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Addio al nubilato 2

Un sequel di successo

Tratto dall’omonima pièce teatrale di Francesco Apolloni, che ha voluto mettere in scena il rito di origine anglosassone che la sposa condivide con le sue amiche, il primo lungometraggio Addio al nubilato è stato diffuso su Prime Video a fine febbraio 2021. Lo scorso 17 ottobre 2023 è arrivato sulla stessa piattaforma il sequel Addio al nubilato 2 – L’isola che non c’è, sceneggiato stavolta dal nostro socio Gianni Cardillo (prima firma nei credits) insieme allo stesso Apolloni e a Sara Mosetti. Gli abbiamo chiesto le sue riflessioni sulla struttura narrativa e sui temi di inclusione e maternità presenti nella pellicola. Ne abbiamo approfittato anche per conoscere le sue opinioni sull’impatto dell’intelligenza artificiale nel processo creativo, e il suo intreccio con le piattaforme streaming.

Carissimo Gianni, “Addio al Nubilato 2 – L’Isola che non c’è” ora su Prime Video, viene considerato un prodotto superiore al primo capitolo. Cosa pensi abbia contribuito a questa valutazione?

Sbagliando si impara, no? Scherzi a parte, credo che il motivo sia da ricercare nell’intreccio più corposo del sequel rispetto a quello del primo episodio, sostenuto da situazioni più variegate, inerenti a temi quali l’inclusione e il disagio, affrontati con leggerezza e senza cadere nel pietismo. Queste, almeno, erano le nostre intenzioni, per cui abbiamo centrato la storia sulla trasformazione delle protagoniste in “eroine loro malgrado”, tirandole fuori dalle loro comfort zone e facendole approdare, dopo varie peripezie, in una casa famiglia che ospita un gruppo di bambini disagiati. Il fatto che questi bambini stiano cercando di mettere in scena la favola di Peter Pan, per raccogliere fondi utili a evitare la chiusura della casa famiglia che li ospita, porta le protagoniste a confrontarsi con l’assunzione diresponsabilità, la necessità di affrontare le proprie paure, indecisioni, ansie, certezze incrollabili…

La pellicola appare come una combinazione tra favola e road movie tra Roma e la Slovenia. Come hai concepito la struttura narrativa e quali sono stati gli elementi di ispirazione per la storia?

La prima fonte di riflessione – che poi non c’entra nulla col film – è stata la condizione dei bambini nella guerra in Ucraina e, per esteso, in tutte le situazioni di estremo disagio. E ci siamo chiesti: “Cosa succederebbe se le nostre quattro amiche borghesi si trovassero di colpo immerse, loro malgrado, in un simile contesto?”. Questo è stato l’input iniziale. Abbiamo concepito da subito la storia come un road movie, partendo dalla necessità di Eleonora (Antonia Liskova), dopo essere stata abbandonata sull’altare, di dare sepoltura ai resti del padre a Nova Gorica, dove era nato. L’idea strutturale nasce dallo Stationendrama, qui declinato in maniera divertente. Un crescendo di tappe e ostacoli che portano le protagoniste a doversi confrontare – e scontrare – con convinzioni e sovrastrutture precedenti: via via che le abbandonano o sono costrette ad abbandonarle, le amiche si aprono a nuove esperienze, fino a mettersi in discussione e, in alcuni casi, ritrovare o cambiare se stesse. O almeno, avviarsi in quella direzione. Altra fonte di ispirazione fondamentale è stata la favola di Peter Pan, che impregna tutto il film con le sue tematiche, soprattutto la necessità di crescere che si scontra col desiderio di rimanere nel proprio guscio, nella propria comfort zone, evitare i problemi. Ma non si può rimanere sempre a guardare, bisogna sporcarsi le mani se si vuole vivere davvero e pienamente.

Come avete bilanciato con il regista Francesco Apolloni l’umorismo con l’approfondimento dei personaggi (le quattro protagoniste) e dei temi trattati?

Quando scrivo a me piace sbattere i personaggi davanti a uno specchio e/o su un lettino, come se io fossi il loro analista. Per conoscerli e fare in modo che loro pian piano conoscano se stessi, si accettino o si rifiutino… Questo processo ha dei lati drammatici e dei lati comici, ed emergono entrambi facendo agire i personaggi nel contesto che si sceglie. Almeno, io lavoro così. Con Apolloni poi le dinamiche che ci portano verso il dramedy non sono spiegabili, nel senso che non le decidiamo a tavolino ma vengono fuori naturalmente. Perché in fondo così è la vita: si piange e si ride, ci si dispera e si gioisce… Tutti i film che abbiamo scritto insieme (‘Fate come noi’, ‘La verità, vi prego, sull’amore’ e altri in fase di sviluppo) vanno in quella direzione, è come un marchio di fabbrica.

Nel film si fa riferimento al potere della fantasia, alla maternità e all’inclusione. Che messaggio volevate trasmettere al pubblico?

I temi che tu citi ci sono tutti, è vero. Ma per carità non parliamo di messaggi! Lasciamo che a trasmettere messaggi siano i filosofi, i politici, i leader spirituali… Quando scrivo non parto mai da un ‘messaggio’, ma dalla storia e/o dai personaggi. Man mano che vado avanti nella scrittura emerge un senso, ma è solo il mio e deve rimanere tale. Non cercherei mai – almeno consapevolmente – di esplicitarlo. Spesso non lo condivido nemmeno col regista con cui lavoro, nella speranza che lui ne trovi uno suo e che i due si intreccino inconsapevolmente. Credo che ogni spettatore debba essere libero di trovare il proprio messaggio, il proprio senso nelle storie. O di pensare che non ce ne sia uno, se la storia gli appare debole. Sono un convintissimo sostenitore della polisemia dell’opera, e che questa debba essere sempre fruibile a più livelli.

Come pensi che l’intelligenza artificiale possa influenzare il processo creativo di scrittura, soprattutto in un’epoca in cui le piattaforme streaming stanno diventando sempre più rilevanti?

Siamo immersi in un processo di costante evoluzione – permeato anche da sacche di oscura involuzione. Rifiutare questo processo non è possibile e non ha senso. L’AI ne fa parte, dobbiamo prenderne atto e cercare di farla diventare uno strumento capace di stimolare e amplificare le nostre capacità creative. Come quando siamo passati dalla penna alla macchina da scrivere e poi da questa al computer. A mio avviso l’AI di suo non è né buona né cattiva, come del resto non lo sono i computer o gli smartphone, dipende dall’uso che riusciremo a farne. Mi fa sorridere il terrore che l’AI possa soppiantare l’uomo, portarci all’estinzione come razza umana. Onestamente mi pare che ci stiamo riuscendo benissimo da soli… Più realisticamente l’AI sostituirà l’uomo in alcuni processi, ma la vedo come una tappa della nostra evoluzione. Evoluzione di cui fa parte la tecnologia, che è stata inventata dall’uomo e non viceversa. Almeno, fino a prova contraria… L’AI ci toglierà il lavoro? Dipende da noi. Io credo che possa trasformarlo il nostro lavoro, aprirci nuovi orizzonti creativi che al momento nemmeno immaginiamo. Quanto alle piattaforme… Stanno uccidendo il cinema? Forse stanno uccidendo il cinema come lo conosciamo oggi, lo costringono a trasformarsi per sopravvivere altrimenti verrà sostituito da altre forme di fruizione. Di fatto le piattaforme hanno aumentato l’offerta di audiovisivo, e di conseguenza anche il lavoro per noi autori. Onestamente non ho idea del modo in cui l’AI, le piattaforme e ogni altra invenzione futura modificheranno il nostro modo di vivere, di lavorare, di creare… però credo che ogni problema nasconda sempre un’opportunità, sta a noi decidere se farci annientare dal problema oppure individuare e cogliere l’opportunità che contiene.

L’intervista è a cura di Francesco Maggiore

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