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Se non ha finale, non è un film

La parola a Federico Fava, sceneggiatore di ben due film presentati a Venezia: “Il signore delle Formiche” e “Acqua e anice”

È indubbiamente il momento di Federico Fava. Vicentino doc, ha studiato al CSC e per 7 anni ha scritto la soap “Centro Vetrine”, ma adesso approda al cinema – al grande cinema – possiamo aggiungere, senza timore di sbagliare.

Dopo anni di rincorse e ostacoli, finalmente il red carpet si è disteso e l’ha accolto per ben due volte, durante la medesima 79. Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia che si è appena conclusa.

Federico Fava ha firmato infatti, la sceneggiatura dei film “Il signore delle Formiche” diretto da Gianni Amelio, in concorso nelle sezione principale Venezia 79 e di “Acqua e anice”, opera prima di Corrado Ceron, presentato alle Giornate degli Autori.

 

Federico, come ti sei trovato a scrivere con Gianni Amelio? È stata un’esperienza particolare?

Sicuramente sì. Scrivere con un personaggio della sua caratura, ti catapulta in un mondo a parte, gigantesco come lui. Ma, a differenza di ciò che ci si possa immaginare, scrivere con lui è semplice, utilizza un metodo assolutamente lontano da qualsiasi pomposità e punta a dare risalto al suo lato umano, piuttosto. Riflettendoci, posso dire che è un processo di scrittura molto bello, che ho condiviso con Edoardo Petti, che firma con noi la sceneggiatura.

Avete utilizzato un metodo particolare?

Mi ha fatto capire quanto sia importante lavorare con la testa libera. Totalmente sgombra da altri fattori. Certamente restano necessari e vitali tutti i paradigmi strutturali ma, prima di tutto, lui cerca d’innamorarsi della storia. E mentre l’analizza e la crea, cerca i momenti di culmine emotivo, per ancorarcisi da subito. Già dalle prime riunioni, sono uscite delle scene che erano pensate quasi come poi sono arrivate sullo schermo.

Anche grazie a questi passaggi ho scoperto come valore fondamentale la libertà nella scrittura, perché è grazie a questa che puoi permetterti di svirgolare, distruggere o ricostruire, solo quando conosci profondamente e mastichi strutture da decenni.

Quindi quando Gianni Amelio trova i punti salienti, emotivamente parlando, pensa già anche alla loro messa in scena?

Partiamo dal presupposto che in questo caso si tratta di una storia vera, fondata su un procedimento penale a sostegno del quale ci sono valanghe di atti, memorie processuali e testimonianze. Quindi questa base sconfinata ha fatto da guida e permesso di agire liberamente per costruire tutta l’impalcatura circostante. Gianni quando lavora, ha già in testa la drammaturgia della scena. Poi bisogna tenere presente che quando si ha a che fare anche con degli attori di tale peso specifico, loro stessi danno degli immensi contributi, con le loro interpretazioni o suggestioni. Però, per fare un esempio pratico, già nel corso della seconda riunione era uscito il finale, con la sua drammaturgia e quello, non è mai più cambiato. Ci sono stati stravolgimenti, riscritture, ma quello è rimasto esattamente com’era stato pensato. Perché se non ha finale, non è un film. Mi ci ha fatto riflettere Gianni, che cerca da subito un finale dal grande impatto, poi i culmini emotivi e poi costruisce intorno a questi tutto il resto della storia.

Com’è stato il rapporto con la produzione? Hanno seguito le fasi della scrittura?

Gianni, ça va sans dire, si è conquistato la libertà assoluta rispetto alle case di produzione. In questo caso specifico poi, la produzione era la Kavac e devo dire che Marco Bellocchio e Simone Gattoni erano particolarmente coinvolti dal progetto. Marco in prima persona. Ha conosciuto e vissuto con Braibanti.

È la prima volta che collabori con Gianni Amelio. Come ti ha scelto?

Gianni cercava sceneggiatori giovani con i quali iniziare una collaborazione. Crede molto  nell’entusiasmo dell’esordiente. E all’inizio non nascondo che avevo una discreta soggezione, invece poi conoscendolo, abbiamo instaurato un rapporto molto particolare. Per me è come un padre che non fa pesare il dislivello. Tanto che mi sono sentito libero e spinto – al tempo stesso – a dare il mio contributo.

Per quanto riguarda la tua visibilità, a Venezia sei stato coinvolto nella conferenza stampa o il grande nome del regista ha fagocitato il tuo?

Sono stato assolutamente coinvolto nella conferenza stampa ufficiale di Venezia. Ho notato con piacere che sono stato citato in quasi tutti gli articoli inerenti il film. Ed, essendo nella delegazione del film, ho fatto il red carpet, ebbene sì! E una volta in Sala Grande, mi hanno fatto sedere dietro a Gianni. Insomma, non posso che ritenermi molto soddisfatto.

E a Venezia eri presente anche con un altro film, di genere completamente differente…

Sì, era un Evento Speciale delle Giornate degli Autori. “Acqua e anice”, opera prima di Corrado Ceron è per me un film importantissimo, al quale tengo  enormemente. Un film che ha avuto un percorso completamente differente rispetto a “Il signore delle formiche”. Basti pensare che l’abbiamo scritto, con Ceron, a metà 2015 e da lì si sono susseguite avventure e disavventure. Ritardi, pandemie e lockdown. Dal 2016 l’abbiamo portato in giro, pitchandolo davvero ovunque e a chiunque, ma non interessava perché era un tema difficile, ci dicevano che sarebbe stato un esordio molto complesso. Poi è arrivata la produzione K+ che si è dedicata allo sviluppo del progetto in maniera commovente. Ci siamo trovati così bene che collaboreremo anche su altri progetti. Alle ultime stesure di sceneggiatura ha collaborato anche Valentina Zanella, che ha donato al film un fondamentale punto di vista femminile.

Con chi collabori di solito? Hai una squadra di colleghi, un sodalizio?

Rivendico la mia lunga esperienza, circa 7 anni, di autore per Cento Vetrine. Lì ho imparato l’importanza del lavoro di squadra. Attualmente scrivo con due colleghi: Mariano Di Nardo e Antonio Manca, con i quali stiamo sviluppando tra le altre cose: una serie che dovrebbe, incrociando le dita, entrare presto in produzione. Per me la squadra è fondamentale e loro due sono come due fratelli, ormai. Poi mi capita di scrivere anche con altre persone ovviamente, in base alla tipologia di progetto. E poi ci sono dei registi con i quali collaboro assiduamente.

Hai mai partecipato al #BlindNetpitch di Wgi?

Tantissime volte! Ho pitchato anche “Acqua e anice” in un BlindNetpitch. Credo quello del 2016. Siamo arrivati fino alla fase del pitch, quindi abbiamo conosciuto i produttori, ma l’idea non li ha convinti. Abbiamo però, portato avanti il rapporto umano e così, ci hanno commissionato dei lavori.

Quando scrivi, hai dei paradigmi strutturali che prediligi?

In realtà, cerco di switchare da un diktat all’altro. Mi ricordo che in una delle prime lezioni che feci al CSC, ci dissero che, come diceva Scarpelli “La trama si compra dal tabaccaio”. Io lavoro solitamente sui tre atti e tengo presente la struttura di Blake Snyder (autore di “Save the cat”, ndr) che mi aiuta tantissimo. Adoro essere inizialmente rigido, per poi rompere tutto.

Se ti dovessi rifare ad un autore italiano?

Adoro Petri. L’ho studiato molto. Fino a “La proprietà non è più un furto”, è riuscito a coniugare l’amore disinteressato per i personaggi alle strutture all’americana, tipiche del noir. Scriveva mantenendo un tono ritmato e si sentiva anche l’apporto di De Santis, la sua eredità. Era forte la spinta autoriale europea e al contempo moderna. Se con le mie opere ci riuscissi, sarebbe una strada che sarei onorato di percorrere.

L’intervista è a cura di Francesca Romana Massaro

WGI si racconta – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori e tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione. Questa rassegna offre uno spazio alle singole storie professionali dei nostri soci.