Dialoghi sulla Figura dello Sceneggiatore
Angelo Petrella
“Il lavoro più bello al mondo”
“Il lavoro più bello al mondo”, così Angelo Petrella definisce il mestiere della scrittura per il cinema e la televisione. Scrittore e sceneggiatore della serie Mare fuori (2023-2025) e del film Cobra non è (2018), oltre a La nuova squadra (2008), I bastardi di Pizzofalcone (2021-2023), Resta con me (2023), La Rosa dell’Istria (2024) e Come un padre (2025) dalla sua esperienza Petrella ha imparato a rapportarsi con equilibrio con registi, produttori e attori e soprattutto ha sempre più apprezzato la collaborazione di gruppo che sta dietro al lavoro di sceneggiatura. “Sceneggiare è faticare e divertirsi allo stesso tempo”, dice Petrella intervistato da WGI, che spiega il ruolo fondamentale dello sceneggiatore e racconta con piacere la sua esperienza tra qualche difficoltà, tante soddisfazioni e soprattutto con un entusiasmo e una passione che non sono mai venute meno, ma che anzi si arricchiscono ad ogni nuovo progetto.
Petrella, come definirebbe lei il ruolo dello sceneggiatore all’interno di una produzione cinematografica o televisiva?
Essenziale: un lungometraggio o una serie televisiva altro non sono che storie e, in quanto tali, necessitano di chi le sappia scrivere, padroneggiando le tecniche narrative. Vi sono stati momenti nella storia dell’audiovisivo in cui la sperimentazione d’avanguardia ha tentato di annullare l’idea stessa di una sceneggiatura… ma per farlo ha avuto bisogno di un canovaccio, un’anti-sceneggiatura o in ogni caso di un ‘pezzo di carta’ di supporto. Lo sceneggiatore uscito dalla porta è rientrato magicamente dalla finestra!
Quanto peso ha oggi lo sceneggiatore nel determinare il successo di un’opera audiovisiva e quanto varia la sua influenza in base al genere del prodotto?
Rispetto al genere, la scelta del tipo di sceneggiatore viene effettuata a monte dalla produzione e dal broadcast: maggior esperienza nella commedia, nella soap o nella lunghissima serialità possono far puntare a uno o ad un altro headwriter, ad esempio. È anche vero che la carriera di uno sceneggiatore italiano passa tendenzialmente sempre attraverso l’accumulo di una grande esperienza in generi anche molto diversi, quindi mi sembra che la ‘preparazione’ e l’’adattabilità’, per così dire, siano mediamente alquanto alte.
Secondo lei, quanto è conosciuta la figura dello sceneggiatore dal grande pubblico?
Poco o niente, a parte rari casi in cui magari lo sceneggiatore abbia acquisito notorietà anche per altro (perché è contestualmente un personaggio di spettacolo, un autore di narrativa di successo, un attore e così via).
La gente sa davvero “chi scrive” le storie che guarda?
Lo spettatore colto sì, ma il grande pubblico mediamente no.
Cosa dovrebbero fare i media e l’industria per dare più visibilità agli sceneggiatori? E cosa dovrebbero fare gli sceneggiatori stessi?
Sarebbe un discorso molto lungo, che tirerebbe in ballo la cultura dell’artigianalità e l’arte, spesso considerate – a torto – in antitesi nel nostro paese. In genere si tende ad appiattire la riuscita o la paternità di un prodotto televisivo e cinematografico sul solo regista. Forse perché tradizionalmente gli autori, soprattutto del cinema, sono stati anche celebri registi o intellettuali e quest’immagine si è cristallizzata nell’immaginario collettivo. In maniera più pragmatica, occorrerebbe uno sforzo fattuale, per così dire, in modo da riequilibrare sia le responsabilità che i meriti di chi vi è dietro al successo e alla creazione di una storia.
La sceneggiatura costituisce la base portante, le fondamenta di un’intera opera. Che tipo di rapporto ha lei con i vari elementi della filiera produttiva?
In genere ci si rapporta molto con la produzione e anche con la rete. I prodotti migliori escono fuori quando le direttive iniziali sono chiare e precise, ma abbastanza larghe e non invasive in modo da consentire a chi scriva di cimentarsi nel dare forma con la propria creatività alle richieste fatte. In seguito, alla fine della stesura, vi è in genere un confronto anche con la regia per definire punti necessari alla messa in scena.
Le capita mai che vengano apportate modifiche alla sceneggiatura originale nelle diverse fasi di produzione o durante le riprese da parte di produttori, registi o anche attori?
Spesso da parte dei registi su richiesta loro o degli attori. Ma è il destino di una scrittura di servizio, come si dice in gergo, che una sceneggiatura venga tradita in fase di messa in scena. E in genere è sempre un bene, purché si rispettino le intenzioni e i significati che si sono voluti veicolare nello sviluppo delle dinamiche e del carattere dei personaggi.
E in generale quanto sente o non sente riconosciuto il suo ruolo e la sua originalità creativa in queste fasi di sviluppo?
Diciamo che un attore dovrebbe sì cucirsi addosso un personaggio: ma sempre ricordandosi di non tradire mai il senso che lo sceneggiatore – che ha la visione complessiva e bilanciata dei rapporti e delle relazioni interne alle tante scene e ai diversi personaggi – ha inteso conferire alle battute e in generale alle dinamiche drammaturgiche.
Come vede l’evoluzione della figura dello sceneggiatore nei prossimi anni soprattutto in relazione allo sviluppo dell’intelligenza artificiale?
Discorso complesso, e lo dico da non amante dell’argomento. Per quello che ho potuto constatare l’intelligenza artificiale attinge in maniera istantanea o quasi, al già dato, livellandosi su un gusto per così dire mainstream: credo sarà negli anni a venire utile come assistente virtuale (anzi, come équipe di assistenti), riuscendo a svolgere il lavoro di un team di persone di supporto a un headwriter. Ma la ricerca della novità, dell’originalità e di quelle piccole asimmetrie narrative che rendono la drammaturgia di una storia realmente nuova e singolare non potranno che essere appannaggio di una persona in carne e ossa.
Pensa che in Italia ci sia abbastanza coesione tra gli sceneggiatori o prevale la competizione individuale?
Gli sceneggiatori italiani sono tanti, ma non mi sembra ci sia più competizione che rispetto ad altri ambienti lavorativi. C’è però una lunga gavetta da fare, che spesso si presenta accidentata e mai garantita del tutto.
Quanto reputa importante per gli sceneggiatori unirsi in associazioni o collettivi per difendere i propri diritti e valorizzare la propria figura professionale?
Mi sembra importante e soprattutto mi sembrerebbe importante riuscire a riunire le varie associazioni o collettivi in un unico sindacato…
E cosa c’è da imparare da realtà simili estere come Writers Guild of America?
…come per l’appunto vediamo fare negli Stati Uniti..
Lei ha mai fatto parte di qualcuna di queste realtà?
Seguo i lavori e le attività delle varie realtà, ma non ne ho mai fatto parte.
Come è nata la sua passione per la scrittura? C’è stata un’opera (un libro, un film o altro) o una persona o un evento che ha fatto scattare in lei la molla verso questa professione?
Il primo libro che ricordi di aver letto da piccolo fu ‘Kim’ di R. Kipling. Da allora capii che avrei voluto fare solo quello, ovvero essere capace di scrivere storie. L’impulso venne corroborato nel vedere La storia infinita al cinema. Poi venne il primo racconto pubblicato in rivista, il primo romanzo, quindi il primo soggetto per un lungometraggio. Ma molto dopo”.
In che momento ha davvero capito di essere uno sceneggiatore?
Ancora oggi mi chiedo se ne sono stato capace… se lo sono davvero. E mi rispondo che ho ancora moltissimo da imparare.
Cosa le piace di più di questo mestiere?
Dovrei riempire una pagina intera… Sintetizzando, però: è il lavoro più bello al mondo. Ed è uno dei pochi lavori di scrittura che si faccia in gruppo. Un romanzo lo si scrive in solitudine, una sceneggiatura quasi mai.
Quali sorprese le ha riservato la sua esperienza come sceneggiatore?
Ho conosciuto alcuni dei miei più cari amici. Il lato umano di questo lavoro è impagabile. Dal punto di vista creativo, mi ha fatto scoprire la capacità di tirare fuori il meglio da una storia anche e forse soprattutto quando si è sotto pressione, con date di consegna ravvicinate e tempi ristrettissimi. Che è poi forse una situazione meta-narrativa, se vogliamo, visto che la prima cosa che ci viene insegnata nelle scuole di scrittura e sceneggiatura è che un personaggio rivela il suo essere profondo solo quando è messo sotto pressione…
Qual è la cosa più difficile?
Avere a che fare talvolta con produttori di poca esperienza, che complicano il lavoro più che agevolartelo. Ma con l’esperienza si impara a capire rapidamente chi ci si ritrova davanti a un primo incontro.
Come sono cambiate nel tempo e con il lavoro le sue aspirazioni, i suoi sogni e le sue aspettative?
Non di molto. Continuare a scrivere, immaginare e soprattutto accettare sfide nuove è sempre rimasto immutato. Sceneggiare è faticare e divertirsi allo stesso tempo.
Di cosa va particolarmente orgoglioso?
Di poter guardare un episodio o una scena in tv con i miei figli e commentarla assieme. Siamo grandi divoratori di serie, in famiglia!

