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Psycho killer, tra reale e onirico

Amy Pollicino racconta il suo nuovo romanzo

“I miei vestiti lisi la mia povertà il mio amore”. Con la frase dello scrittore Francis Scott Fitzgerald si apre “Psycho Killer”, ultima fatica editoriale della nostra socia Amy Pollicino, che mette al centro una Roma noir con l’importanza di luoghi simbolo come Castel Sant’Angelo e l’Hotel Quirinale di Via Nazionale.

Carissima Amy, il tuo romanzo “Psycho Killer”, pubblicato da Giulio Perrone Editore, è da quasi un mese in tutte le librerie italiane. Puoi raccontare cosa ti ha ispirato nella sua stesura?

Il romanzo è uscito da circa tre settimane e si trova nelle librerie e online. L’ispirazione non so quale sia stata né se esista in assoluto. Posso dirti che il processo creativo è stato libero, autogenerativo: non sapevo cosa sarebbe successo nella pagina successiva a quella che scrivevo, la storia si è costruita in modo spontaneo. Poi ci sono state varie riscritture che hanno richiesto una riflessione a posteriori.

Il titolo viene da una famosa canzone dei “Talking Heads”. E’ casuale o l’avevi scelto dall’inizio?

Non voglio paragonarmi a Paolo Sorrentino che ha utilizzato un titolo dei Talking Heads per il suo film americano “This Must Be the Place”, ma evidentemente nella mia scelta c’è un comune gusto pop. E tuttavia, dentro al titolo “Psycho Killer,” andando a ritroso, ci sono anche riferimenti ad “American Psycho” di Bret Easton Ellis e a “Psycho” di Alfred Hitchcock.

Michele Amaro, il protagonista del testo, compie un viaggio che lascia spazio a diverse interpretazioni, soprattutto dal passaggio delle situazioni reali a quelle oniriche. Il punto di vista del lettore in questo caso è fondamentale?

Assolutamente. Sarebbe soffocante e violento, addirittura irrispettoso, consegnare una storia talmente chiusa e prevedibile da non lasciare a chi legge la libertà di immaginare, di sentire. Quello che conta è portare il lettore in un “altrove” dove gli piace stare. In un mondo che può sentire esteticamente e umanamente affine al suo.

La figura di Francis Scott Fitzgerald è essenziale all’arco narrativo di Michele, o semplicemente viene considerato un suo alter ego?

Scott è l’origine di tutto. La prima immagine da cui sono partita. Non è un alter ego. E’ piuttosto il desiderio perduto di Michele Amaro.

La “razionalità” della sceneggiatura contro la “libertà” del romanzo sono aspetti che possono coabitare insieme o devono essere necessariamente separati?

Il processo creativo è simile nella fase centrale del lavoro, ovvero dove ci si immerge nella scrittura senza sapere cosa si troverà, quasi come dei rabdomanti. Ma all’inizio del lavoro e soprattutto nel suo esito finale in sceneggiatura è già tutto previsto. Talvolta prevedibile. Nel romanzo no. Almeno in quello che interessa a me.

Nel romanzo ci sono interessanti momenti sul lavoro quotidiano degli sceneggiatori televisivi. Se ci dovesse essere un futuro adattamento dello stesso, lo preferiresti in chiave cinematografica o seriale?

Certamente seriale. Confesso ormai di preferire la serialità al cinema, che tranne in pochi casi è diventato residuale. Se si escludono i grandi film d’autore da una parte e il bieco prodotto commerciale/industriale dall’altra, una serie ha una possibilità di approfondimento dei personaggi, un tempo per farlo, che al cinema manca. Certo poi bisogna lavorare molto sulle immagini, che nelle serie sono troppe volte sacrificate a favore delle storie. Ma immagino che tu ti riferisca comunque a progetti di qualità.

D’altronde nel romanzo c’è un fondante riferimento all’ultimo romanzo incompiuto di Fitzgerald “The Last Tycoon” da cui Elia Kazan ha tratto il film uscito in Italia con il titolo “Gli Ultimi Fuochi”. Lì Fitzgerald racconta – senza dichiararlo apertamente – la storia struggente e drammatica di un produttore geniale e realmente esistito, Irving Thalberg, morto a soli 37 anni. Giovanissimo, da vicepresidente della Metro Golden Mayer, la rese la casa di produzione di maggior successo nell’epoca d’oro del cinema americano. Fu Thalberg a dare per primo un ruolo importante agli sceneggiatori, con cui lavorava a stretto contatto e di cui supervisionava gli script. Come in una scatola cinese, modestamente, il mio romanzo vuole, fra l’altro, omaggiare e smascherare il rapporto tra letteratura e cinema, intento che lo stesso Fitzgerald ebbe nel suo ultimo lavoro, dichiarando che il rapporto tra letteratura e cinema fu fin dalle origini tragico e vitalissimo al tempo.

Dalla tesi di cinema alle successive collaborazioni con Bellocchio, senza dimenticare le interviste ad Elio Pagliarani, Bernardo Bertolucci e Werner Herzog. Che traccia hanno lasciato nel tuo percorso autoriale?

Le tracce che lasciano i grandi poeti anarchici. Quelli che hanno un mondo esclusivamente loro e che tuttavia è di tutti. E soprattutto che fanno della loro ricerca artistica la loro stessa vita. Per questi artisti vita e arte non sono mai separate e distinguibili.

Con la campagna “No Script, No Film”, Writers Guild Italia continua a dar voce al mestiere dello sceneggiatore. Per te che ti occupi anche di editing ed insegnamento in alcune scuole di cinema, ritieni sia una priorità nell’ambito dell’audiovisivo?

Certamente, una fondamentale priorità. Proprio in queste ore ho letto l’appello di una collega sceneggiatrice che denunciava come sempre più, soprattutto dall’avvento delle nuove piattaforme, il ruolo dello sceneggiatore non solo sia stato svilito, ma lo si stia addirittura facendo sparire, relegando i nomi dei creatori di serie e degli scrittori nei titoli di coda, quasi invisibili. Con le relative conseguenze economiche disastrose a cui questa modalità dà luogo. Tutto ciò è paradossale visto che la serialità è determinata, nasce e si sviluppa soprattutto attraverso il lavoro degli sceneggiatori.

Bisogna farsi fortemente sentire e ribellarsi a tutto questo. E pretendere che l’identità dello sceneggiatore venga riconosciuta necessaria e indispensabile qual è, e che tale riconoscimento si traduca concretamente nel giusto trattamento economico per chi scrive Cinema e Tv.

Grande onore dunque a Writers Guild Italia che ha lanciato la campagna “No Script, No Film”.

L’intervista è a cura di  Francesco Maggiore

WGI si racconta – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori e tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione. Questa rassegna offre uno spazio alle singole storie professionali dei nostri soci.