IntervisteWGI si racconta

Il tocco di Piero

 

Dedicato a Umiliani l’ultimo documentario di Massimo Martella

 

Il nostro socio e vicepresidente WGI, Massimo Martella, ha scritto e diretto un documentario sul compositore Piero Umiliani, dal titolo “Il tocco di Piero”.
Presentato in anteprima al Torino Film Festival, il film uscirà presto nelle sale italiane.

Carissimo Massimo, il tuo documentario sul leggendario autore del brano Mah’nà Mah-nà, è stato presentato all’ultimo Torino Film Festival. Che cosa ha rappresentato per te quest’anteprima?

Portare il documentario su Piero Umiliani al TFF è stata una grande opportunità, perché la vetrina è di quelle importanti e perché tra tutti i miei lavori questo è certamente uno dei più desiderati. Non sono certamente il primo a poter dire che “la musica mi ha salvato la vita”; ma è stato senz’altro così. Quando non ero nient’altro che un ragazzino di provincia timido e oscuramente desideroso di un “mondo più giusto”, la scoperta del rock, dei suoi contenuti e della musica in genere, mi ha permesso di trovare un’identità, un popolo al quale unirmi, e di coltivare una speranza di cambiamento. Di conseguenza, da quando il cinema e la televisione sono diventati il mio mestiere, ho sempre sognato di poter realizzare un giorno un film sulla musica.

E adesso eccomi qui, con un film nel quale ho potuto girare due sessioni live con musicisti che amo – una a Roma con un sestetto guidato da Enrico Pieranunzi, una a Milano con i Calibro 35 – con un repertorio a mio parere eterno, fuori dal tempo, pieno di sorprese, e raccontando un personaggio che ammiro e che merita di essere più conosciuto. Non avrei potuto sperare di meglio.

Umiliani è inserito fra i grandi maestri da riscoprire e imitare. Cosa ti ha spinto a indagare la sua parabola creativa?

Il progetto del film è nato anni fa dall’amicizia con una delle figlie di Piero, Elisabetta, che mi invitò ad assistere a un concerto in onore del padre scomparso qualche anno prima. Caso volle che ad arrangiare ed eseguire i brani di quel concerto fosse proprio Enrico Pieranunzi, una delle colonne del jazz italiano, insieme ad un piccolo ensemble di collaboratori; che poi a distanza di anni è stato uno dei miei principali partner in questa avventura. Al termine di quella serata, colpito dalla ricchezza e dalla varietà della produzione di Piero, io e la figlia ci dicemmo che, certo, sarebbe stato bello un giorno fare un documentario su di lui, partendo proprio dalle sue origini musicali, il jazz. Piero disse, a proposito del jazz, che “è ritmo, perché viene dall’Africa, e fa parte della nostra vita”. Come tale restò centrale nella sua ispirazione nonostante i mille stili che frequentò componendo colonne sonore, libraries e altro. Ho cercato di costruire un film dal ritmo “sincopato” che non fosse una semplice biografia. Dal momento che lungo il suo percorso Umiliani ha saputo spesso interpretare il gusto dei tempi, tramite la sua parabola artistica ho cercato di ripercorrere la trasformazione della musica per il cinema, e del gusto musicale degli italiani. Per questo le ambientazioni, le evocazioni visive e i colori delle clip musicali citano epoche e luoghi di fruizione dei brani originali: dai night anni ’50 al Festival di Sanremo, dal cinema dark a quello figlio del boom economico, dall’arrivo del beat e della psichedelia a cavallo del ’68, alle luci stroboscopiche delle discoteche anni ’80.

Dagli inizi con le orchestrine jazz, passando per le colonne sonore dei film di genere degli anni 60 e 70, fino alla sperimentazione della musica elettronica in Italia. Quando hai iniziato a scrivere della sua vita, quali di questi aspetti ti ha colpito di più?

La risposta più semplice sarebbe che ad avermi colpito è stata proprio la sua straordinaria versatilità e duttilità creativa. Nel suo repertorio puoi trovare dall’arrangiamento orchestrale per Nilla Pizzi al brano di be-bop, dalla canzoncina orecchiabile con ritmo di bossa nova alla ballata da film erotico, alle atmosfere elettroniche che precedono i Tangerine Dream; il tutto realizzato con enorme maestria e con la leggerezza che gli è tipica. Se devo citare un brano, i Calibro 35 hanno scelto di eseguire un brano tratto da una library, “Non mollare”, che potrebbe tranquillamente stare come strumentale psichedelico in una delle colonne sonore composte a cavallo degli anni ’70 dai Pink Floyd…

E’ stato difficile recuperare il materiale di repertorio dall’archivio di Cinecittà Luce?

Esattamente il contrario. Innanzitutto va detto che avere a disposizione gratis, perché è Luce Cinecittà stessa che produce, l’immenso repertorio dell’Istituto Luce, è come avere a disposizione una specie di cornucopia piena di meraviglie, un deposito pieno di risorse nel quale è possibile trovare sorprese inaspettate. Per fare un esempio, nel film racconto un episodio singolare degli inizi di carriera di Umiliani, ovvero il momento in cui, andando a sentire al Teatro Sistina a Roma il concerto italiano del grande Oscar Peterson, resta di stucco sentendo suonare un brano che lui aveva composto a 24 anni e del quale aveva inviato lo spartito, senza molte speranze, a una società editrice americana. Ebbene, nel repertorio Luce ho trovato alcuni splendidi scatti proprio di quella serata, con Oscar Peterson che chiacchiera amabilmente con Ella Fitzgerald nel retro del palco. C’è poi da dire che il repertorio del Luce è facilmente consultabile in rete, e che per le ricerche più difficili ci sono gli “angeli del repertorio”, due ricercatrici che conoscono molto bene l’archivio e sanno indirizzarti verso ciò che ti serve.

Lo scorso anno, Giuseppe Tornatore ha portato nelle sale Ennio, una monumentale opera dedicata alla vita di Ennio Morricone. In un certo senso hai temuto il confronto tra il tuo e il suo lavoro?

Naturalmente sì, non fosse altro perché il film di Tornatore aveva due assi nella manica che io non potevo in alcun modo avere: l’intervista del tutto particolare, in estrema amicizia, con lo stesso Morricone, mentre Piero ha lasciato dietro di sé poche testimonianze filmate; e la possibilità di attingere, pagando i diritti, a un repertorio cinematografico straordinario. Cosa che per i costi del mio film era assolutamente non riproponibile. Per questo ho cercato di allontanarmi dal modello del bel film di Tornatore, ovviando con la formula del film-concerto, come lo ha definito Ernesto Assante, puntando quindi sulla musica rigorosamente live e riarrangiata; e raccogliendo i ricordi della famiglia, che specie nella parte finale del film evoca il dramma dell’interruzione improvvisa dell’attività di Umiliani, per colpa di un’emorragia cerebrale, e di quel che ne seguì.

Quanto sono stati significativi gli interventi narrativi delle memorie di familiari, amici e collaboratori storici del musicista?

Sono stati fondamentali. Quello che più mi ha emozionato, dal punto di vista umano, è che tutti i suoi collaboratori mi hanno descritto le sedute di registrazione con il “Maestro Umiliani” come allegre e conviviali, prive di tensione, “tra amici”, talvolta entusiasmanti per la libertà con la quale Piero permetteva ai musicisti di improvvisare e di dare sfogo all’estro del momento. Per tutti, dal già citato Pienanunzi al contrabbassista Giovanni Tommaso, dal batterista Gegè Munari al chitarrista Silvano Chimenti, alle mogli dei registi con i quali ha più fatto coppia, Scattini e Capitani, sono ricordi della massima piacevolezza, il che non è affatto scontato. La stessa canzoncina miracolosa “Man’ha Man’ha”, che in origine si chiamava “Viva la sauna svedese”, nacque in studio come una specie di gioco tra musicisti per tappare un buco della colonna sonora di un documentario erotico: la voce nasale di Alessandro Alessandroni, l’organo ritmato di Antonello Vannucchi e il coordinamento orchestrale di Piero… Il punto è che Piero non si è mai messo su un piedistallo nei confronti dei suoi musicisti: questa sua umiltà è stata forse il motivo per cui tutti coloro ai quali ho chiesto un ricordo di Piero sono stati contenti di intervenire.

Ha avuto una sua importanza girare negli ambienti reali dove è vissuto?

Lo studio che Piero Umiliani volle realizzare nel 1968, per essere libero di creare e registrare musica quando voleva e senza dover pagare niente a nessuno, non è uno studio qualsiasi. È una delle creature del più importante e rivoluzionario tecnico del suono che ci fosse in Italia in quegli anni, l’ing. Paul Ketoff. E il fatto che lo studio, che per i suoi tempi era assolutamente all’avanguardia, si sia conservato sostanzialmente intatto, con lo stesso allestimento dell’epoca – fatta eccezione per il banco di missaggio – ne fa un luogo di grande valore simbolico, una sorta di testimone esso stesso del tempo di Piero; dell’epoca nella quale in Italia, per dirne una, si realizzavano 300 film l’anno, e le colonne sonore erano registrate con strumenti veri e in analogico. Per me e naturalmente anche per le figlie, che proprio in questi anni hanno rimesso a nuovo lo studio per renderlo nuovamente operativo dopo anni di stop, è stata un’emozione particolare girarvi la sessione romana, e sentirvi risuonare nuovamente le note del pianoforte di Pieranunzi, che ci aveva registrato quasi cinquant’anni fa.

Sei in primis sceneggiatore e poi regista di questo straordinario biopic. Ritieni che la scrittura sia il motore di avvio imprescindibile per ogni tipologia di racconto filmico o seriale?

In tutta franchezza, no. Esiste una tipologia di documentari che, pur partendo inevitabilmente da un soggetto scritto, trovano la strada del proprio racconto e il loro stesso senso nel confronto tra il regista con la macchina da presa e la realtà. In certi casi solo durante le riprese e al loro termine è possibile “scrivere” compiutamente il film. Io però non lavoro così, sono un ricercatore maniacale… non riesco ad approcciarmi alle riprese se non dopo un enorme lavoro di documentazione, che in questo caso si è materializzato in letture, ascolti, consultazione di articoli, foto e ricordi di famiglia.

L’intervista è a cura di Francesco Maggiore

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