IntervisteWGI si racconta

La centralità delle donne

in una nuova entusiasmante lettura

“Non bisogna temere di spargere luce su qualcosa di più grande di sé. Le nostre voci sono necessarie e importanti. Mostrarlo è un nobile lavoro”. Con la prefazione di Linda Seger, arriva nelle librerie grazie a Dino Audino Editore, il nuovo libro di Miranda Pisione, “Protagoniste”, dedicato a 55 fantastici monologhi femminili tratti dalle serie tv

 

Carissima Miranda, è uscito il tuo nuovo lavoro “Protagoniste”, che raccoglie 55 monologhi femminili nelle serie tv. Com’è nata l’idea del libro?

È nata da un altro libro e ne darà vita anche a un secondo. Mi spiego. Come sceneggiatrice ho sempre avuto particolare interesse per la creazione, lo sviluppo e la movimentazione di ogni tipo di personaggio nella letteratura, nel cinema e, ovviamente, nella serialità televisiva. Così ho dedicato anni di studio e ricerca sul campo, alla ricerca di una chiave che garantisse da una parte l’aggancio del personaggio a un archetipo di riferimento, ma dall’altra consentisse la massima libertà alla spinta creativa di ogni autore per produrre caratteri originali. Sappiamo bene che i manuali possono essere amici o nemici di uno scrittore autentico ed è stata una mia costante preoccupazione durante la stesura de “L’Eroe Tematico” che è stato pubblicato due anni fa da Dino Audino Editore.

“Protagoniste” è il seguito di questa collaborazione. Il monologo è infatti il luogo letterario e cinematografico principe dove il personaggio manifesta la sua necessità di evoluzione, parzialmente evolve e fa nello stesso tempo evolvere la storia. Una progressione di parole legate a diverse emozioni che mettono a dura prova l’interprete. Per questo bisognava presentare personaggi molto diversi tra loro, in varie situazioni ed epoche, analizzarli in profondità, evidenziare il loro particolare carattere, e – secondo il mio manuale – la relativa Forma Mentis, il background e il tipo di percorso, per arrivare a cogliere anche il loro modo di esprimersi, il perché di quello specifico linguaggio. “Protagoniste” è un condensato di piccoli capolavori, adatti alla lettura, ma anche uno strumento di lavoro dedicato alle interpreti e a chi scrive per accedere in profondità al personaggio. Ho scelto e tradotto i testi dall’originale, li ho riadattati, integrati e contestualizzati in forma di monologo autosufficiente proprio per essere fruibili e recitati in italiano. Il prossimo libro raccoglierà monologhi affidati a protagonisti maschili.

Il tuo ultimo testo potrebbe essere definito un “instant book”, perché arriva in un momento in cui la donna sta abbandonando con sempre maggiore decisione il ruolo tradizionale di spalla, in cui era stata marginalizzata, per conquistare caratterizzazioni sempre più importanti e forti sia sul grande che sul piccolo schermo. Sei d’accordo?

“Protagoniste” non lo definirei proprio un “Istant”. Tra la visione delle tante serie, la ricerca capillare, l’analisi accurata dei personaggi e il lavoro sui monologhi direi che è più il risultato di un lungo lavoro certosino. Però hai perfettamente ragione sul fatto che al momento ci sia un’attenzione, oserei dire un’urgenza di ruoli femminili lontana dai vecchi stereotipi, che il pubblico sente in buona parte superati e poco aderenti all’attualità. A mio avviso la novità è che i ruoli femminili migliori più che “forti” nell’accezione comune, sono quelli in cui il personaggio è finalmente dove deve essere, ovvero al centro della propria narrazione e mostra chiaramente il suo Essere, la sua Forma Mentis, la visione del mondo, ovvero i suoi obiettivi e le sue paure, non vanno a scapito del concetto tipico del femmineo, ma vanno oltre. Per intenderci non sono eroine, termine che riporta a un ristretto numero di dinamiche stereotipiche generalmente nell’ambito romance, ma piuttosto eroi femminili. Quindi non ho preso in considerazione solo caratteri direttivi di rilievo quali la simpatica aggressiva Nairobi da “La casa di carta” o la splendida villain Cersi Lannister da “Il trono di Spade”, ma anche quelli apparentemente meno interessanti, più silenziosi, fino ad ora poco praticati, che invece possono restituire grandi personaggi. Guardiamo per esempio come viene mirabilmente affrontata l’elaborazione del lutto di due madri ruvide, sofferenti e di poche parole, come accade sia a Frances McDormand nel film “Tre manifesti a Ebbing. Missouri”, che le ha fruttato un Oscar, sia a una sorprendente Kate Winslet nella recente miniserie “Omicidio a Eastown”, che le ha consegnato un Emmy. Io credo che questi prodotti di eccellenza ci spingano a considerare che per scrivere personaggi straordinari è necessario superare il limite della percezione sociale rispetto ai ruoli di gender, ma di più, credo che noi autori, uomini e donne, dovremmo cercare di superare i nostri stessi preconcetti, perché è inutile negare, per quanto si possa avere una mente aperta i pregiudizi sono parte della nostra educazione, restano nel subliminale ed emergono nel nostro lavoro di scrittura spesso senza che ce ne accorgiamo. In “Protagoniste” metto particolare attenzione agli effetti deleteri della rigida educazione di gender, alle pressioni e alle aspettative a cui l’individuo, e dunque il personaggio che ne è rappresentazione, viene sottoposto nel periodo più delicato della sua esistenza, quello formativo, e farò altrettanto anche nel libro dedicato ai personaggi maschili a cui sto lavorando.

“Protagoniste” affronta conflitti, desideri, obiettivi, ma anche la delusione e il coraggio di alcune eroine, anzi come dici tu eroi femminili, come Elizabeth di “The Crown”, Cersi Lannister de “Il trono di Spade”, Piper Chapman di “Orange is the New Black”; senza dimenticare i dialoghi fra Meredith Grey e Cristina Yang in “Grey’s Anatomy”, solo per citarne alcune. Quanto sono importanti le loro dimensioni emotive?

L’emotività è indispensabile, è la strada migliore per connettere il pubblico ai personaggi e quindi alla storia. Ma l’emozione pura da sola non basta. Non tutte le persone reagiscono con le stesse emozioni davanti agli stessi avvenimenti, per esempio se il personaggio prova vergogna, rabbia, gioia, frustrazione o paura in reazione a situazioni che lo spettatore non condivide, diventa difficile per quest’ultimo identificarsi e finisce per perdere interesse. Altra storia invece è se riusciamo a suscitare l’empatia, dove lo spettatore è messo nelle condizioni di poter vedere e sentire il mondo con gli occhi e la personalità specifica e originale di ogni personaggio. In questo caso, a prescindere dalla sua esperienza personale, entrando in contatto profondo con la sua Forma Mentis, ovvero gli schemi mentali del personaggio, lo spettatore impara a capire e ad accettare le motivazioni dietro a ogni scelta e azione del personaggio, perciò può arrivare a una vera compartecipazione alla sua vita e alle sue scelte, anche se non le condivide, comprendendo, anzi a volte anticipando, quello che prova e persino quello che farà il personaggio, senza bisogno di identificarsi. Insomma, come vediamo nei migliori film e serie tv, il pubblico diventa proattivo, ovvero conosce l’Eroe meglio di quanto si conosca il personaggio stesso, lo ama (o lo odia) così tanto da preoccuparsi per lui e restare in attesa trepidante sull’esito di una scelta tra la soluzione di un conflitto più ovvia/ragionevole contro quella inusitata e apparentemente “sbagliata” che appartiene però al tipico modo di pensare e di agire dell’Eroe e perciò sarà interessato alle sue avventure e alla sua sorte come se fosse un amico. Quindi credo che per noi autori, durante la creazione dei personaggi e del loro background, sia fondamentale dedicare particolare attenzione alla costruzione della loro Forma Mentis, gli schemi mentali che permettono allo spettatore di empatizzare con loro, renderli dinamici e variegati senza però perdere coerenza psicologica. Perché alla fine sono queste dinamiche specifiche che li rendono coerenti e restano nel cuore e nella mente del pubblico. In “Protagoniste”, per mettere a disposizione queste interessanti dinamiche, viene riportata una sintetica analisi del mondo della serie e della scena del monologo proprio dal punto di vista del personaggio, per esempio: per Elizabeth, il problema sono sempre i conflitti, vuole evitarli, ma è oberata dal peso della corona e dai doveri etici che la costringono all’azione; Piper Chapman è un’insicura tendente alla paranoia che compensa con la dialettica e le circonvoluzioni mentali; per la gelida villain Cersi Lannister è importante capire da dove viene la mancanza di empatia che permette i suoi comportamenti, perché si tratta dell’ipertrofia di un sistema difensivo; nel romanzo di formazione “Grey’s Anatomy”, Meredith Grey e Cristina Yang sono due introverse, ma Meredith vive in un suo mondo emotivo, dove impara filtrando e introiettando le sue sensazioni, mentre Cristina vive nel suo mondo mentale, dove il sapere è tutto, mentre i rapporti con le persone sono problematici, perciò è un’asociale

Hai usato un criterio particolare nella scelta dei monologhi? Ti sei basata solo su quello che hai amato, o hai avviato un lavoro più approfondito di ricerca che abbracciasse il più possibile la globalità della serialità televisiva?

L’obiettivo, come ormai sai, era analizzare e raccontare personaggi con caratteri, credenze, epoche e mondi specifici estremamente diversi tra loro, pertanto ho allargato la ricerca alle migliori serie apprezzate sia dalla critica che dal pubblico negli ultimi trent’anni (e qualcosa anche prima), selezionando personaggi presi sia dalla serialità televisiva mainstream sia da quella specifica per un pubblico colto di intenditori, con un occhio anche al pubblico molto giovane. Ho anche spaziato tra situazioni, generi, toni e tematiche. Per citare alcune serie: dai romanzi di formazione “Dawson’s Creek”, “Girls” e “Tredici”, alle relazioni di coppia e familiari drammatiche o di dramedy di “Sex and the City” e “Grey’s Anatomy”, fino al rapporto con il proprio psicanalista di “In Treatment”; dal poliziesco psicologico di “Umbelievable” e “Criminal Minds”, alle storie carcerarie di “Orange is the new Black”, fino a quelle dei criminali de “La casa di Carta”; dalla politica sana di “The Crown”, “Madame Secretary” e “Borgen – Il potere” a quella aberrante rappresentata in “House of Cards”; dai drammi noir “Breaking Bad” e “Better Call Saul”, al dramma distopico “Leftovers”, passando anche per i toni horror di “Westworld” e il fantasy de “Il trono di spade”. Particolare attenzione alla comicità e alla tragicommedia finora poco rappresentate nei personaggi femminili come ne “La fantastica signora Maisel” e in “Fleabag”. Ho scelto molte serie scritte da creatrici, per mostrare come oggi le donne raccontano (e sanno ridere di) se stesse. Poi, per quanto riguarda le preferenze sui personaggi ho volutamente alternato positivi, conflittuali e villain in cui gli elementi caratteriali e i percorsi di cambiamento (o resistenza al cambiamento) fossero interessanti e originali nonostante il forte inquadramento archetipico. Come ho già detto, ho sintetizzato la mia analisi per ogni personaggio in modo che lo rappresentasse nel suo mondo fictionale proprio dal suo punto di vista, con i suoi obiettivi e suoi conflitti nella scena.

Nel meccanismo della sceneggiatura, assume una forma particolare “L’Eroe Tematico”, che è tra l’altro il titolo del tuo precedente lavoro. È fondamentale per te delineare una connotazione precisa dei personaggi all’interno di una qualsiasi storia?

Assolutamente sì. L’autore di film e soprattutto serie – perché di serie tv “Protagoniste” si occupa – deve lavorare con i suoi personaggi, che a volte sono molti, e farli pensare, agire, interagire e parlare per mesi, se non per anni. Però una semplice connotazione non basta, me ne sono accorta soprattutto scrivendo in prima persona. Il patrimonio di istruzioni che avevo studiato e possedevo, la struttura dei film e la narratologia, non era sufficiente a tenere le fila di tutti i caratteri perché fossero originali, coerenti e con dinamiche, storie e ostacoli adatti. Ho cominciato allora a elaborare anche un mio sistemino aggiuntivo, finché durante i corsi Script della Rai, ho incontrato, grazie a una docente statunitense, le dinamiche dell’Enneagramma, una tecnica antica di tipicizzazione che gli autori di cinema e serie tv americani utilizzavano – e tutt’ora utilizzano – per creare personaggi approfonditi e di grande successo. L’applicazione non era semplicissima, ma proprio perché mi serviva tanto per il mio lavoro di scrittura nelle serie, ho cominciato a usare questa tecnica per raffinare il mio precedente sistemino di approccio al personaggio, lavorando sugli archetipi, aggiungendo elementi di psicologia classica e cognitiva, e ristudiando le dinamiche di tanti straordinari personaggi non solo nell’audiovisivo, ma anche nella letteratura e nei classici. Sono tornata a rivisitare Pirandello e persino Manzoni, Omero e Dante, rendendomi conto che lo schema archetipale sottile e invisibile che mi sembrava di aver individuato, esisteva e funzionava benissimo se lo si usava nel lavoro quotidiano in sinergia con le strutture classiche. E piano piano questo è diventato “L’Eroe Tematico”, un sistema più complesso per focalizzare personaggi con i propri temi e una propria Forma Mentis così coerente eppure dinamica da poter vivere oltre la storia di un film o un singolo episodio seriale. Ho usato il sistema non solo per scrivere da sola, ma anche insieme ai colleghi semplificandoci il lavoro perché per fissare precise caratteristiche e dinamiche del personaggio potevamo anche contare su una notazione specifica senza perdere fuoco e cambiare chirurgicamente quello che non funzionava, una sorta di “formuletta” delle dinamiche del personaggio. Poi cinque anni fa è stato proprio WGI a chiedere ai soci se avevano tecniche da insegnare e io ho pensato che forse il mio sistemino potesse interessare. Da allora ho cominciato a insegnarlo ai professionisti e nelle scuole di settore rendendolo sempre più fruibile e oggi, anche in pandemia, si continua con la didattica a distanza. Poi è uscito il libro con la spiegazione del sistema. In “Protagoniste”, ho voluto far precedere ogni monologo da un box di informazioni di base tra cui la “formuletta” del personaggio secondo il sistema Eroe Tematico la cui spiegazione è possibile attraverso dei Materiali integrativi che si possono scaricare dalla scheda del libro sul sito dell’editore Dino Audino.

La Palma d’oro di “Titane” al Festival di Cannes, e il Leone d’oro di “L’Evènement” alla Mostra del Cinema di Venezia, hanno mostrato al mondo come si possono costruire storie potenti con meravigliose e tormentate figure femminili, appunto “Protagoniste”, come il titolo del tuo libro. Credi sia una visione tardiva o funzionale al contesto audiovisivo contemporaneo?

Credo che possiamo parlare soprattutto della visione delle donne sul mondo in qualità di autrici, registe e anche produttrici, punto di vista che oggi interessa il pubblico. Per tanto tempo l’autore, il regista, il produttore, quello che comandava per intenderci, è stato solo uomo, le autrici, le registe, le produttrici, ma anche le direttrici della fotografia… insomma quelle che combattevano per fare questo lavoro sono state considerate per molto tempo una rarità, una stranezza da non prendere sul serio o nei migliori dei casi una sottoclasse di serie B, finché non hanno cominciato a vincere premi con grandi film dimostrando a quelle che sono venute dopo che “si poteva fare”. Quindi diciamo semplicemente che il contesto attuale e il mercato sono favorevoli, ed è veramente una buona cosa, perché ci sono tante storie da raccontare e molte da riraccontare secondo punti di vista mai esplorati. Tornando alla tua domanda se questa sia una visione tardiva posso rispondere affermativamente perché in realtà fin dagli esordi del cinema c’erano donne che occupavano ruoli di comando nel cinema, ma sono state dimenticate. Nella prefazione di “Protagoniste” Linda Seger fa riferimento a una grande pioniera del cinema di cui io stessa non sapevo molto. “La fée aux choux (La fata dei cavoli)” è il primo film di fiction della storia girato in Francia del 1896, un anno dopo l’invenzione del cinematografo, della durata di circa tre minuti. Ha una protagonista femminile e fu scritto e diretto dalla giovane Alice Guy-Blaché, che, assunta come segretaria, divenne presto regista e capo della produzione della Gaumont. Girò centinaia di titoli tra film, reportage e attualità, fondò con il marito negli Stati Uniti uno studio di produzione all’avanguardia, e uno dei suoi film è conservato nel National Center for Film, perché fu il primo realizzato con un cast tutto afroamericano. Eppure quasi tutti i film di questa artista e produttrice di rilievo sono perduti, addirittura quando era ancora in vita, nonostante i riconoscimenti delle istituzioni, la Guy-Blaché, faceva veramente fatica a dimostrare la sua esistenza come artista e produttrice. È incredibile, ma io credo che forse il problema sia più antico e profondo, forse la causa è la reiterata abitudine all’assenza generalizzata delle grandi donne dai libri di storia e storia dell’arte. È così tristemente semplice minimizzare – tanto da farlo scomparire – il lavoro di artisti, ricercatori, scienziati, se per caso sono anche delle donne. Anche ai giorni nostri, penso con ansia al dramma delle artiste, autrici, registe e produttrici, alle donne afghane perseguitate da un potere misogino che le vuole cancellare e rendere invisibili, fare tabula rasa della loro visione e intelligenza, come aveva già fatto non solo venti anni prima, ma anche sistematicamente eliminando la memoria delle poetesse, artiste e scienziate arabe che hanno prodotto cose meravigliose secoli prima.

 Alle campagne “No Script, No Film” e “No Script, No Series”, si aggiunge ora “No Script, No Festival”. Per l’ennesima volta, il riconoscimento della figura dello sceneggiatore è stato fondamentalmente ignorato anche nei grandi Festival recenti. Cosa serve per portare all’attenzione del sistema spettacolo un’urgenza che è fortemente reale?

Il lavoro di sensibilizzazione sistematica verso Produttori e Network teso a dare un nome reale al motore primo di una storia, ovvero soggettisti e sceneggiatori, nella pubblicità e nelle interviste di film e serie tv è ineludibile e fondamentale e sta cominciando a dare i suoi frutti, ma dobbiamo insistere affinché diventi la nuova normalità e il pubblico capisca bene che soggettisti e sceneggiatori sono professionisti preparati e sono creatori dell’opera. A mio avviso credo che di fatto in Italia bisogna cambiare anche la percezione comune del pubblico convinto che la sceneggiatura, quando non la chiamano scenografia, sia qualcosa di impalpabile, una sorta di canovaccio che acquista vita e definizione solo nelle mani di registi e attori che la rielaborano a tal punto da farla diventare una cosa completamente loro. Soprattutto riguardo alle serie televisive, tanta gente è addirittura convinta che siano gli attori a scriversi le battute. Resto sempre ammirata, e con ben più di una punta d’invidia, quando vedo grandi attori e attrici premiati agli Emmy, i Golden Globe, gli Oscar e i Bafta che ringraziano con entusiasmo e commozione gli sceneggiatori per aver scritto personaggi straordinari e avergli permesso di entrare nel loro mondo.

L’intervista è a cura di Francesco Maggiore

WGI si racconta – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori e tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione. Questa rassegna offre uno spazio alle singole storie professionali dei nostri soci.