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Dialoghi sulla Figura dello Sceneggiatore

Dardano Sacchetti

“Lo sceneggiatore è un creatore di mondi”

Dal 1971 è stato sceneggiatore di più di 250 opere tra film e serie tv, ha collaborato con registi quali Dario Argento, con cui ha dato inizio alla sua carriera, Mario Bava, Lucio Fulci, Michele Soavi e molti altri, Dardano Sacchetti è un maestro di quel tipo di narrazione che sa cogliere tutte, ma proprio tutte, le sfumature del noir. Lo sceneggiatore “è un creatore di mondi, unici, paralleli, impossibili, suggestivi, terrificanti, falsi come una storia da cinema”, dice il maestro che ha attraversato oltre 5 decenni di cinema e televisione, epoche che Sacchetti ha trasgredito e pervaso di una sua personale poetica esistenziale e professionale.

Intervistare una personalità come Sacchetti impone un passo indietro, in segno di rispetto, bisogna solo sedersi ad ascoltare, per rendersi conto di chi si ha di fronte e godere a pieno di ciò che ha da dire.

Il dialogo con lui inizia così, con una sua suggestione

Snoopy è sul tetto della sua cuccia. Scrive a macchina: ‘Era una notte buia e tempestosa’. Attenzione, non scrive “La notte è buia e tempestosa”.  Non cerca la didascalia, ma la suggestione. Perché? Forse è meglio cominciare dal principio, cioè dalla domanda che avevi messo per ultima.

Cosa consiglierebbe ai suoi colleghi di oggi e a chi si approccia al nostro mestiere?

Strade buie, vicoli, vicoli maleodoranti, tram di notte, di giorno, di sera, di pomeriggio, vuoti, pieni, sempre senza biglietto quando sale il controllore perché la vita è sempre in agguato, in ogni istante, con le sue storie di cose, di uomini, donne, vecchi, assassini, moribondi, fascisti, notai, merdosi, compagni che si ricordano di lanciare a Mike un pezzo di carbone, bambini…

È lo sguardo dei bambini che seleziona, che intuisce, che strappa l’ipocrisia, la carne delle storie all’anonimato e le fa diventare STORIE DA CINEMA.

È dal 1967, che scrivo storie da cinema. Prima ho scritto due poesie per l’Unità, poi Dollaro per il teatro, quindi cinema. Come è cominciato? Come tutte le storie migliori: rubando. Non una idea (cosa volgare), ma una agendina ad uno di Bagnacavallo. Nell’agendina c’erano i telefoni di tutto il cinema italiano. Eravamo in piazza Navona a marcare il territorio. Un mio amico voleva conoscere Dario Argento. Telefonai. Dissi “Un mio amico ti vuole conoscere”, “Venite, mi è appena nata una figlia” fu la risposta e un paio di mesi dopo mi ritrovai in tasca un milione di lire in contanti. Avevo venduto il mio primo soggetto e del cinema non sapevo assolutamente niente.

Mi darebbe la sua personale definizione di “sceneggiatore” all’interno di una produzione cinematografica o televisiva?

La definizione che mi chiedi per uno sceneggiatore è “CREATORE”. Lo sceneggiatore è il creatore di storie, drammi, commedie più o meno umane, personaggi, caratteri, paranoie, infatuazioni, enigmi, misteri. È un CREATORE DI MONDI unici, paralleli, impossibili, suggestivi, terrificanti, falsi come una storia da cinema. Perché la caratteristica principale di una storia da cinema è di essere falsa e l’abilità dello sceneggiatore sta nel renderla reale. La difficoltà è rendere suggestione cinematografica la realtà nuda. Le storie sono materia grezza per il cinema, ma non basta una trama per fare di una storia, un film. Bisogna cogliere la sua anima e raccontarla nel modo migliore.

Ad Hollywood, Brecht si alzava ogni mattina e andava al mercato delle idee. L’ho fatto anch’io. Abitavo ai Parioli, quartiere che pullulava di produzioni. Tutte le mattine entro mezzogiorno avevo venduto un soggetto e avevo un anticipo, spesso in contanti. Il segreto? Snoopy. Condire le storie di suggestione sin dalla prima parola, l’incipit. Una storia è come una ragazza nuda e tu sei il suo Armani che la veste e la rende affascinante, seducente, elegante, bella, intrigante, misteriosa, attraente, normale eppure unica ed impossibile. Questo è un vero sceneggiatore, gli altri sono sartine da boutique di quartiere, che però conoscono un mestiere fatto di abilità, precisione, perfezione. E hanno una grande qualità: l’umiltà che permette loro di fare gioco di squadra. Io ho l’arroganza del talento. Ho una visione a 360 gradi ma non faccio gioco di squadra.

Quanto peso aveva in passato, nella sua epoca, lo sceneggiatore nel determinare il successo di un’opera audiovisiva e quanto ne ha oggi, a suo avviso?

In passato contava l’opera, non lo sceneggiatore. Gli sceneggiatori vanno, gli sceneggiatori vengono. Gli unici a star fermi sono attori e registi. I critici si occupavano solo dei DIVI o, al massimo, dei registi se erano già noti. I produttori facevano maneggi più illeciti che leciti, spesso rischiando la bancarotta e per soli due motivi: vanagloria (frequentare il bel salotto di Morazzani, scoprire una star, vincere un premio) o una americanata di auto o di casa che soddisfacesse i sogni altoborghesi da cui sono afflitti tutti i circensi del cinema. Nessuno si occupava dello sceneggiatore perché il fascismo, insieme al festival di Venezia, ci aveva lasciato in eredità la figura del regista come unico deus ex machina, unico autore, unico DUCE, come andava di moda. A Venezia c’era un solo premio, il Leone che andava solo al regista, ma spesso rubato dal produttore. Fu il povero Volpi ad inventarsi due premiucci agli attori per animare le serate del dopofestival.

E quanto variava e varia la sua influenza in base al genere del prodotto?

Lo sceneggiatore non aveva alcuna influenza sul genere del prodotto, che era competenza del sistema industriale, ovvero del distributore e quindi dei proprietari di sala che potevano rifiutare certi film o fare carte false per averne altri in lunga programmazione, a scapito di altri film meno da weekend familiare. Considerate che gli Amati (n.d.r.:  Edmondo Amati, produttore, era stato uno dei protagonisti della migliore stagione del cinema italiano insieme a Carlo Ponti, Dino De Laurentiis, Goffredo Lombardo) diventano distributori (quindi grandi produttori) perché nel dopoguerra avevano affittato un cinema dalle parti di ponte Milvio, dove programmavano incontri di boxe che attiravano torme di tifosi. Il film veniva proiettato come riempitivo tra un incontro e l’altro. Però, c’è sempre un però, lo sceneggiatore era come l’aviatore di Brecht, aveva una testa, pensava. E spesso era diabolicamente astuto nel suo pensare e riusciva a far passare “pizzini” di politica in mezzo a commedie e commediacce. Quest’arte nasce col neorealismo. Periodo d’oro per gli sceneggiatori. Menti diaboliche.

Ci può parlare, se esistono, delle differenze nel modo in cui il pubblico deli anni ‘60/’70/’80 percepiva il ruolo degli sceneggiatori rispetto a oggi?

Non c’è alcuna differenza. Il pubblico era, è e sarà sempre fragile rispetto alle voglie della sua pancia. Fate un gioco: chiedete una sera a cena agli amici di farvi il nome di 5 registi e loro faranno questi nomi. Poi chiedete di fare il nome di 5 sceneggiatori. Scommetto che molti amanti di Sorrentino non hanno chiaro il ruolo di Contarello, che è costretto da quasi nonno a debuttare per farsi notare.

Prima gli sceneggiatori godevano di maggiore o minore libertà espressiva rispetto a oggi? Si sperimentava di più?

La libertà espressiva è totale per uno sceneggiatore, ma non coincide con la sicurezza di lavoro. Il lavoro è assicurato dalla commerciabilità del prodotto, sta all’abilità dello sceneggiatore “raggirare” produttore (cosa facile) e regista (cosa quasi impossibile dato l’ego stratosferico dei registi). Una volta un produttore mi disse “Sacche’ sta storia non mi piace. Non ci ho capito un cazzo, ma tu sei uno bravo, che ci azzecca, quindi te la compro”, e tirò fuori il libretto degli assegni. Il settanta per cento dei miei film incassava dieci volte l’investimento. Non ho creato solo storie: ho creato anche una pattuglia di miliardari.

Si è mai dovuto misurare con forme di censura o autocensura?

Misurarsi con la censura? Scherzi? Allora c’era il Sant’Uffizio, Andreotti, il settimanale cattolico che selezionava i film. Accattone veniva bruciato, come Ultimo tango a Parigi. Il David di Donatello nacque in contrapposizione a Venezia, troppo laica. È dal 1971 che sto sulla lista nera della Rai. Ogni 5 anni mi richiamano e immediatamente si pentono. Perché, come mi ha detto uno importante con una vagonata di prodotti cari alla sinistra, come creatore di strutture sono forse uno dei migliori, ma sono totalmente inaffidabile.

Lei era una firma di punta negli anni d’oro del cinema italiano: cosa rimpiange di quei tempi? Cosa le manca?

Degli anni d’oro mi manca la ribalderia, perfino un certo bullismo esistenziale, la voglia di rischiare (non a caso sono gli anni del post ‘68). Oggi sono tutti allineati e coperti, nessuno vuol perdere la fiducia dei vari padroni dei vari vaporetti. È morto Alvaro Vitali, attore scarso e poco fortunato, ma protagonista inconsapevole, insieme a tanti altri, di quella piccola rivoluzione sessuale che con la scusa di far ridere e smanacciare qualche chiappa dette i primi assalti alla morale reazionaria che imperversava. Ad aprire la breccia di porta Pia non furono i film di Pasolini (riabilitati dopo) ma robetta come l’Insegnante, Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda, Viva la foca

Oggi i funzionari Rai ti chiedono “in che rapporti sei col mio capo”.  E sei automaticamente fuori. Per me si scomodò la segreteria del Psi.

Cosa c’era allora che rendeva questo lavoro speciale, rispetto a oggi, in tempi nei quali fare questo mestiere diventa sempre più complicato?

Un tempo, senza fare mitizzazioni, si era più liberi perché la reazione negativa e la conseguente stangata arrivava sempre in ritardo. Oggi le comunicazioni sono immediate. Non puoi scambiare quattro chiacchiere sorbendo un aperitivo perché quello che stai dicendo, addirittura pensando, è già divulgato e fa subito scattare la censura.

Una domanda di carattere generale: per il nostro mestiere, era meglio prima o anche oggi non ci possiamo lamentare?

Quando hai successo, sia che ci sia il sole o il temporale, non hai mai motivo di lamentarti. Il problema nasce con l’insuccesso, perché questo mestiere è SENZA PARACADUTE. Se ti capita, per qualsiasi motivo, una mano negativa rischi di pagarla per molto tempo, anche per sempre.

Lei è un maestro del cinema di genere, ma non solo. Qual è lo stato di salute della scrittura “di genere” oggi? 

Maestro è una parola grossa, spesso abusata. Ho pagato molte bollette della luce e del telefono grazie al cinema di genere. Ho avuto la fortuna di azzeccarne qualcuno. La scrittura di genere gode ottima salute. Molte cose di oggi sono in realtà di genere anche perché il genere ha allargato i suoi confini. Il sociale è diventato un genere, come il femminile, il lavoro, la saga familiare, il remake. La differenza sta nel fatto che ho sempre cercato di scrivere archetipi, mai prototipi e tantomeno serialità che, grazie all’imposizione delle tv americane, è diventata un must.

Il cosiddetto “poliziottesco” di cui lei è stato a lungo uno dei maggiori esponenti, aveva dei risvolti politici e di critica sociale, o era solo una sorta di “riflesso incondizionato” dei tempi particolarmente tesi e violenti che l’Italia stava attraversando?

Il poliziottesco all’italiana (La polizia ringrazia, Steno) nasce come voglia di ordine dopo il caos (leggi: paura) del Sessantotto. Non solo il caos italiano. Basta pensare a Berkeley, ai figli dei fiori, alle barricate del quartiere latino e il generale Massù, quello di Algeri.
Il poliziottesco ha successo presso il pubblico delle “canotte” (periferie) non per motivi politici (dopo si sarebbero innamorati degli action movie di arti marziali). I produttori capiscono subito che quel tipo di film piace al potere. Non c’è censura, finanziamenti facili e il set (cioè le strade cittadine) costano poco o niente. E la polizia presta volanti, divise, truppe da usare come comparse. Meno di cento milioni a film con incassi che superano a volte il miliardo.  Dagli spaghetti western si succhiano cinismo e violenza insistita (Leone, un mito che andrebbe riletto con minor indulgenza) e si mescolano con la strada, il Mandrione (n.d.r.: quartiere popolare di Roma, in zona Casilino, spesso usato come set urbano per i film polizieschi), la periferia, il commissariato di zona, il furtarello cattivo (vatti a riguardare gli stilemi nel neorealismo, la cucina del cinema commerciale italiano ha in testa il maiale, di cui non si butta via mai niente). Io cosa c’entro? Le mie colpe s’annidano nei miei amori. Il noir francese, Josè Jovanni, Melville, soprattutto l’immenso Godard. Ho visto 32 volte Fino all’ultimo respiro e 33 volte Vivre sa vie, in meno di un mese. Il mio primo poliziesco è un omaggio a Melville: Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide.

Non lo ha capito nessun ma Tomas Milian mi scoprì allora e mi volle amico. Le mie storie erano storie e non esternazioni di odio verso il sottoproletariato. Mi divertivo e stavo attento a non farmi scoprire. Quando il fascismo non più occulto di certi film sfiorò la strategia della tensione mi incazzai. Così inventai il personaggio del Monnezza, col quale distrussi la credibilità del commissario di ferro. Ad avere una crisi di nervi fu il povero Merli, ma da quel momento scomparvero i poliziotteschi. Di quel periodo ricordo con molto affetto il protomonnezza, ovvero il Gobbo, omaggio a quello vero del Quarticciolo. Era un venerdì. Alle quattro mi chiamò un produttore amico. S’era mangiato i soldi di un finanziamento per comprarsi una villa da tycoon. La distribuzione reclamava il film e lui non era pronto. Non aveva neanche una piccola idea di soggetto. Aveva solo un regista, col quale avevo molto lavorato e conoscevo bene. Lui, mi disse, era obbligato ad iniziare le riprese lunedì. Mi dette un anticipo, andai a casa e cominciai a scrivere verso le nove di sera del venerdì senza neanche una scaletta, neanche un suggerimento. Domenica mattina, senza aver chiuso occhio per un secondo, consegnai la sceneggiatura al regista. Il film costò 114 milioni e incassò due miliardi e ottocentomila. Fu un successo clamoroso che mi permise di realizzare il Monnezza e chiudere un’epoca. Tutto grazie a undici pacchetti di Marlboro light e due bottiglie di vodka Moskovkaja.

Secondo lei il ruolo dello sceneggiatore è anche sociale e politico e, se sì, in quali termini? Se no, perché?

Tutto ciò che si fa è politico, soprattutto lo scrivere.

Secondo lei, quanto è conosciuta la figura dello sceneggiatore dal grande pubblico?

Nessuno sa chi siamo. Ho scritto in tutto 284 sceneggiature. Al massimo ci sono due o tre individui che mi associano ai film di Fulci, senza averci mai capito una passera secca.

Quanto sente o non sente riconosciuto il suo ruolo e la sua originalità creativa nelle fasi di sviluppo di una storia?

Mai, non è mai capitato che mi senta capito durante lo sviluppo di una storia. Sono un lupo solitario scrivo senza far leggere niente a nessuno. Alla fine ascolto solo Lisa. Lei non era solo una amante, una moglie, una sceneggiatrice, la madre dei miei figli, era la mia psicanalista. Facevamo splendidi viaggi nell’oltre e anche nel laddove, oltre le stringhe quantiche che ancora ci uniscono.

Le è mai interessato l’aspetto del “riconoscimento” o ha prevalso principalmente l’interesse per la scrittura e null’altro?

Non mi è mai fregato niente dei riconoscimenti, sia perché non ho grande stima dei lavori che ho fatto, sia perché non era la piscina in cui volevo nuotare o il tram che volevo guidare, per usare altra metafora. Solo una volta mi sono incazzato. Quando lessi sul Messaggero e su Paese Sera l’intervista di un noto regista che raccontava di quando sulla spiaggia a Marrakesh ebbe un incubo che poi in albergo si trasformò in un film. Non amavo e non amo le menzogne. E i furti vigliacchi. Gli feci una telefonata, gli dissi che gli avrei spezzato tutte le ossa due volte. Ero un sessantottino cattivo, aula VI di lettere, servizio d’ordine. Venivo dritto dritto da luglio ‘60, da Nuova resistenza. E delle gerarchie cinematografiche non me ne fregava niente. Ho mandato affanculo tutti i più grandi, italiani ed esteri.

La gente sa davvero “chi scrive” le storie che guarda?

No, la gente ignora del tutto chi scrive le storie che guarda.

Ritiene sia giusto dare maggiore visibilità agli sceneggiatori come parti integranti nel processo creativo di un’opera?

Lo strapotere delle tv americane prima ha imposto le scuole di scrittura per uniformare e soprattutto conformare il prodotto, poi ha parcellizzato il lavoro. Uno sceneggiatore difficilmente scrive un copione, di norma fa parte di una squadra e il suo compito sta nello scrivere una parcella, come dicono gli agronomi. Si tratta di coltivazione intensiva, non scrittura creativa. Diverso è il cinema, lo sceneggiatore ha il lavoro finché non gli viene tolto, a volte dal produttore, spesso dal regista che non vuole altri padri intorno alla sua opera

Cosa dovrebbero fare i media e l’industria per dare più visibilità agli sceneggiatori?

I media e l’industria non vogliono che lo sceneggiatore abbia visibilità. Vogliono il controllo assoluto del processo creativo e di sviluppo. Lo sceneggiatore per motivi diversi può essere la zeppa negli ingranaggi perfetti di uno sfruttamento totale

Quanto reputa importante per gli sceneggiatori unirsi in associazioni o collettivi per difendere i propri diritti e valorizzare la propria figura professionale? E cosa c’è da imparare da realtà simili estere come Writers Guild of America? Lei ha mai fatto parte di qualcuna di queste realtà?

Solo le associazioni possono combattere questo sfruttamento, ma io di associazioni cazzute pronte a lanciarsi contro i mulini a vento non ne vedo. Al contrario ce n’è una che ha barattato i diritti degli autori con comode poltrone. C’è sempre più bisogno di associazioni. Cosa c’è da imparare dalla Writers Guild of America? La consapevolezza di essere insostituibili come creatori di storie quindi di avere la forza dello sciopero. Cercare e ottenere rispetto. RESPECT. Ho contribuito alla nascita della prima associazione di sceneggiatori in Italia. A me sarebbe piaciuto lottare a muso duro, ma c’era chi già allora preferiva i compromessi storici. Oggi la Siae ci impone la sua favoletta sugli anticipi degli anticipi e nessuno sa in realtà quanto gli spetta come diritto d’autore e nessuno protesta quando ripassano per la cinquantesima volta Pretty Woman pur di non dare un film italiano.

L’ho capito quando mi è mancato il lavoro, lo scontro quotidiano contro il conformismo culturale, la gioia di trasgredire e gli assegni che piovevano come grandine. Mi è capitato anche un cabriolet che ho incorniciato. Tratto su una banca di Panama.

Cosa le piace di più di questo mestiere?

Mi piace creare mondi, manipolare storie e caratteri, inventare, abbattere ogni recinto alla mia fantasia. Mi piace l’isola che non c’è ma non sono un Peter Pan, sono troppo comunista.

Quali sorprese le ha riservato la sua esperienza come sceneggiatore? Quali delusioni?

È la vita che ti dà sorprese e delusioni. Il lavoro ti dà denaro (che svanisce presto), smarrimento esistenziale e grandi inimicizie.

Qual è la cosa più difficile del nostro mestiere?

La cosa più difficile del nostro mestiere è tenere la schiena dritta anche dopo che ti sei fatto tre martini all’Harry’s bar, mixati da Pasquale che mi manca molto.

Quali sono stati i suoi maestri?

Non ho avuto maestri, a parte i miei tre favolosi anni di Liceo al Mamiani, ma ho visto molti brutti film. E qui torniamo a cosa consiglierei. Guardare film, guardarli tutti, senza filtri, possibilmente in sala, da soli, al primo spettacolo. E rivederli almeno tre volte, perché solo la terza volta entri nella grammatica e nell’armadio. Quelli belli ti incantano, ti stregano, vorresti copiarli ma non ci riesci mai e ti incazzi perché mostrano i tuoi limiti. I film brutti, pessimi, scarsi sono migliori maestri. Ti mostrano tutti gli errori da evitare.  Dovendo fare un cocktail, direi tre capolavori e dodici schifezze a settimana.

Quali sono secondo lei i migliori talenti in circolazione oggi, parlando di sceneggiatori? Si rivede in qualcuno?

Dal 2005 (due, tre timide apparizioni alla Libreria del Cinema dove si riunivano i 100Autori) ho smesso di frequentare il cinema e i suoi ambienti. Vivo isolato in campagna, non ho anima viva nel giro di chilometri, parlo con i miei gatti cani e galline. Però nel 2005 quando nessuno sapeva chi fossi mi intrufolai clandestinamente nel blog dei 100autori e scambiai una mezza dozzina di email con un noto sceneggiatore, quasi Oscar. Incrociammo le lame per poco tempo, ma fu per entrambi un’esperienza gradevole. Avevo grandi amiche che mi mancano. Stava nascendo la SACT e ci si incontrava in un bar a pochi passi da piazza Navona.

A quale o quali film è più legato, e perché?

Sono molto legato al Diavolo sulle colline, tratto da Pavese. A Reazione a catena, proiettato per sette anni di fila sia a Londra che a Los Angeles. Era una gustosa metafora del ‘68, vinse anche un festival. A Sensi, che mi ha permesso di passare sei meravigliosi mesi di amicizia con Monica Guerritore e Gabriele Lavia, prima dell’intervento trumpiano del produttore. Sono anche legato a Dino De Laurentiis. Dopo il mio secondo film mi fece un contratto in esclusiva per dieci film in tre anni. Londra, Parigi, New York, Amsterdam, Madrid. Mi fece girare il mondo come un Vip, sembrava cinema. Tutto il resto, come direbbe il maestro dell’errore, è cucina.

Vuole aggiungere qualcosa?

Personalmente ritengo che il vero autore di un film sia chi lo pensa e gli dà anima, lo sceneggiatore. Lo dimostrano i remake. Cambi attori, registi, direttori della fotografia, ma la storia quella è e quella rimane. Un po’ come la lirica: le repliche si affidano a tenori e soprani diversi, a diversi direttori d’orchestra, ma l’autore della Traviata resta Verdi.

L’intervista è a cura di Adriano Chiarelli

Dialoghi sulla Figura dello Sceneggiatore – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori e aggiunge questa collana alle altre serie di interviste ai propri soci.