne più intelligenti, ma lunatiche… soprattutto la forte connotazione non solo regionale e cittadina, ma proprio di quartiere. Non ti nascondo che abbiamo fatto molta fatica, soprattutto con la rete, ci siamo dovuti battere molto per difendere questi parametri.

Dopo essere stato ingoiato dalla televisione, come sei tornato alla tua passione originaria per il grande schermo?

In realtà era come se stessi lanciando nell’oceano della vita dei messaggi in bottiglia per me stesso. Ho partecipato a due concorsi per cortometraggi e li ho vinti entrambi con una sceneggiatura. Uno era di Studio Universal e il premio era la produzione di un corto che ho girato: Kilocalorie. La cosa che mi ha cambiato proprio la vita come autore e regista, è stato un concorso fatto da Cinecittà Digital, sotto la direzione di Felice Laudadio. Partecipai a un film collettivo di cortometraggi, Sei come sei, e il mio corto, Appuntamento al Buio, piacque molto. Partecipai anche da solo a molti festival, vinsi dei premi, passò anche in televisione, quando ancora mandavano i cortometraggi. A quel punto sono stato contattato da Cattleya che produsse il mio lungometraggio di esordio: una commedia per teenagers che si chiama Una canzone per te. Il film è carino, ma fu penalizzato dall’uscita, perché in quel periodo si cercava di allungare la stagione e uscì a Giugno!

Che per un film indirizzato agli adolescenti non è esattamente un’idea brillante uscire durante le vacanze.

No, ma io non avevo l’esperienza per poterlo prevedere e lamentarmi. Mi ricordo che fu proiettato a un festival e in giuria c’era anche Scola, con cui io avevo lavorato da giovane. Lo vide e mi disse che non era il suo genere, ma era convinto che avrebbe incassato bene quando fosse uscito. E io non ebbi il coraggio di rivelargli che il film era già uscito e che aveva incassato ben poco… Comunque dopo questo film mi sono messo a lavorare su un soggetto di Massimiliano Bruno, di cui ho scritto la sceneggiatura che è diventata poi Buongiorno Papà, diretto da Edoardo Leo. Quando ho iniziato a lavorarci non avevo in mente di realizzare il film come regista, ma sviluppandolo me ne è venuta voglia. Poi, diciamo che la delusione per non aver fatto la regia è stata mitigata dalla bravura di Edoardo Leo, che tra l’altro ha proprio scelto la mia sceneggiatura, perché era in cerca di una storia per il suo secondo film e non trovava nulla. C’è stata la soddisfazione di essere stato scelto per il valore della sceneggiatura.

Ci siamo dilungati troppo nel primo atto. Arriviamo ora a Beata Ignoranza, come sai mi devi fare il pitch.

Mamma mia…

I pitch non finiscono mai, nemmeno quando il film è in sala.

Sì, è vero… Allora il film racconta una sfida, che praticamente dura da sempre, tra due amici storici che non si parlano da 15 anni. Ora sono adulti, entrambi professori di liceo, ma completamente diversi come carattere. Uno è tradizionalista, severo, è ossessionato dai libri e anche con gli allievi ha un rapporto un po’ vetusto; mentre l’altro è molto moderno, sta sempre sui social network, tutto preso dal mondo delle app e il suo approccio di insegnamento è dire ai ragazzi: non importa più saper fare i calcoli, tanto potete usare il cellulare come estensione del vostro cervello. Ovviamente i due entrano in conflitto e fanno la scommessa di scambiarsi i ruoli. Solo che l’innesco della scommessa è l’entrata in scena di una ragazza, Nina che è la figlia di entrambi, cioè è figlia biologica di uno, ma riconosciuta dall’altro, perché i due hanno avuto una relazione con la stessa donna. Quindi in passato c’è stato questo litigio feroce che ha creato una spaccatura nei cuori di tutti. La frantumazione dei rapporti umani è ben fotografata dal caos della comunicazione 2.0. Nel film questa frattura viene ricomposta attraverso lo sguardo della figlia che decide di girare un documentario su di loro e sulla loro scommessa di entrare e uscire dalla rete. La scommessa parte quindi come una boutade, ma poi diventa una cosa seria, che porta a riflettere sulla natura dei rapporti umani in un’epoca in cui apparentemente siamo tutti molto raggiungibili, ma in realtà siamo diventati nei fatti più estranei. Il tema di fondo riguarda questioni importanti come il rapporto tra padri e figli.

Mi racconti come si è sviluppato il progetto, da dove viene l’idea di partenza?

Tutto inizia da uno spunto di Massimiliano Bruno. Noi siamo molto amici e forse sono di parte, ma sinceramente lo considero un ottimo autore e secondo me anche un po’ sottovalutato: ha scritto delle pieces teatrali incredibili. Ha un sense of humour senza pari, che forse in Italia è considerato un difetto per ottenere stima artistica. Da noi c’è ancora l’idea che il cinema alto, d’autore, sia quello drammatico. Oppure devi essere morto: lo stesso Monicelli solo in vecchiaia è stato considerato un autore, anche se ricordava le stroncature dei critici che poi lo veneravano.

Noi come WGI ovviamente questo approccio non lo condividiamo per nulla. Anzi è proprio attraverso la commedia che si riescono a raccontare le ipocrisie e i problemi profondi della società.

Sì certo. Infatti con Massimiliano e Gianni Corsi siamo partiti da una riflessione condivisa che tutta questa cosa del mondo virtuale dei social dà l’illusione di essere in contatto con un sacco di persone e di fare un sacco di cose, mentre in verità toglie tempo alle cose reali e finisce che uno fa meno cose che in realtà danno più piacere, come leggere un bel libro o passare del tempo a pensare, perché sei distratto da mille cazzate. Massimiliano aveva condiviso questo pensiero su Facebook e molta gente si era trovata d’accordo, dicevano che sentiva i sintomi di una vera e propria dipendenza. A quel punto avevamo lo spunto tematico, ma ci mancava la storia. Allora pensammo a Una poltrona per due, dove c’è il meccanismo dello scambio dei punti di vista. La scrittura è durata un anno. Ci abbiamo messo abbastanza tempo per scrivere il soggetto, perché il film ha una struttura complicata, c’è un film dentro il film. Volevamo comunque fare un film popolare, ma che non fosse la solita cosa, per questo abbiamo lavorato molto sulla struttura narrativa, che è molto particolare.

Come siete arrivati a trovare la vostra struttura?

L’idea è stata di fare una riflessione che fosse allo stesso tempo universale, ma anche capace di raccontare i personaggi e avevamo bisogno di creare diversi livelli. Per questo ci è venuta l’idea di inserire un punto di vista estraneo ai protagonisti, e abbiamo scritto il personaggio della figlia che gira un documentario su di loro e li guarda un po’ come un entomologo. La ragazza dal canto suo usa questo escamotage per conoscere e ritrovare un rapporto con loro. È un tentativo di riconciliazione. Per arrivare a ideare questo c’è voluto uno sforzo notevole, devo dire che siamo stati ben supportati dalla produzione, IIF di Fulvio e Federica Lucisano.

Le tempistiche e le modalità di scrittura come sono state? Avete scritto sapendo gli attori o sono stati definiti in un secondo momento?

Ci abbiamo messo un po’ per trovare la quadra. Avevamo un primo soggetto in cui il meccanismo delle relazioni tra i personaggi non ci convinceva e a un certo punto abbiamo proprio cambiato strada e quindi solo per il soggetto ci sono voluti circa tre mesi. Poi per la sceneggiatura altri sei mesi circa, in tutto ci abbiamo messo nove mesi: un parto. Lavorare con Massimiliano Bruno, che è molto poliedrico, dà il vantaggio di poter attingere a un parco di attori, di volti a cui ispirarsi, molto vasto. Lui fa molto in teatro e ha un laboratorio grazie al quale riesce a trovare delle pepite rare per quanto riguarda gli attori. Per esempio il personaggio del coinquilino di Gassman l’abbiamo scritto pensando a un ragazzo che frequentava i seminari di Massimiliano, che si chiama Giuseppe Ragone. Le battute del suo personaggio le abbiamo sempre recitate pensando alla sua parlata lucana, ma ovviamente lui non sapeva nulla di questa cosa ed è stato chiamato a fare il provino come tutti. E lui al provino forse ha voluto un po’ farsi notare e ha recitato le battute con un accento pugliese… ! Ed era sbagliatissimo, non è piaciuto assolutamente, al che Massimiliano gli ha detto solo: “Falla come sei te.”

Come è andata la scrittura e, una volta consegnata la sceneggiatura definitiva, hai partecipato anche alla produzione e al montaggio? Sei stato consultato?

Il film è stata un’esperienza di lavoro splendida, proprio per il valore delle persone che ci hanno lavorato e l’amicizia che ci lega. La scrittura è stato un costante intreccio di sovrapposizioni di stili e di sensibilità. Siamo stati quasi un anno a scrivere insieme e il fatto che ci vogliamo molto bene secondo me si vede anche nel film, è una cosa che passa. Con Massimiliano ci siamo conosciuti nel 2004, io nel ruolo di regista e lui di attore, poi dopo l’ho scoperto come autore e naturalmente anche come amico, e la volta dopo è stato lui che faceva la regia a chiamare me come sceneggiatore. Quindi tra di noi i ruoli sono abbastanza fluidi, e praticamente stavo sul set di Beata Ignoranza tutti i giorni, anche insieme a Gianni, anzi per noi era impossibile staccarci dal film; in quel periodo eravamo liberi e Massimiliano era felice di averci vicino. Abbiamo dato una mano come potevamo, se magari c’erano degli imprevisti di set che richiedevano un cambio di scena o risolvendo incongruenze di cui ti rendi conto solo in fase di ripresa. Sono anche nate delle gag nuove. Ma soprattutto ci siamo resi conto che Gassmann e Giallini funzionavano molto bene, sono una coppia comica pazzesca. Mi ricordano per certi versi Totò e Fabrizi. Ci sono alcune scene che Massimiliano ha dovuto tagliare per problemi di durata totale del film, ma che saranno nel dvd e sono davvero esilaranti.

Mi incuriosisce questo tema della paternità, che è un argomento che diversi film italiani hanno affrontato quest’anno: penso a Piuma, ma anche a Tutto per una ragazza, che ancora non è uscito, ma racconta del rapporto tra genitori giovani e figli. Voi come mai avete scelto questa storia di due uomini che si scoprono padri?

Dunque il tema della comunicazione nel film è fortemente legato al tema della paternità dei protagonisti. Perché la prima comunicazione che ognuno di noi apprende è quella familiare. Adesso la comunicazione tra genitori e figli è completamente sovrastata dall’idea che si possa essere vicini a chiunque possieda una connessione internet, ci si scambia continuamente materiali e messaggi con chiunque. La capacità di avere rapporti reali con

le persone è limitata, noi siamo esseri limitati soprattutto dal tempo. E quindi l’effetto è che i legami profondi poi si perdono. I protagonisti del film sono in questa condizione: hanno perso ogni legame con loro figlia. E attraverso l’idea di connettersi o sconnettersi dalla rete cercano di capire come avere una vera connessione con la persona a cui sono più legati. O con cui dovrebbero essere legati…

Ci puoi dire qualcosa dei tuoi progetti per il futuro?

Sto scrivendo un film che vorrei anche dirigere, è un progetto particolare, una storia un po’ strana, ma adesso grazie a Guaglianone e Menotti e Lo chiamavano Jeeg Robot le “cose strane” son tornate in auge. Anche se è strano solo per l’Italia, ovviamente. Comunque questo progetto unisce il mio amore per i fumetti, per le serie e per il cinema e il mio amore per la Storia, nel senso di storia del passato con la s maiuscola.

Cosa ne pensi del ruolo dello sceneggiatore in Italia, soprattutto in rapporto alla questione showrunner, che è un tema caldo per la WGI?

Secondo me noi sceneggiatori italiani non possiamo pensare di avere il potere che hanno i nostri colleghi di oltreoceano finché non ci prendiamo anche le responsabilità che loro hanno. Noi dovremmo essere produttori esecutivi delle nostre storie. E finché non si praticherà questo salto, soprattutto in televisione, il panorama italiano resterà asfittico. Perché l’innovazione di storie e linguaggi la fanno gli autori, non la fanno i dirigenti dei network o i produttori. Gli USA lo hanno capito e lo hanno messo in pratica. In Italia io penso che noi sceneggiatori in parte siamo anche complici di questo sistema, nel senso che comunque lo subiamo e non si fanno tentativi per cambiare le cose.

La WGI qualche tentativo per cambiare le cose lo sta facendo.

E infatti sono contentissimo che ci sia una Guild italiana che lavora per la categoria.

L’intervista è a cura di Fosca Gallesio

WGI si racconta – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori e tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione. Questa rassegna offre uno spazio alle singole storie professionali dei nostri soci.

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