IntervisteWGI si racconta

“Certi film sono una restituzione. Magari tardiva ma importante”

Enrico Saccà su Ipersonnia e il suo lungo cammino fino allo schermo

Ipersonnia è arrivato nelle sale dopo una lunga e tortuosa strada. Destino che accomuna i film più fortunati poiché, sempre più spesso, i progetti vengono seguiti, sviluppati, modificati e trasformati per anni, per poi finire in un nulla di fatto. Adesso che ce l’ha fatta, Enrico Saccà ci racconta la sua esperienza di sceneggiatore e le mille peripezie affrontate dal film che sta riscuotendo un non scontato successo di pubblico e di critica.
Enrico esordisce spiegando che è antico il legame che lo unisce ad Alberto Mascia, regista del film: hanno fatto insieme il Centro Sperimentale nel senso più stretto poiché l’hanno iniziato scegliendosi vicendevolmente durante il mese propedeutico all’ingresso e poi l’hanno concluso realizzando in tandem il progetto di fine corso. E già in quell’occasione avevano preso come riferimento un film come Ai confini della realtà.

L’immaginario sci-fi è da sempre nelle tue corde. Ma qual è stato lo spunto per Ipersonnia?

In realtà sono un onnivoro, anche se il regime fantastico mi interessa e affascina da sempre, perché mi piace studiare le narrazioni che generano perturbamento ed estraniamento. Adoro camminare sul filo del rasoio non sapendo se ciò che vedo è fantasticheria, realtà o un elemento estraneo, irreale. E anche Alberto ama riflettere e muoversi nell’ambito della psiche. Uno dei nostri riferimenti è Memento di Nolan proprio perché il punto di vista è di una persona non affidabile. Così come sono stati di fondamentale importanza film quali L’uomo senza sonno (di Brad Anderson) o Spider ed Existenz di Cronenberg. Tutti film nei quali collimano, fino a mischiarsi, il piano reale con quello virtuale, del gioco e della psicosi. Insomma, volevamo misurarci con un thriller dell’anima.

Questo progetto si era fatto notare anche al Premio Solinas. Cos’era successo in quel caso?

Parliamo di ben 11 anni fa. Era la prima edizione del Premio Solinas Experimenta che riguardava le storie pensate per essere realizzate low budget con tecnologie digitali. Il nostro progetto, all’epoca chiamato A.L.E.T.H., vinse una borsa di sviluppo che consisteva nel tutoring di un anno a cura di Stefano Sardo, Ines Vasiljevic, Isabella Aguilar, Tommaso Arrighi, Max Giovagnoli, Annamaria Granatello, Ludovica Rampoldi e Luca Lucini. È stato un percorso molto stimolante che ruotava intorno all’idea di misurarci con una storia di ossessioni e ricordi. Ma anche di rimossi e rimorsi. Dopo un anno di lavoro, il progetto è stato veicolato in Rai, dove ha vinto ex aequo un premio il cui budget complessivo era di duecentomila euro da dividere tra due progetti. Non era possibile, a nostro avviso, realizzare una sfida visionaria così alta, con un budget tanto esiguo. Non si poteva montare un piano finanziario. Dopo aver rinunciato alla produzione, abbiamo iniziato a bussare a tutte le porte possibili e immaginabili, ma a quanto pare, 10 anni fa non erano pronti a recepire un film di questo genere.

E quando è arrivata la svolta?

Dopo anni di perseveranza e avvilimento, il tempo è maturato e le piattaforme in questo caso sono state di immenso aiuto perché hanno ampliato il mercato permettendo di approfondire la questione di genere e la serialità. Così a distanza di anni Francesca Moino ha rimesso il progetto sul piatto e stavolta, grazie alla Nightswim, è diventato realtà. Sia Stefano Sardo che Ines Vasiljevic si sono subito ricordati del progetto per il quale entrambi avevano fatto da tutor al Solinas. La fortuna più grande è stata quella di avere come produttori, e come editor, Stefano Sardo e Nicola Lusuardi, che ci hanno guidati nell’analisi del progetto dalla giusta distanza, dandoci una chiave di lettura differente e mettendo in discussione una struttura che per noi era assodata, elevando così il livello del film. Questo lavoro ha permesso inoltre di aggiornare un film che, nel frattempo, era invecchiato.

Com’è stato avere come editor degli sceneggiatori come loro?

Stimolante. Stefano e Nicola sono stati un continuo pungolo per noi. Non correggevano la battuta ma si dedicavano all’universo narrativo. Le nostre riunioni di sceneggiatura erano davvero entusiasmanti perché si potevano fare dei discorsi strettamente tecnici, per poi passare a questioni più alte e filosofiche. Stefano in questo progetto veste anche i panni del produttore e quindi capitava di affrontare anche questioni inerenti il budget e le esigenze che da questo derivavano, ma altrettanto importante per lui era la richiesta di sfruttare a pieno tutta la forza narrativa. Ci hanno aiutati poi a scaldare la storia andando a scavare nella ferita del personaggio. Abbiamo speso molto tempo a discutere dei piani onirici, delle regole del thriller psicologico e del giallo. Abbiamo cercato la strada migliore per soddisfarle e poi ribaltarle, ibridando i generi. Il nostro obiettivo era quello di ingenerare nello spettatore la voglia di rivedere il film per scoprire ogni volta nuove semine, indizi e segni in una sorta di sfida intellettuale. E la sfida maggiore è stata quella di riuscirci mantenendo viva l’emozione, senza scadere nel cervellotico.

E sul set sei stato presente?

Avevo iniziato a lavorare come editor in una produzione cinematografica, proprio in quei giorni, quindi sono andato davvero poco sul set ma, in quel caso, il vero valore aggiunto è stato Stefano Accorsi che si è mostrato non solo collaborativo ma davvero speciale nel modo di fare sua la storia. Sono molto contento di essere stato presente quando, sul set, sono stati sollevati dei dubbi reali. Va specificato che abbiamo fatto la lettura del copione con Accorsi e già in quella situazione abbiamo discusso di varie tematiche. Ho anche avuto il mio momento hitchcockiano quando ho fatto un cameo. Meglio di così, non poteva andare!

A proposito di visibilità, com’è andata la promozione del film? Sei stato coinvolto?

Siamo stati selezionati al Torino Film Festival fuori concorso e sono stato presente in conferenza stampa, dove ho parlato e avuto attenzione. Poi ci sono state delle interviste aggiuntive ma in quel caso era richiesta solo la presenza degli attori e del regista che però, ogni volta, mi hanno citato. Poiché il film era in sala, ci siamo divisi i ruoli: spesso a presentarlo sono stato anche io con il regista o con un membro del cast o anche da solo.

Il momento più emozionante di questo percorso?

Ne ho 4. Il primo è stato il primo giorno sul set. Vedere Accorsi attraverso il monitor mentre interpretava il personaggio scritto da me… quella cosa me la porto ancora dietro. È stato un corto circuito, la prima volta che Ipersonnia è diventato vero. A pensarci bene, quando ho firmato il contratto per il film, ero comunque incredulo, viste le peripezie infinite. Altra vertigine me l’ha data la visione del premontato: il film era lì, steso davanti a me. Poi la presentazione di Ipersonnia durante la prima conferenza stampa. Quell’evento arrivava ad una grande distanza dagli altri, poiché dal set a quel momento, era intercorso un anno di post-produzione. Il quarto e ultimo momento è stato quello più commovente: la presentazione a Bologna, nella stessa sala Lumière nella quale 25 anni prima andavo a vedere i film. In quell’occasione con me c’erano Alberto e Accorsi e la sessione di domande dopo il film è durata un’eternità. Per non parlare della proiezione nel cinema Ariston del mio paese natale, Castelnuovo Rangone… emozione pura!

Parlando di nuovi progetti invece, che hai da raccontare?

Ho lavorato per tanti anni in diversi ambiti, pur di rimanere in questo settore, magari in una versione un po’ più underground. Adesso ho davvero nuovi progetti grazie a questa restituzione. Tardiva ma importante. Fare l’editor mi ha aiutato a rimanere nel settore anche quando come autore ero fermo. Anche se devo ammettere che ho pensato, più volte, di lasciar perdere e dedicarmi ad altro.

A proposito della possibilità di vivere di questo lavoro, sai che dal sondaggio per il censimento degli sceneggiatori di Wgi è uscito il dato che l’80% di sceneggiatori italiani si mantiene grazie ad altri lavori?

Non mi stupisce affatto, perché quello dello sceneggiatore è un lavoro bellissimo ma l’ambiente è super competitivo e si vive di alterne fortune e sicurezze. Sembra non basti mai. Finito di scrivere un progetto, si riparte sempre da capo. Si è di nuovo disoccupati. Io, se non avessi avuto la fortuna di ritrovare Stefano e Ines, avrei cambiato professione.

A proposito di Ipersonnia e della sua scrittura, abbiamo contattato anche Stefano Sardo, che in questo progetto ha vestito i panni di tutor, editor e produttore.

Stefano, come hai recuperato questo progetto, a distanza di 10 anni da quando avevi fatto da tutor, durante il Premio Solinas Experimenta?

All’epoca, concluso il laboratorio, avevo un po’ perso le tracce del progetto di Enrico e Alberto. Ma quando ho iniziato l’avventura produttiva con la Nightswim, ho iniziato a darmi come linea editoriale quella di pensare a film che avrei voluto vedere come spettatore. E tra questi ho subito ripensato a Ipersonnia, che sapevo non aveva trovato sbocchi, e invece a me era rimasto in testa: e così quattro anni fa è iniziato il viaggio di Ipersonnia.

In questo progetto avevi un ruolo molto particolare, come hai lavorato sula scrittura?

Ipersonnia è soprattutto un ambizioso gioco di scrittura perciò bisognava lavorare per blindare il più possibile la struttura del progetto. La nostra è stata una sorta di writers’ room in cui si chiacchierava sulla storia per trovare sempre nuove soluzioni. I nostri riferimenti sono stati sicuramente i primi film di Nolan e The Machinist – L’uomo senza sonno di Brad Anderson. Ho cercato di aiutare gli autori a esplorare possibilità alternative e impensate. Anche perché devi considerare che il film, originariamente, era stato pensato, scritto e strutturato per rientrare in un budget di centocinquantamila euro, cioè il formato previsto dal Solinas Experimenta. Noi quindi ci siamo “allargati”, abbiamo aggiunto snodi narrativi e quindi location, personaggi… Siamo andati fuori dalla prigione, insomma, immaginando che aspetto potesse avere un’Italia nella quale le persone vengono incarcerate e condannate all’ipersonnia. La nostra ambizione era non esaurire tutto il senso del film nella rivelazione finale. Volevamo che riuscisse ad avere più livelli di profondità, raccontando non solo l’illusione ma il mondo che si rivela dietro e attraverso di essa. All’inizio questo percorso l’abbiamo fatto insieme Enrico, Alberto, Nicola Lusuardi ed io. Poi Nicola è uscito dalla società e sono rimasto da solo a seguire l’ultima parte del film. Anche se devo dire che Stefano Accorsi è stato molto utile, nella settimana finale, per far vincere le ultime resistenze degli autori a non intraprendere certe decisioni sulle quali non si sentivano al sicuro.

Come hanno reagito a tutti questi stimoli Alberto ed Enrico?

Si sono sottoposti con tenacia e disponibilità e si sono sempre prodigati per non sottrarsi ai problemi e ai dubbi che via via sollevavamo. La loro fiducia nel processo e la loro abnegazione gentile hanno permesso di elevare il progetto dando al film un’ambizione che io definirei internazionale. Sono sempre stati capaci di fare la sintesi delle suggestioni emerse e tradurle nel copione in modo da poter proseguire col lavoro fino all’ultimo minuto possibile. Fino letteralmente al giorno prima del ciak, hanno continuato a limare e aggiustare.

E come produttore, com’è stato lavorare con Enrico?

Mi sono trovato molto bene perché sia lui che Alberto avevano una voglia incredibile di dare vita al loro progetto, non hanno mai avuto la stolidità di chi si immola a difendere la sua prima idea. Ti confesso che mi ci sono trovato così bene che l’ho coinvolto in altri due progetti come co-autore. Da produttore cerco, dove posso, storie solide e poi collaboro nella loro costruzione, come sponda, per aiutare. È fondamentale costruire film a partire da idee forti, ben scritte, ho fiducia che questo sia l’unico modo per ricostruire il patto col pubblico.

Con Enrico abbiamo fatto una riflessione sul sondaggio Wgi per il censimento della categoria e si è riconosciuto nel dato che vede l’80% degli sceneggiatori italiani mantenersi grazie ad altri lavori.

Certo, conosco il sondaggio Wgi e la situazione fotografata dai dati raccolti non mi stupisce. Perché il nostro è un mestiere un po’ casuale. Apparentemente dovrebbe essere oggettivo: perché quello che hai scritto, se è scritto bene, dovrebbe parlare per te. Ma l’avanzamento o meno di una carriera in realtà è molto più casuale di così e in fondo ciò che più conta in questo mestiere, secondo me, è avere una tenacia micidiale. Nel caso particolare di Enrico, mi dispiace molto che i lavori fatti insieme non siano poi andati avanti, sicuramente gli avrebbero dato una rete di sicurezza. È molto serio e poi ha un bel carattere ed è un piacere confrontarsi con lui. A me piace lavorare con gente nuova, sono sempre aperto a collaborazioni, e amo moltissimo la dimensione conviviale tipica delle writing room. Dobbiamo ricordare che non siamo scrittori di narrativa ma sceneggiatori quindi aperti sempre al dialogo con altri: i colleghi che scrivono con noi, innanzitutto, ma anche il regista, gli attori, il produttori, i broadcaster. A fare lo sceneggiatore sei costretto a imparare l’arte del rimettere sempre tutto in discussione.

Se dovessi dare un consiglio a chi si avvicina a questa professione?

Suggerirei di fare qualche scuola di sceneggiatura, sia per imparare le regole basiche della drammaturgia che magari per conoscere dei colleghi con i quali collaborare in futuro. Io per esempio ho incontrato Ludovica Rampoldi alla scuolafiction di Mediaset nella quale studiavamo la serialità e poi, con lei, ho collaborato a diversi progetti, e scriviamo insieme da vent’anni, on and off. Altra cosa importante da fare è usare il tempo di quando si è disoccupati per scrivere. Tiene il muscolo del cervello allenato e poi, puoi sempre ritirare fuori le storie che avevi scritto. Si tratta di buttare giù idee di 3/5 pagine e testarne l’efficacia con gli amici. Infine, consiglio di smontare cose che piacciono. Scalettandole e confrontandole con le proprie. Per imparare da quelli bravi come si costruiscono storie forti.

L’intervista è a cura di Francesca Romana Massaro
La foto di copertina è di Lorenzo Burlando

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