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Dialoghi sulla Figura dello Sceneggiatore

Maurizio Braucci

“Il cinema è un’arte collettiva”

Maurizio Braucci, sceneggiatore, scrittore e regista, due volte David di Donatello per Gomorra (2008) e Martin Eden (2019), nonché vincitore al Festival di Berlino per la Miglior sceneggiatura per La paranza dei bambini (2019), nel cinema ha lavorato con grandi registi, tra cui Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Ugo Chiti, Leonardo Di Costanzo e Abel Ferrara, che considera suoi maestri. Intervistato da WGI, si racconta come sceneggiatore.
  • Mostra tutta la bellezza di un mestiere che, quando arricchito dal lavoro di squadra, può dar vita a vere opere d’arte.
  • Descrive anche una realtà, quella italiana, in cui purtroppo non mancano però storture e compromessi che a volte vanno a discapito della qualità.
  • Grazie alla sua lunga esperienza offre una prospettiva lucida, concreta e preziosa su un sistema artistico complesso, ne sottolinea vizi e virtù.
  • Nella sua attenta analisi del cambiamento a cui la figura dello sceneggiatore è posta in quest’epoca, Braucci vede soprattutto nella condivisione e nella libertà creativa una ricchezza, senza negare le potenzialità del nuovo, come l’ingresso dell’AI, e al tempo stesso denuncia i rischi di una cattiva gestione di tutto questo in una struttura vetusta che non sappia aggiornarsI

Braucci, come definirebbe lei il ruolo dello sceneggiatore all’interno di una produzione cinematografica o televisiva?

Nel caso del cinema, è il principale collaboratore del regista nella parte di ideazione e scrittura del film, a meno che non sia lui stesso il regista (a volte si omette di considerare che alcuni registi sono anche veri sceneggiatori, ma non figurano nell’elenco professionale degli sceneggiatori). Nel caso televisivo, potrebbe anche essere il collaboratore del produttore e l’unico autore drammaturgico.

Quanto peso ha oggi lo sceneggiatore nel determinare il successo di un’opera audiovisiva e quanto varia la sua influenza in base al genere del prodotto?

Potenzialmente la sceneggiatura è metà dell’opera, poi deve diventare un film e lo stile di regia fa la differenza, ma parliamo di un processo che parte dalla scelta di buoni ingredienti. Non si possono riassumere i tanti casi possibili che stanno dietro a un film che non sia industriale, è un po’ la vita che li determina, come anche tutte le imperfezioni umane che possono determinare l’insuccesso di un buon progetto o le sue virtù che possono rovesciarne la sorte. Mi piace quella massima che dice che “la scrittura cinematografica è una scienza esatta di cui nessuno conosce le regole”.

Secondo lei, quanto è conosciuta la figura dello sceneggiatore dal grande pubblico?

Poco dal pubblico generico, che in verità non sa come si fa un film, alla lunga solo l’attore o l’attrice gli sono noti, perché ci mettono la faccia, figuriamoci cosa può sapere dello sceneggiatore o della sceneggiatrice. D’altra parte questa inconsapevolezza è l’effetto del fatto di aver trattato il pubblico come fosse fatto di bambini e non di adulti, di cui si è sempre compiaciuta tanta cultura di massa. Però siamo in un momento di transizione, e il cinema sta cambiando, non è solo la questione femminile e di genere, ma anche l’inizio di un modo diverso di pensare ai film, perché nuove generazioni stanno subentrando alle vecchie, specie in ambito produttivo. Ad esempio la figura dello sceneggiatore tecnico, il super ragioniere della narrazione cinematografica, non potrà più esistere, probabilmente sostituita dall’Intelligenza Artificiale che quindi sarà un modo per far sussistere, paradossalmente, un vecchio mondo cinematografico nelle mani dei conservatori o tecno-fascisti. Ma i nuovi autori di quello che sarà un nuovo cinema saranno più simili agli artisti delle avanguardie storiche che a quelli tradizionali che ripetono un sapere/esperienza collaudato, almeno nella prima parte di un’era che verrà e di cui vediamo adesso i primi passi.

La gente sa davvero “chi scrive” le storie che guarda?

Tanta gente non sa nemmeno che una storia si scrive, è l’effetto della logica elitaria per cui la massa deve essere nutrita e non emancipata, quella che una volta si chiamava dominio. SI consumano migliaia di film nella vita di una persona eppure in molti persiste un’ignoranza a riguardo di come si facciano i film. Paradossalmente è un’ignoranza dentro un aumento di alfabetizzazione generale che va avanti da 80 anni, anche grazie ai film e alla tv. Solo che dalla seconda metà degli anni 70, quando le élites si sono rese conto che l’industria culturale era un terreno di controllo e non solo una fonte di guadagno, allora le cose sono cambiate e tutto è stato meno lasciato al caso, diventando più controllato, più standardizzato, per quanto poi il caso, o meglio il libero arbitrio, o meglio il caos, sia sempre padrone del campo.  In quel periodo, in Italia siamo passati dall’esistenza di figure di sceneggiatori-autori più autonomi in un sistema meno strutturato, a figure tecniche più omologate secondo un credo tecnicista che è diventato l’ideologia di un settore più strutturato.

Cosa dovrebbero fare i media e l’industria per dare più visibilità agli sceneggiatori? E cosa dovrebbero fare gli sceneggiatori stessi?

Mettiamola così, della visibilità degli sceneggiatori e sceneggiatrici mi importa poco, in un momento in cui tutti voglio essere visibili per scelta del mercato, allora viva l’invisibilità come scelta (ed  esiste anche la visibilità come obbligo). Piuttosto vorrei che il pubblico fosse consapevole dei ruoli del cinema, visto che lo frequenta di continuo, perché questo implicherebbe spettatori più consapevoli, il che ci permetterebbe di fare film più moderni e complessi. Detto questo, chi scrive deve essere rispettato, ben pagato e riconosciuto, quindi alla visibilità sostituirei il termine “riconoscimento”. Bisogna organizzarsi per fare tutto questo, partire dalle leggi e migliorarle. Ad esempio in Italia, la SIAE attribuisce al regista fino al 40°% sui diritti d’autore del film, a meno che non sia diversamente stabilito dalle parti, e questa esagerazione avviene solo nel nostro Paese, altrove sono gli accordi tra le parti a determinare le ripartizioni. Bisogna cambiare questa regola e stabilire un tetto massimo del 20% (e alcuni registi già lo rispettano), visto che nella maggior parte dei casi il regista percepisce anche la quota di soggetto e sceneggiatura e quindi arriva a più della metà dei diritti (e tanto si può sempre fare un diverso accordo privato). Organizzazione e legislazione mi sembrano prioritarie rispetto alla visibilità, ma allo stesso tempo bisogna sentire di più la propria responsabilità verso il pubblico in quanto operatori socio-culturali e soggetti politici, insomma avere una morale, che mi sembra più un fenomeno che ha a che fare con la propria coscienza e quindi con la formazione.

La sceneggiatura costituisce la base portante, le fondamenta di un’intera opera. Che tipo di rapporto ha lei con i vari elementi della filiera produttiva?

Mi piace molto lavorare sul set, mi piace molto il lavoro di gruppo anche se a volte mi far star bene una scrittura più meditativa e solitaria, più letteraria. Io nasco come montatore e il montaggio mi appassiona, è una forma di scrittura narrativa a saperla fare. Anche la fotografia mi entusiasma, la magia misteriosa che la anima, il modo di dialogare con la luce come fosse un personaggio. In questo gioco di squadra, la parte di scrittura è un po’ metafora dell’attacco, della conquista di territori ignoti e misteriosi, ma deve avere un buona difesa e un buon centrocampo per potersi muovere. Poi c’è il presidente del club, che oscilla tra il povero cristo e il tiranno, chiaramente sto parlando del produttore, che come detto prima ha un rapporto più particolare con gli sceneggiatori nel caso delle serie tv.  In Italia, e non solo, nel cinema esiste un patto tacito tra produttore e regista che tende a relegare tutte le altre figure (tranne gli attori famosi) a ruoli più marginali. Inoltre le scuole e accademie di cinema che adottano sistemi (un unico sistema per tutte le scuole, lo trovo assurdo!) tendono a gerarchizzare, a dividere rigidamente i ruoli  e a far introiettare negli studenti tutto questo durante l’apprendimento. Quando queste dinamiche prevalgono nel lavoro, la figura del regista non è solo prioritaria ma assoluta, fino a creare delle forti gerarchie che però sono eterodirette, cioè si motivano nel contesto circostante e nel suo modo di vedere il cinema. Quando c’è gerarchia al posto della condivisione, questa poggia su quella presente in tutta la cultura della società italiana, società fortemente patriarcale e verticistica. Premetto però che bisogna avere rispetto per il ruolo del regista, il quale sopporta su di sé un peso enorme e una grande responsabilità, ma dividerei tra chi è autorevole e chi è autoritario. La rivoluzione femminista potrebbe contribuire a cambiare tutto questo se le donne non si faranno inglobare culturalmente in cambio di un po’ di  potere. Insomma, ogni valutazione del peso e delle condizioni dello scrittore di cinema, deve essere collocato nella tipologia di industria cinematografica di questo tempo e di questo luogo e nella relazione con un sistema culturale di un certo tipo.

Le capita mai che vengano apportate modifiche alla sceneggiatura originale nelle diverse fasi di produzione o durante le riprese da parte di produttori, registi o anche attori?

Spesso ma per lo più dal regista, e se è bravo ne sono felice, altre volte mi è andata male perché era solo il suo narcisismo che voleva mettere un segno. Gli attori invece tendono a fare proprio il personaggio, ed è bello collaborare con loro se  sono dei bravi professionisti, e in tal caso possono sorprenderti con vere e proprie magie che arricchiscono la psicologia definita in fase di scrittura. I produttori, se parlano in base all’esperienza, sono preziosi, se invece devono solo far la parte dei produttori partecipativi, beh quella parte là allora la fanno meglio gli attori o le attrici. Comunque, in generale, collaborare non è un processo facile, ma se c’è intelligenza e sincerità allora tutto si arricchisce e migliora. Del resto il cinema è un’arte collettiva.

In generale quanto sente o non sente riconosciuto il suo ruolo e la sua originalità creativa in queste fasi di sviluppo?

Il ruolo viene riconosciuto, ma ci sono fasi, ci sono progetti in cui accade di più e altri  in cui di meno, ma bisogna pensare che a volte si lavora in gruppo dove l’affiatamento è maggiore e allora la questione è quanto si riesce ad esprimere insieme quello che si voleva esprimere. Proporre strutture narrative innovative non è semplice, almeno in Italia, specie se lo vuoi fare direttamente come sceneggiatore e io sono arrivato a propormi come regista per riuscire a fare dei film che desidero si facciano. In Italia, tendenzialmente si finanziano le persone e non le idee, accade ovunque ma qui è esasperata come dinamica, è un vizio della nostra cultura, deriva dal familismo credo. Io raramente posso proporre idee per un film, mi dicono che nelle serie tv è possibile, io non ho mai scritto per la tv . Quindi se trovo il regista giusto, provo a proporre strutture più complesse, perché è quello che mi interessa maggiormente, ma in un Paese dove si tende a ribadire lo status quo, che non ha mai avuto una rivoluzione, è difficile per chiunque. Ma oggi alcuni registi sono aperti a strutture complesse (aspettiamo che lo siano anche i produttori), anche se poi queste strutture più complesse sono difficili da trovare e devono funzionare e non essere solo particolari. Il cinema ha bisogno, e un certo cinema già lo fa, di trovare forme nuove, ma è una vecchia storia che riguarda tutta l’arte.

Come vede l’evoluzione della figura dello sceneggiatore nei prossimi anni soprattutto in relazione allo sviluppo dell’intelligenza artificiale?

Io non temo l’intelligenza artificiale e credo che sia sopravvalutata. Il suo algoritmo è stato pensato anche per compiacerti, è un prodotto del mercato che deve farti tornare ad usarlo e per questo diciamo che deve farti vincere, come il meccanismo di rinforzo delle slot-machine. Questo per parlare della AI generale, per quelle narrow, cioè con compiti specifici, essendo il campo più ristretto allora può andare meglio. L’AI ha introiettato molto bene le teorie e tecniche della scrittura cinematografica, può assemblare o analizzare bene un testo, ma è omologante, come del resto lo sono le tecniche se dominano la nostra creatività, cioè ti riporta agli standard di scrittura che imperano nei prodotti industriali. Imparerà l’AI a fare tutto questo meglio? In un film importante noi parliamo di cose importanti riguardanti la vita, e se lo facciamo è perché conosciamo la vita, siamo nella vita, ma l’AI non è viva, non ha la cognizione di dolore, finitezza e impermanenza. Quindi non potrà mai sostituire un artista vero perché lui è vivo, ma può “scrivere per i morti” mentre noi scriviamo e facciamo film per i vivi, almeno si spera. La figura dello sceneggiatore sta cambiando già, il mero tecnico cede il passo alla scrittura di opere più complesse (e questo aumenterà se l’umanità si emancipa oppure, se va male, non ci sarà più nessuno a potersi emancipare) e in questo senso l’AI può servire da stimolo competitivo per essere migliori come autori. Quindi la questione è: ma l’AI può diventare uno strumento nelle mani dell’industria cinematografica per imporre/proporre solo opere standardizzate? Questo accadrà solo come fenomeno conseguente di uno più grave: l’alienazione totale del pubblico. A volte portano l’esempio del computer che ha sconfitto il campione del mondo di scacchi, ma gli scacchi sono un gioco di combattimento, violento (come scrisse il russo Kasparov e che invece definì il gioco del Go come un gioco di equilibrio). Noi dovremmo appropriarci della AI per farla nostra come assistente, e questa è un po’ come la posizione luddista del XIX secolo, che non demonizzava le macchine come si crede ma ne voleva un utilizzo per e non contro l’essere umano.

Pensa che in Italia ci sia abbastanza coesione tra gli sceneggiatori o prevale la competizione individuale?

In generale tra gli artisti è difficile la coesione ma quando c’è è formidabile, lo abbiamo visto di recente con lo sciopero negli Stati Uniti degli sceneggiatori e sceneggiatrici e poi degli attori e attrici. Questa coesione difficile è anche frutto del modo con cui si lavora, a volte ricattatorio verso gli sceneggiatori, quando vengono trattati (e si lasciano trattare) come dei numeri sostituibili. Sento però che la coesione sta crescendo e sarà più forte se insieme alle rivendicazioni salariali e di riconoscimento si avvierà un discorso sulle nostre responsabilità come operatori culturali, sull’effetto dei film sul processo di emancipazione e riflessione del pubblico, un tema politico così come quello dell’organizzazione. Anche qui, come nella società in generale, si ha bisogno di una visione di sé più complessa e più importante di quella che ci relega al mestiere. Inoltre già accade che lo sceneggiatore sia scrittore di letteratura, o attivista o anche regista, e quest’ultimo è un tabù che va vinto: lo sceneggiatore deve poter proporre anche lui idee per un film e magari dirigerlo. La negazione dello scrittore di cinema come ideatore autonomo è un paradosso che bisogna vincere per arricchire il nostro cinema.

Quanto reputa importante per gli sceneggiatori unirsi in associazioni o collettivi per difendere i propri diritti e valorizzare la propria figura professionale?

E’ il minimo da fare.

E cosa c’è da imparare da realtà simili estere come Writers Guild of America?

Anche lì, l’organizzazione degli scrittori di cinema è effetto di come nella società si pensa al cinema e ai suoi operatori. Negli USA gli scrittori sono importanti perché c’è un modo più liberale di pensare alla cultura, in Gran Bretagna non ti fanno pesare se scrivi anche per il teatro o per la letteratura come se fosse una distrazione o una megalomania, in Francia puoi fare anche il regista e scrivere poi per altri, mentre in Italia come ho già detto si è ancora preda di visioni ottocentesche e patriarcali (o matriarcali a volte).

Lei ha mai fatto parte di qualcuna di queste realtà?

Faccio parte della vostra. Non so se ne esistono altre.

Come è nata la sua passione per la scrittura? C’è stata un’opera (un libro, un film o altro) o una persona o un evento che ha fatto scattare in lei la molla verso questa professione?

Vengo dalla scrittura di romanzi, forse in una forma che si prestava già a diventare cinematografica. La letteratura in Italia è difficile da condurre come attività, si fa troppo marketing editoriale e devi proporre idee che convincano l’ufficio vendite. Sarà perché si legge poco che certe logiche di mercato prevalgono come alta strategia per arrivare ai lettori, di fatto c’è poca sperimentazione, negli ultimi anni nell’editoria ci si è molto appiattiti sui fatti reali e poco sulle creazioni originali. Ho iniziato questo lavoro con Matteo Garrone, che con Massimo Gaudioso ed Ugo Chiti considero i miei maestri, anche Leonardo Di Costanzo è stato un riferimento iniziale e poi Abel Ferrara, coraggioso sperimentatore. La vita mi ha portato al cinema, non ho mai fatto scuole ma faccio continua ricerca per affinare anche un metodo pedagogico che insegno dove posso, specie alla Scuola Civica di Cinema di Milano, e che approfondisco di continuo anche per servirmene sul lavoro. Mi interessa molto la ricerca sulle strutture narrative, il concetto di intreccio e di idea portante, considero i Formalisti i più grandi e stimolanti teorici, Viktor Sklovskij su tutti, e poi registi come Eisenstein, Tarkovskij, Buñuel che hanno approfondito la forma del racconto cinematografico nei loro scritti. Ma ci sono libri non pensati specificamente per il cinema che mi sono serviti molto a riflettere e a imparare, ad esempio “Il Mondo incantato” di Bruno Bettelheim. Aggiungo che da quasi 20 anni sono direttore artistico di un progetto di teatro e pedagogia a Napoli, Arrevuoto, dove vanno in scena insieme 150 e più ragazzi e dove l’improvvisazione degli adolescenti e il bisogno di strutturare delle fome di libertà e di gioco, mi hanno insegnato molto sulla scrittura sul campo e sull’ideazione.

In che momento ha davvero capito di essere uno sceneggiatore?

Non l’ho capito ancora, a volte penso che avrei dovuto fare l’economista, il macroeconomista per prendere in giro quelli che fanno microeconomia e finanza.

Cosa le piace di più di questo mestiere?

La sfida di catturare dall’oscurità delle storie e dei personaggi o di adattare opere letterarie secondo quell’adagio che io chiamo “tradimento di fedeltà”. Ogni volta non so se ne sarò capace, è come camminare su un filo o cercare di riattaccare il collo ad una gallina. Mi sento sempre addosso la partita.

Quali sorprese le ha riservato la sua esperienza come sceneggiatore?

Sempre continue soprese, a volte delusioni umane, altre meravigliose scoperte, mai mediocrità finora. Non sai mai come andrà un film, la sua vita è frutto di tante variabili, ci sono film che invecchiano bene, altri che sono meglio da vecchi che da giovani. Ma quando lo vedi per la prima volta sai se un film a cui hai lavorato è buono, indipendentemente da come viene accolto. La più grande soddisfazione è mentre vedi un film tra il pubblico ad una première (lì dove senti tutto attraverso la gente intorno a te e dove capisci che lavoriamo in un campo anche un po’ magico, spirituale, magnetico) il film va sullo schermo e ti accorgi che una scelta fatta in scrittura, una scelta che è stata difficile da prendere, funziona. Di fronte a questo non c’è applauso o critica che può eguagliare la soddisfazione di aver vinto una sfida con te stesso e con la storia che hai catturato.

Qual è la cosa più difficile?

Non essere pagato, non essere pagato abbastanza, incontrare persone che ti mancano di rispetto o ti fanno impazzire perché hanno un carattere debole di fronte alle difficoltà, insieme a situazioni in cui devi vivere una competizione inutile. Riguardo direttamente alla scrittura, è difficile lavorare a qualcosa che non ti piace o che ha preso una piega che non ti piace.

Come sono cambiate nel tempo e con il lavoro le sue aspirazioni, i suoi sogni e le sue aspettative?

Non sono diventato cinico, penso ancora che il cinema serve alle persone per riflettere, emozionarsi e capire. Ho rispetto per chi fa cose che sono lontane dalle mie ma le fa bene. A volte penso a Nicholas St. John, uno dei più grandi sceneggiatori, che nel pieno della carriera si è ritirato e si è messo a fare l’educatore di ragazzi disabili. Non è un esempio di forza?

Di cosa va particolarmente orgoglioso?

Di essere scampato alla morte da bambino e poi da grande, di essere ancora in salute, di aver fatto una bimba con la donna che amo, di commuovermi quando rivedo i miei amici, di aver sempre sostenuto i diritti delle donne da quando in Messico ho incontrato le madri delle martiri di Ciudad Juárez e aver conosciuto Sergio González Rodríguez, di aver attraversato l’Iran per premiare Jafar Panahi clandestinamente, di poter ancora lavorare con persone che mi piacciono, di essere ancora buddista.

Vania Amitrano

L’intervista è a cura di Vania Amitrano

Dialoghi sulla Figura dello Sceneggiatore – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori e aggiunge questa collana alle altre serie di interviste ai propri soci.