Fuori la verità
è stata un’esperienza totalizzante e immersiva
Presentato alla XX edizione della Festa del Cinema di Roma, nella sezione Grand Public, Fuori la verità è il film diretto da Davide Minnella che svela il dietro le quinte degli show televisivi più morbosi e che fotografa la famiglia contemporanea cercando la massima autenticità. Elena Giogli e cosceneggiatrice insieme a Minnella, Gaia Musacchio e Michele Furfari di una storia giocata su due piani molto complessi: da un lato lo studio televisivo e dall’altro la vita reale.
In quest’intervista, la nostra socia WGI, racconta il difficile lavoro di equilibrio che ha richiesto l’articolazione della vicenda in cui si fronteggiano una conduttrice televisiva affascinante e manipolatoria, interpretata da Claudia Pandolfi, con una famiglia borghese non priva di difficoltà composta da padre (Claudio Amendola), madre (Claudia Gerini) e i loro tre figli Flavio (Leo Gassmann), Prisca (Alice Lupparelli) e Micol (Eleonora Gaggero).
Fuori la verità è un film complesso e anche un po’ coraggioso, che si fa carico di una storia che descrive con attenzione e senso critico tanto il mondo del dietro le quinte degli show televisivi quanto l’attuale panorama delle relazioni familiari. In che modo l’avete ideata e come avete proceduto per svilupparla?
Federica Lucisano, la nostra produttrice, cercava un film family con un’idea forte e originale, mentre Davide Minnella, il regista, aveva nel cassetto l’idea di un film sul cinismo della televisione. Ho unito questi due ingredienti e ho ideato il soggetto, poi ho coinvolto Gaia M. Musacchio e Michele Furfari, i miei cosceneggiatori, ed è nato Fuori la verità. Siamo partiti da alcune domande semplici ma scomode: che cosa succede quando la nostra vita privata – anzi segreta – diventa spettacolo? E anche: cosa siamo disposti a sacrificare per vincere del denaro? Volevamo raccontare cosa succede quando la sfera più intima delle persone viene esposta alla luce delle telecamere e abbiamo costruito una famiglia ‘normale’, apparentemente perfetta, inserendola dentro un meccanismo televisivo spietato: un game show in cui per vincere è obbligatorio dire la verità. Naturalmente esplorando anche il microcosmo e la fauna che si muove dietro le quinte della televisione e i meccanismi di potere che si innescano. A Lucisano l’idea è piaciuta moltissimo e da lì è iniziato un lavoro di scrittura lungo e stratificato: dopo il soggetto abbiamo scritto un lungo trattamento (quasi un romanzo!) con tutte le linee dei personaggi, l’intreccio e l’architettura narrativa e poi siamo finalmente passati alla sceneggiatura, che ha avuto diverse revisioni. Per me il lavoro di scrittura è stato un percorso intenso, durato più di dieci mesi, impegnativo ma anche molto appassionante
Quale dei due aspetti avete trovato più difficile affrontare e strutturare in sceneggiatura alla luce del grande tema centrale sulla pornografia dei sentimenti?
In fase di sceneggiatura la cosa più difficile è stata trovare il giusto equilibrio tra i due mondi del film: da un lato la vita reale della famiglia Moretti, fuori dallo studio televisivo; dall’altro ciò che accade in diretta, nello show, a contatto con i loro antagonisti – gli autori televisivi e la conduttrice, Marina. I personaggi sono numerosi: i cinque protagonisti della famiglia più una presenza piccola ma significativa, quella del nonno, e le tre figure del mondo televisivo. Tutti hanno importanza e hanno un arco narrativo preciso. Questo richiedeva una grande attenzione nel distribuire le informazioni, senza sovraccaricare lo spettatore ma permettendogli di conoscere a fondo ognuno di loro. La costruzione dell’intreccio è stata complessa e ha richiesto molte riunioni e riscritture. La rappresentazione del dietro le quinte televisivo, invece, è stata più naturale da scrivere: io ho lavorato per quasi 18 anni in Televisione e Minnella continua a farlo, quindi conosciamo bene quel linguaggio, i meccanismi, le gerarchie invisibili. La vera difficoltà non era la parte tecnica, ma raccontare l’esposizione emotiva come forma di intrattenimento senza cadere nel cinismo o nella caricatura. Con questo film volevamo affrontare molti argomenti e anche criticare certi programmi e il modo in cui trasformano le fragilità private in spettacolo, ma senza moralismi né retorica. Per questo ogni colpo di scena è stato costruito a partire da una ferita emotiva vera, non da un espediente narrativo. Solo così potevamo parlare di ‘pornografia dei sentimenti’ mostrando la verità dei personaggi, senza giudicarli dall’alto.
Come avete creato i personaggi protagonisti di questa storia?
Per primo è nato il personaggio di Edoardo, interpretato da Claudio Amendola, l’ho immaginato come un eroe fragile: una persona buona, che desidera con tutte le forze rendere orgogliosa la propria famiglia, ma che proprio per questo finisce per compiere errori enormi. Da lui sono venuti gli altri: Carolina, i figli Flavio, Prisca e Micol, e il suocero Ennio. Nessuno di loro è stato creato per rappresentare un’idea astratta. Sono personaggi radicati nella realtà, con problemi quotidiani e molto umani. Per costruirli ci siamo fatti queste domande: Che cosa nasconde questa persona? E perché? Cosa succederebbe se la sua famiglia scoprisse il suo segreto? Da qui è nata la loro interiorità. La famiglia Moretti è composta da persone che si vogliono bene, ma sotto la superficie si agitano desideri taciuti, vergogne, ferite, bisogno d’amore, senso di colpa e rabbia. Lavorando su questi conflitti interni è stato naturale costruire il conflitto esterno: quando vengono costretti a dire la verità davanti a milioni di spettatori, non è più solo un gioco, ma un atto che può liberare oppure distruggere. Credo che ciò che muove tutti i personaggi – in modi diversi – sia un impulso universale: il bisogno di essere visti e compresi, accompagnato dalla paura di mostrarsi davvero per ciò che si è. E questo vale anche per chi appartiene al mondo dello spettacolo: Marina Roch, la conduttrice; Simone, l’autore di fiducia; Jessica, l’autrice junior, anche loro hanno debolezze e segreti da proteggere. Non sono cattivi ‘per ruolo’, ma esseri umani fallibili, che temono una verità che potrebbe rovinarli. Scriverli è stato naturale perché non sono lontani dalle persone reali che ho incontrato in tanti anni di lavoro in televisione. Qualcuno potrebbe dire che sono cinici o spietati, ma la realtà, spesso, lo è di più.
Quanto è stato difficile immaginare in scrittura una storia quasi metacinematografica, che si articola tanto sul piano della realtà quanto su quello della finzione all’interno di uno studio televisivo?
Scrivere questa storia è stato impegnativo perché il film vive su un doppio binario continuo: ciò che accade in diretta televisiva e ciò che appartiene ai ricordi, alla vita privata e al passato dei personaggi. Inoltre, i personaggi sono molti e ogni domanda del game show è stata scritta come una miccia narrativa: innesca un flashback, un’immagine, una frattura che racconta chi sono davvero. Abbiamo lavorato sul ritmo, alternare il presente dello show ai frammenti del passato, creando così una sorta di metanarrazione in cui il pubblico è spettatore, giudice e a volte anche complice dei segreti dei protagonisti. E poi abbiamo lavorato sull’autenticità dei sentimenti, delle azioni e reazioni dei protagonisti perché il rischio, ambientando un film in uno studio televisivo era far sembrare tutto artificiale o costruito e non potevamo permettere che questo accadesse in un film che si chiama Fuori la verità! Non nego che nel corso dei mesi ci siano stati momenti difficili, quando si deve rimettere mano a nuove stesure della sceneggiatura e rivedere il lavoro ogni volta come se fosse la prima non è mai facile, anzi direi che per un autore può essere frustrante. Ma se faccio un bilancio, posso dire che scrivendo questo film mi sono divertita all’80%.
Cosa ne pensa del lavoro fatto e del suo esito finale?
Per me scrivere significa vivere per mesi pensando ogni giorno a una storia, immaginando possibili sviluppi e vivendo con i personaggi sempre al mio fianco per lunghi mesi è un’esperienza totalizzante, immersiva. Alcuni autori sicuramente riescono a distaccarsi di più dal lavoro che stanno creando, ma per me non è così. Io penso sempre a cosa direbbero o farebbero i miei personaggi in una stazione che sto vivendo, immagino i loro gesti e le loro espressioni, a volte li odio perché vorrei liberarmene ma il più delle volte li amo, tanto. Quando il tempo della scrittura finisce e consegni l’ultima stesura provi soddisfazione, certo, ma anche una forma di distacco doloroso: è come lasciare andare un figlio che passa nelle mani di altri e che, quando lo rivedrai, sarà cambiato. Magari lo amerai, oppure no. Ma è giusto così: è il cinema, a meno che chi scrive non sia anche il regista. In questo caso il copione era in ottime mani, conosco Minnella da anni e credo che anche con Fuori la verità abbia fatto un ottimo lavoro, aggiungendo molto del suo stile in fase di regia e imprimendo al film un passo più cadenzato rispetto a quello che era in sceneggiatura, in fase di montaggio. Ha fatto scelte coraggiose che poi è quello che deve fare un regista. Ho amato molto il cast, a partire dal grande Massimo Wertmüller che interpreta un nonno gretto, volgare, comico e allo stesso tempo memorabile: un personaggio lontanissimo da lui, reso in poche scene indimenticabile. Ho trovato Claudia Gerini perfetta e Claudia Pandolfi straordinaria in un ruolo sfidante come quello della conduttrice. Lorenzo Richelmy e Sara Drago sono fantastici nel ruolo degli autori mefistofelici. Non avevo mai visto Claudio Amendola alle prese con un ruolo così fragile e sensibile, lui era entusiasta di poter interpretare questo personaggio e ha incarnato esattamente l’Edoardo Moretti che avevamo scritto. Anche i ragazzi sono stati bravissimi e penso che avranno un grande futuro. Quindi sì, posso dire che riconosco ancora quel ‘figlio’ che ho lasciato andare tanto tempo fa, è cresciuto e cambiato, ma per fortuna mi piace.



