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Lidia Poët, racconto di conformismo e resilienza

Ce ne parla Davide Orsini, creatore della serie e autore insieme a Guido Iuculano

Ispirata alla vera storia della prima avvocata italiana, La legge di Lidia Poët, in onda dal 15 febbraio e ora terza nella classifica globale delle serie Tv non in lingua inglese più viste su Netflix, vede protagonista Matilda De Angelis (Veloce come il vento, The Undoing – Le verità non dette) nei panni della prima avvocata italiana. La serie è stata creata e scritta da Davide Orsini con Guido Iuculano e vede protagonisti, al fianco di De Angelis, Eduardo Scarpetta e Luigi Pasino.
 
La legge diLidia Poët è un avvincente dramma storico che, partendo dal personaggio reale di Poët, la prima donna in Italia a iscriversi all’Ordine degli Avvocati, indaga su alcuni omicidi nella Torino dell’Ottocento e segue la lotta dell’avvocata per mantenere il proprio diritto ad esercitare la carriera forense.

Il creatore e sceneggiatore, Davide Orsini, parla della serie, dalla sua ispirazione al lavoro di costruzione del racconto.

Davide, chi è Lidia Poët?

Lidia Poët è stata la prima avvocata d’Italia iscritta all’ordine. Dopo due mesi di praticantato e di tirocinio e dopo l’iscrizione all’albo degli avvocati, ricevette un’interrogazione parlamentare, ripresa dal Procuratore del Regno, volta a revocare la sua iscrizione all’Ordine. La causa fu vinta da coloro che la volevano fuori. La motivazione della sentenza: perché era una donna. Nella prima puntata abbiamo ripreso parola per parola questa sentenza, abbastanza grottesca. Lidia perse anche il ricorso in Cassazione. Riuscirà a iscriversi all’ordine degli avvocati solo dopo quasi 40 anni, nel 1921. Nonostante tutto, Lidia però continuò a lavorare grazie al fratello Enrico, anche lui avvocato. Operava nel suo studio legale pur non potendo dibattere in aula. Ha fatto l’avvocato per tutta la vita. Questo spirito resiliente e anticonformista ci ha ispirato tantissimo. È stato un colpo di fulmine.

Com’è nata l’idea di questa storia?

Io e Guido Iuculano stavamo lavorando su una storia ambientata nella Torino dell’Ottocento che aveva a che fare con la storia di Cesare Lombroso e le indagini di quel periodo. Era una serie orizzontale con un caso unico, in cui si intrecciavano varie trame, sullo stile di Fargo. Mentre lavoravamo a quel progetto, abbiamo scoperto l’esistenza di Lidia Poët. Abbiamo incontrato Matteo Rovere e abbiamo pensato di scrivere una storia che ponesse Lidia al centro, un racconto a episodi con linee verticali.

Da quale punto di vista ha deciso di raccontare Lidia?

La serie è partita con l’idea di restituire il racconto della vera Lidia, nonostante non sia una biografia, ma un inno alla velleità e all’anticonformismo. Poët è un personaggio donchisciottesco e lo abbiamo raccontato con il tono di commedia. È una donna che ha i suoi lati epici e combattivi, ma anche buffi e teneri. È testardissima, una figura talmente importante che era assurdo fosse sconosciuta. Partendo da una storia vera, quindi, l’abbiamo trasformata in una specie di “signorina in giallo”, alla Perry Mason. Lidia prende i casi, per esempio, per risolvere quello di un suo cliente presumibilmente innocente, indaga per trovare il vero colpevole e preparare la difesa. La parte legal si svolge a livello di indagine: scoprire la verità per poter prosciogliere il cliente.

Si nota nella serie una decisa spinta verso il progresso, soprattutto nel mondo del crimine.

Sì, è un aspetto che ci ha colpito tantissimo anche prima di conoscere Lidia. A Torino nel 1800 c’era Lombroso, la rivoluzione industriale, c’erano i nuovi fondamenti della criminologia. Cominciavano in Europa, prima che in Italia, le ricerche sulle impronte digitali, sull’uso della polizia scientifica e della fotografia sulla scena del crimine. Sono tutte cose che grazie al personaggio di Lidia, molto colto e scientificamente molto avanti, abbiamo potuto mostrare. Lei è portatrice di progresso anche in quel campo contro una società limitata e cristallizzata nella sua rigidità.

Come è stato per lei lavorare ad un personaggio femminile?

Nella mia cinematografia ho avuto spesso protagoniste femminili. In Generazione 56K le puntate alternavano i protagonisti e il personaggio femminile era molto sfaccettato. Mi trovo a mio agio ad affrontare personaggi femminili, mi piace, mi colpiscono, ne rimango molto affascinato e spero di riuscire poi a trasmettere questa fascinazione anche allo spettatore. Anche in The Bunker Game, su Sky e Now dal 19 febbraio, un horror internazionale opera prima di Roberto Zazzara, girato in lingua inglese, la protagonista è una donna così come l’antagonista. Io mi approccio al femminile come un personaggio a tutto tondo. Naturalmente la serie non l’abbiamo scritta solo Guido e io, ci siamo avvalsi anche di due collaboratrici, Daniela Gambaro ed Elisa Dondi, e un quinto sceneggiatore, Paolo Piccirillo. Il cinema e la televisione non sono opere letterarie che si possono scrivere in solitudine e il confronto è fondamentale.

Invece per quanto riguarda Jacopo Barberis ed Enrico?

La chiave light di azione, anche rocambolesca, è affidata al personaggio di Eduardo Scarpetta, un giornalista che lavora nella Torino del suo tempo. Anche lui, in qualche modo, un anticonformista, un progressista. Lidia, invece, vive in una famiglia – quella di Enrico – che rappresenta la rigidità e il tradizionalismo della società del tempo. Anche Teresa, la moglie di Enrico, è un personaggio interessante, perché è proprio l’anti-Lidia, la donna che sta un passo dietro l’uomo.

Si può dire che questa sia una serie femminista, o meglio, che esalta le donne così come dovrebbero essere e apparire?

Da un lato è una grande storia di emancipazione femminile e anche di femminismo, dall’altro quello che ci aveva colpito in prima istanza era stato un sentimento più generale, non prettamente legato al femminismo, ma più all’anticonformismo. Si tratta di un personaggio che ha avuto la forza e la cocciutaggine di infischiarsene di quello che voleva la società. Oggi come allora abbiamo bisogno degli anticonformisti: Lidia non fa solo qualcosa per se stessa, ma riesce a cambiare il mondo intorno a lei, un pezzetto alla volta. È un ciclone che investe una famiglia, che sembra una disgrazia, ma poi tutti ne escono cambiati. Nel 2023 è ancora importante parlarne. Senza queste figure la società non si evolverebbe come vorremmo.

Che cosa pensa del risultato finale?

È stato molto complicato e faticoso come tutti i processi seriali, soprattutto negli ultimi tempi. Il risultato, però, è stato pazzesco, una regia pazzesca, un cast in stato di grazia. Io e Guido abbiamo visto tutti i premontati, come creator siamo stati coinvolti in tutti i processi. Non avevamo però ancora visto il montaggio con gli effetti e quando siamo stati invitati alla proiezione in anteprima al cinema e abbiamo visto la ricostruzione della Torino dell’Ottocento, siamo rimasti stupiti per la tenuta dell’impianto visivo. Non è da tutti riuscire a reggere l’urto del grande schermo con cinquecento persone in sala.

Quanto controllo ha lo sceneggiatore durante le riprese?

Nel cinema, ho sempre lavorato per la maggior parte ad opere prime e seconde scrivendo le sceneggiature insieme ai registi. Il regista, quindi, conosce benissimo tutti i dettagli della scrittura, si porta la storia sul set e sa cosa fare sul testo in caso dovesse servire qualche variazione. Nella serialità, la questione della scrittura è centrale, perché le serie spesso, non sono dirette da un unico regista e quindi questo non partecipa al processo di scrittura e di costruzione dei personaggi. La legge di Lidia Poët è presa veramente da lontano: siamo partiti da un’idea, l’abbiamo sviluppata in un concept, in un soggetto di serie e in soggetti di puntata, schede dei personaggi, eccetera. Noi sceneggiatori, quindi, possiamo garantire il controllo del prodotto dall’inizio alla fine, a differenza di varie figure che si alternano.

Lei è favorevole alla figura dello showrunner?

Sì. Ovviamente dipende dalle situazioni, dal prodotto e dal produttore. Il produttore ha una sua funzione ben specifica anche all’interno del processo di show running. In Italia, per come si tende a fare le cose, a volte si pensa che le competenze vengano calpestate. A volte lo sceneggiatore può essere mal visto rispetto a scelte di tipo strettamente produttivo, come: il budget da allocare in determinate location o su un attore o la scelta di realizzare una certa scena o una sequenza. Si tratta di competenze tipicamente produttive, i produttori scelgono di interfacciarsi con i registi che, anche nelle serialità, vengono molto considerati. Noi, in questo caso, siamo stati fortunati perché Matteo Rovere, oltre a essere produttore della serie, è anche un regista e scrive; quindi, la sua sensibilità abbraccia i campi della creatività. In altre situazioni non è così. All’autore viene spesso tolto questo controllo e si tende a fare in modo che segua le indicazioni piuttosto che darle.

Parlando anche di altro: Netflix e La porta Rossa.

Da quattro anni lavoro ininterrottamente per Netflix. Ho cominciato nel 2019 con Generazione 56K e sono ancora qui con La legge di Lidia Poët. Su Rai Due invece siamo arrivati alla stagione conclusiva de La porta rossa. Il racconto chiude un cerchio: l’ispettore che muore e rimane come fantasma sulla terra per i suoi cari, la porta rossa del titolo è quella che lui deve varcare e ci si chiede se lo farà o meno. La serie è andata abbastanza bene, c’era molta aspettativa, perché molto amata da uno zoccolo duro di pubblico affezionato.

L’intervista è a cura di Vania Amitrano
La foto di copertina è di Gabriele Zola

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