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Scomparsa

Il nostro socio Peter Exacoustos è l’ideatore della serie Scomparsa in onda su RAI UNO dal 20 novembre, di cui ha scritto soggetti e sceneggiature insieme a Maddalena Ravagli.

Caro Peter, raccontaci con la brevità del pitch, l‘idea da cui è nata Scomparsa.

Può un essere umano riuscire a capire profondamente un altro essere umano? E’ possibile immedesimarsi fino in fondo nei pensieri di un altro? Cercare di spiegarne i meccanismi della psiche e di interpretarne le logiche della mente? Non è questo una specie di sogno irrealizzabile, e dunque già una sorta di follia?

“Se un giorno ti perdessi, mi sono detta tante volte, la mia vita non avrebbe più un senso. Quando ho deciso che ti avrei messo al mondo ho pensato unicamente a te e a me. E’ stata una scelta che ho fatto da sola.

Tuo padre, non c’era. Lui era per me solo un bel ricordo di una notte estiva. Eravamo già allora solo io e te, figlia mia. Così sei cresciuta in questi anni, unicamente con il mio amore materno. In questo però eravamo, nonostante tutto quello che si può dire al riguardo, una famiglia. Un’unità affettiva forte, indissolubile, e per questo appunto, una famiglia vera a tutti gli effetti. Ce la siamo cavata bene, io e te, e ti ho vista crescere con la gioia di chi ha sempre creduto nella forza dell’amore e della razionalità. È vero, a dirla così, sono due concetti in conflitto tra loro, l’amore e la ragione, ma anche nel mio lavoro, sono sempre stata convinta che nessuna terapia, nessuna applicazione di certezze scientifiche, nessun farmaco, possa condurre a dei risultati, senza la spinta determinante di un sentimento. Tu ora sei un adolescente, ad un passo dal diventare una donna, sei un fiore fragile che si schiude al primo sole della più bella stagione della vita, mentre io ho alle spalle, gran parte di quello che ho sognato di fare. Siamo due esseri femminili che si appartengono, e questo lo trovo bellissimo. Negli ultimi tempi abbiamo discusso, anche litigato, perché fa parte dei nostri ruoli scontrarci sulle tante piccole questioni del vivere, ma abbiamo avuto sempre la certezza di poter contare l’una sull’altra. Se ti perdessi, sarei solo la metà di me stessa.”

Eccola qui la prima suggestione che sta alla base dell’idea della serie. Risale all’ottobre del 2013. E’ passato tanto tempo, e tante cose si sono man mano aggiunte. Ma rileggendola penso che al di là della trama, dei personaggi, di tutto l’impianto narrativo, questo è quello che realmente m’interessava approfondire.

Ci sembra che sia la prima volta che firmi un soggetto di serie con Maddalena Ravagli. Com’è nata questa collaborazione, come vi siete divisi il lavoro?

E’ stata la Rai a metterci insieme. Maddalena ed io veniamo da esperienze completamente diverse, c’è una differenza generazionale, amiamo e pratichiamo anche generi molto diversi, ma ci siamo subito trovati in sintonia sulla storia. Il lavoro di costruzione sui personaggi e sulla trama lo abbiamo compiuto a stretto contatto e avevamo pensato invece di dividerci il lavoro nella fase di sceneggiatura. Poi però abbiamo capito che la cosa non funzionava. Il materiale narrativo si raffreddava. E allora è iniziata una scrittura a quattro mani intensa e sofferta, scena per scena, battuta per battuta. Una bella esperienza che ha costretto entrambi a lottare ma anche a riscoprire la capacità di ascoltare e capire le ragioni dell’altro. Era un po’ come tornare alla domanda iniziale: si può riuscire a capire profondamente un altro essere umano, per di più sceneggiatore/trice?

Ragazze scomparse. Gli eventi come quello di Yara Gambirasio e Sara Scazzi hanno dilaniato l’Italia per la loro drammaticità, ma Scomparsa affronta questo tema con un tono molto facile, molto leggero. C’è più curiosità che angoscia, più avventura che tragedia… Nessuno corre, nessuno si fa prendere dal panico, nessuno passa le notti insonne a cercare le ragazze…. Appena si scopre un indizio, subito arriva la spiegazione. Siete entrambi scrittori che sanno costruire i thriller; perché dunque questa scelta?

Il tono della prima puntata è forse ‘facile’, direi meglio: volutamente non respingente. E non è questione di thriller, ma di riuscire in avvio a non spaventare il pubblico portandolo gradualmente in una vicenda che avrà toni sempre più angoscianti e tragici.  Scriviamo per Rai Uno, per la grande rete generalista, entriamo senza invito nelle case di tanti italiani e la prima intenzione deve essere quella di metterli a loro agio, di prepararli all’ascolto di una storia che parla anche di loro, delle paure che li affliggono, dei dubbi che li opprimono, delle speranze che li animano. Dunque l’avvio di una serie come questa è un fatto molto delicato. Se sbagli tono, se sei troppo realistico, troppo ansiogeno o addirittura persecutorio nei tuoi intenti, li perdi e non li recuperi più.  Inoltre avevamo da presentare molti personaggi, una piccola comunità che doveva diventare familiare al pubblico. Abbiamo cercato un equilibrio, una sorta di sobrietà, tra l’angoscia di una madre che non vede tornare a casa sua figlia e la sua razionalità, che cerca sempre una risposta positiva alle sue paure.

Voi mettete in campo più famiglie di diverso tipo (madri single, coppie scoppiate, coppie tradizionali…) e più adolescenti problematici all’interno di queste famiglie. Come avete proceduto a disegnarne l’identità?  

Abbiamo seguito il tema e la trama, cercando di evocare personaggi e situazioni il più possibile vicini alla realtà, offrendo naturalmente uno spaccato della società civile variegato e coinvolgente. Parliamo di conflitto generazionale, di genitori e figli, del concetto di famiglia che sta attraversando una profonda trasformazione. Ci siamo fatti ispirare dalla nostra personale esperienza in merito e dalla cronaca. Ognuno dei personaggi della serie ha nella nostra testa un riferimento reale.

Avete messo in campo un bambino che tenta il suicidio, scavalcando una ringhiera. Lo abbiamo visto fare in molti film, però da parte degli adulti… Come vi siete documentati sui comportamenti degli adolescenti in questi casi? Avete avuto dei consulenti?

Come già detto, siamo partiti da esperienze personali e da fatti di cronaca. Personalmente ho frequentato per diverso tempo il centro di neuropsichiatria infantile di Tirrenia. Naturalmente abbiamo chiesto e ottenuto la consulenza di un neuropsichiatra infantile e di uno psicoterapeuta che lavora con bambini e adolescenti. I nostri consulenti hanno letto e approvato ogni singola sceneggiatura.

Dall’altra parte, avete messo in campo una psichiatra che sembra essere accusata di molte colpe… Volevate affrontare anche la tendenza eccessiva a medicalizzare i comportamenti dei bambini, degli studenti?  

In verità, no, non abbiamo mai avuto questo intento. Volevamo semplicemente mettere in scena, una dottoressa molto attenta e coinvolta nella vita dei suoi piccoli pazienti, che scopre di avere invece grosse difficoltà a capire le esigenze della sua unica figlia.  Quello che in realtà accade alla gran parte dei genitori: essere spesso molto concentrati sul proprio lavoro al di fuori dell’ambito familiare e scoprirsi carenti negli affetti più profondi, impreparati a rispondere alle domande dei propri figli.

I dialoghi sono pieni di dichiarazioni d’intenti, di più o meno sagge considerazioni che gli adulti si scambiano sul come comportarsi con i ragazzi. C’è un po’ – sotto sotto – un intento pedagogico? Guardate e imparate? O magari, guardate e vergognatevi?

No, assolutamente. E se questo traspare mi dispiace e ne sono mortificato. Quello che abbiamo cercato di mettere in scena sono risposte che i nostri personaggi, i genitori della storia, cercano di dare con banale buon senso, ognuno con il bagaglio culturale che possiede, ognuno con il proprio carattere. Nessuna pedagogia né tantomeno un intento morale. Ci siamo sempre posti, nel limite del possibile, la domanda che cosa avremmo fatto noi, cosa avremmo detto se fosse capitato a noi, come avremmo reagito. Tutto qui.

Siete entrambi genitori con figli adolescenti: pensate che ci sia una colpa degli adulti nei loro confronti o la linea d’ombra, la contrapposizione tra adulti e ragazzi sia un fattore vitale, un banco di prova ineludibile?

Anche se lo scontro generazionale fa parte di quei cicli antropologici che segnano l’evoluzione dell’umanità, indubbiamente il nostro tempo è caratterizzato da un fatto ineludibile: che il mondo che lasceremo ai nostri figli è in qualche modo peggiore di quello che i nostri genitori hanno lasciato a noi.  Questa è una realtà che ormai è entrata a far parte del nostro pensiero comune da ormai due o tre generazioni. Dunque il senso di colpa c’è, e mina profondamente l’autorità che gli adulti dovrebbero rappresentare. Noi abbiamo contribuito a depauperare qualcosa che invece andava serbato o addirittura accresciuto per le generazioni future. E non parlo solo di risorse materiali, economiche o naturali, ma anche di qualcosa che ha a che fare con le idee e le più intime speranze. Di conseguenza il meccanismo vitale, la contrapposizione rinnovatrice tra le generazioni si è inceppato, fatica a funzionare. Forse stanno cambiando troppe cose contemporaneamente, il concetto di famiglia, quello di coppia, la differenza tra i sessi, i ruoli sociali. A mio avviso siamo ad un passo da un cambiamento epocale nel quale la scienza riscriverà le regole della riproduzione. Tra cento anni, o forse anche prima, gli esseri umani potranno essere generati fuori dall’utero materno, in ectogenesi, per divisione embrionale, per partenogenesi o per clonazione. Esisteranno immagino, forme molto diverse di convivenza, non più dettate dal legame di sangue. Forse non ci saranno più figli e genitori, almeno non nell’accezione che intendiamo adesso. E tutto ciò in qualche modo già si percepisce. Viviamo già in una condizione di vigilia.

I ragazzi sono disegnati con vivacità più nei lati negativi che in quelli positivi: arroganti, rissosi, egoisti, diffidenti, incoscienti… Volevate che apparissero come visti dai genitori che non li capiscono, o pensate che sia una descrizione realistica delle nuove generazioni?

Tutte le generazioni erano generazioni perdute di qualche cosa e lo erano sempre state e sempre lo sarebbero state…’ scriveva Ernest Hemingway quasi un secolo fa. E’ chiaro che il punto di vista portante è quello di Nora, una madre, e che l’elemento scatenante della nostra storia, è la fuga irrazionale di due adolescenti. L’incomunicabilità tra le due parti fa parte delle peripezie che entrambi, genitori e figli devono affrontare. Non credo che l’arroganza o l’egoismo siano gli elementi caratterizzanti dei nostri giovani protagonisti, piuttosto l’estrema fragilità. L’adolescenza è un’età fragile in cui tutto si può rompere o ricomporre. Gli adolescenti contemporanei hanno molte meno barriere, contro cui spingere, ma anche alle quali aggrapparsi. Davanti a loro vaste possibilità, a volte infinite, dei veri e propri baratri sui quali si affacciano con incoscienza e inesperienza. Un tempo era molto più facile, cozzare contro l’autorità, l’autoritarismo, degli adulti. Ci si faceva male, ma non ci si smarriva. Ecco, perdersi, è uno dei pericoli che i nostri adolescenti corrono costantemente, e noi genitori, noi ex adolescenti, ne siamo in qualche modo responsabili.

Avete ambientato la vicenda sulla costa adriatica. Perché? Cosa vi interessava raccontare delle ricche Marche che si affacciano sul mare?

In realtà abbiamo cercato in San Benedetto del Tronto, l’atmosfera del fuori stagione, una comunità alla vigilia dell’estate, fulcro economico di ogni attività. Questa cittadina aveva le caratteristiche perfette per la nostra trama. Non troppo grande, con vocazione turistica balneare specializzata però su una clientela italiana di famiglie con bambini. Non Rimini e Riccione per intenderci, dove lo sballo, le discoteche, la vita notturna fanno parte del pacchetto, ma una dimensione tranquilla, rilassante. Un microcosmo dove ci si conosce tutti almeno di vista, i figli vanno a scuola con i figli degli altri amici e vicini, le attività s’intrecciano e se qualcosa di brutto accade, tutti ne sono in qualche modo coinvolti e partecipi. In più un centro antico, ma anche quartieri moderni. Un hinterland di piccole industrie fiorenti, di ricchezza imprenditoriale nascosta. Difficoltà delle periferie, ma non eccessivo degrado. Disparità sociale, ma non tale da far esplodere conflitti. Presenza di extracomunitari, ma con un tasso d’integrazione e tolleranza maggiore che in altre realtà. Insomma un luogo che potesse rappresentare una media nazionale, in cui chiunque, sia al nord che al sud potesse riconoscere qualcosa del proprio territorio. E infine, il mare e la riserva naturale lungo il fiume Tronto, elementi paesaggistici, raccontati come luoghi inquietanti, come spazi in cui perdersi, cadere e morire.

Si sente un grande interesse a descrivere una piccola comunità, a metà tra la vecchia cultura contadina e la prassi consumistica attuale… Una comunità che appare spezzata al proprio interno, nonostante la bella apparenza di società accogliente, luogo di divertimento. Volevate allargare il discorso all’Italia e dire che è questo il problema anche del nostro Paese con la p maiuscola?

Se questo si evince dal racconto vuol dire che abbiamo lavorato bene. Come già detto,  la trasformazione in atto non è soltanto nella singola unità familiare, ma in tutto il tessuto sociale.  Nei rapporti tra le istituzioni e i cittadini.  Il consumo, l’attingere senza ritegno, da ciò che l’economia offre, ma anche dai sentimenti che le giovani generazioni più fragili mettono in campo, genera corto circuiti che spesso, troppo spesso, sfociano in atti criminali. Non intendo anticipare il seguito della vicenda raccontata nella serie, ma è evidente che questa comunità che raccontiamo ha fatto delle giovani vittime, forse consapevoli, ma comunque giovani vittime femminili, sacrificate prima del rito consumistico estivo.

Ci sono molte serie straniere che parlano di adolescenti scomparsi in una piccola cittadina. Citiamo per tutte Broadchurch e Stranger things. Le avete tenute in considerazione? Se no, quali sono le vostre fonti d’ispirazione?

Sicuramente la prima. La seconda non era ancora uscita mentre noi già avevamo ultimato le sceneggiature. Broadchurch  è un prodotto seriale di altissima qualità, del quale ammiriamo la sapienza e la sensibilità della scrittura. Certamente più cupo e angosciante del nostro. Era un modello da perseguire, ma anche un metro dal quale discostarci per essere più in linea con le esigenze di un pubblico generalista italiano.

Scomparsa sta avendo un grande successo di pubblico e quindi, da scrittori, te ne chiediamo – se lo conosci – il segreto… Avevate in testa un format preciso che potesse piacere? Contavate sulla curiosità accesa e talvolta morbosa di chi segue Chi l’ha visto? Oppure?

No, non abbiamo mai voluto far leva sulla morbosità del pubblico. Semmai sulla banale attrazione verso il dramma umano, sul coinvolgimento tutto italiano per le disgrazie altrui. Credo che questa sia una caratteristica del nostro popolo, cresciuto nel cattolicesimo: nonostante tutto provare compassione per ciò che affligge il prossimo; e nella compassione, riflettere su se stessi, sugli errori fatti, sui pericoli scampati. Il successo, o meglio, il fatto che il pubblico si affezioni ai personaggi e alle loro disgrazie, scaturisce proprio da questo, da quanto esso diventi compartecipe dei guai dei nostri protagonisti, da come li possa confrontare ai propri, e dal desiderio di trovare risposte. In generale credo che l’attenzione del pubblico televisivo di Rai Uno su Scomparsa sia dovuta al fatto che raccontiamo una vicenda molto vicina alla realtà, abbastanza semplice nell’assunto, rapporti e conflitti che fanno parte del quotidiano di ognuno. Una banale quotidianità da cui improvvisamente può scaturire il dramma.

Ti chiediamo tre aggettivi per definire Scomparsa e per invitare chi ci legge a seguire la serie.

Rispondo con un pizzico di ironia: semplice, sincera, nostrale.

Ti sembra che la serialità italiana si stia ponendo il problema del proprio futuro, che si stia evolvendo anche nello scrigno più tradizionale dei canali generalisti? Cosa suggeriresti?

Penso che la serialità italiana se lo sia già posto il problema del futuro e abbia risposto con grande creatività, ritagliandosi già un piccolo spazio di ammirazione all’estero. Maddalena Ravagli meglio di me può raccontarvi quanta credibilità serie come Gomorra si siano guadagnate nel contesto internazionale, facendo da apripista per altre proposte. Per quanto riguarda lo scrigno generalista, sono meno ottimista. Molte cose sono cambiate, ma non so se davvero in meglio o con prospettive precise di evoluzione. Vedo in realtà tra le tante idee nuove, anche molti errori, molta improvvisazione e superficialità. Anzi direi anche molta supponenza. Ho il timore che si guardi il pubblico dall’alto, che si voglia scegliere a chi dedicarsi con più cura e attenzione e chi invece disprezzare e abbandonare. Questo mi spiace molto. Perché sono ancora convinto che la ragion d’essere di una tv generalista sia proprio quella di interpretare e rispondere ai bisogni affabulatori di tutti.

Anche per quanto riguarda la scrittura siamo ad un punto di svolta, in cui si devono avvicendare generazioni. La verità è che esistono pochi maestri di cui fidarsi, e che hanno curato il passaggio di consegne, quel famoso testimone di qualità e dedizione che poi, al di là delle idee, premia la fattura di un prodotto seriale. Do atto alle nuove generazioni di scrittori televisivi, che in Italia sono scomparsi i modelli di riferimento, e che per forza di cose essi vanno cercati altrove, all’estero o in altri ambiti culturali.

L’intervista è a cura di Giovanna Koch

WGI si racconta – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori e tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione. Questa rassegna offre uno spazio alle singole storie professionali dei nostri soci.

Questa intervista WGI è apparsa anche sul sito di Anonima Cinefili.

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