Scrittori a festivalWriters

Chiù

Scritto da Sofia Bruschetta, ha vinto il premio Carlo Bixio 2014, promosso da RAI, APT e Mediaset e dedicato ai giovani tra i 18 e i 40 anni autori di una sceneggiatura inedita ispirata al genere della “Commedia” .

Ciao, Sofia, e complimenti per la vittoria. Ci racconti in breve di cosa parla la tua storia? Qual è il cuore del racconto e il tema principale?

Chiù è ambientato in un piccolo paese di provincia in cui la tranquillità campagnola e la noia vengono affrontate a suon di pettegolezzi. La maggior parte delle dicerie convergono sulla famiglia Zerni, la più antica e nobile della cittadina, il cui nucleo famigliare è molto particolare: sono in tanti, davvero in tanti, e ciascuno unito da uno stesso, funesto, destino. Nella grande villa che possiedono, infatti, vivono, per i fatti i propri e poco disposti ad amicarsi il paese, il vetusto Aristide – un vecchio di cui tanto si sente parlare e che nessuno, a parte i suoi parenti, ha mai visto per le strade – e una schiera di suoi nipoti che, per una bizzarra e ahimè sfortunata combinazione, sono tutti orfani.

La realtà è che gli Zerni nascondono un segreto: sono degli stregoni costretti a vivere nel mondo umano, e sono tutti orfani per via di una maledizione che li tormenta da generazioni. Le cose, nella grande villa, cominciano a cambiare quando arriva Aldo, un ennesimo bambino rimasto senza genitori. Il vecchio zio comincia a diventare irrequieto, nella casa arriva una strana tata, il matto del villaggio, Dino Cicca, appare qui e lì sempre più spesso. La verità, infatti, è che la maledizione si può spezzare, e che è proprio Aldo colui che è destinato a compiere la magia. Riuscirà il piccolo a compiere il suo destino? E soprattutto: è davvero un bene spezzare la maledizione o potrebbe portare cupe conseguenze?

Com’è nata l’idea? Cosa ti premeva raccontare?

Dopo un po’ di anni passati a Venezia, sono recentemente tornata a vivere nel mio paesello d’origine, una cittadina murata, persa in mezzo ai campi. Ogni mattina verso le otto, e ogni pomeriggio verso cinque, esco a far fare una passeggiata al mio cane. Insieme passiamo davanti alla piazza, e attraversiamo il bar, in cui i vecchietti passano le loro giornate a bere bianchi e a leggere la Gazzetta dello Sport. Spesso allungo l’orecchio, ed ecco che sento che sparlano di questo e di quello, e di quella e di quell’altra. Che ci si può fare? Nei paesi, funziona così.

Poi, io e la mia cagnolina usciamo da una pusterla delle mura e ci ritroviamo nel grande vallo, dominato, a sud-est, da una gigantesca villa palladiana. Tener d’occhio il cane che annusa non è la cosa più divertente del mondo, così, mentre la mia piccola Duse si occupa dei suoi affari, io fantastico, osservando, appunto il meraviglioso palazzo davanti a me. Quest’estate, mi sono ritrovata a riflettere su un’idea: e se la cittadina, ammorbata dal tedio estivo, fosse meno noiosa di quanto appare? Se qualcuno, da qualche parte, nascondesse un segreto, un magico segreto?

L’idea d’origine, il vero fulcro, è nata appunto osservando il mio paese di provincia: non solo le relazioni tra i vari abitanti sono un qualcosa di straordinariamente interessante e pittoresco, ma inoltre ogni cosa è intrisa da dicerie, leggende, superstizioni.

In ogni paesino italiano, ci sono dei personaggi-tipo da cui prendere ispirazione: il Matto, i signorotti convinti di essere padroni, l’Ubriacone, il Medico, la Donna Facile. In ogni buco d’Italia, ci sono splendidi palazzi che racchiudono misteri, vecchie vie ciottolate, chiese maestose e polverosi negozietti di souvenir.

In Chiù si immagina che i sussurri e le vecchie storie abbiano un qualche fondamento di verità. E se il Matto fosse, in realtà, meno matto di ciò che sembra, e nascondesse un fatato segreto? E se il negozietto di ceramiche in cui nessuno entra da anni nascondesse uno spaccio di pozioni?E che segreti maschera quel maestoso edificio a centro paese? E quella famiglia, sì, proprio quella di signorotti, troppo riservata, troppo scontrosa, cosa diavolo cela dentro le mura domestiche?

Hai scritto la sceneggiatura da sola. E’ un caso o una scelta? Scrivi sempre da sola? Perché?

Chiù, per me, è stato il primo esperimento di sceneggiatura vera e propria.

Ho spesso affrontato riduzioni teatrali, in collaborazione con un’altra persona, ma si è trattato, per la maggior parte, di elaborazioni di testi narrativi già esistenti.
Nella mia vita – che tutto sommato non è poi così lunga, in effetti! – , ho sempre scritto perlopiù racconti, che tengo per me o che raramente, quando sono convinta del mio lavoro, provo a mandare a concorsi. Avevo partecipato al Premio Andersen Baia delle Favole, arrivando seconda, e due anni fa al Campiello Giovani, classificandomi tra i primi venticinque.

Quando ho partorito qualcosa direttamente dalla mia fantasia, ed è il caso dei miei racconti, e di Chiù, appunto, mi è sempre risultato difficile collaborare con qualcun altro. Non saprei spiegarne il motivo: vuoi perché scrivo di notte, vuoi perché sono sempre partita con preconcetti sulla mia effettiva capacità di rapportarmi agli esseri umani, vuoi perché non me ne è mai capitata l’occasione.

Per quanto mi piaccia lavorare solo con me stessa, però, temo che prima o poi dovrò imparare a collaborare con altri.

Giusto in queste settimane ho cominciato a scrivere una sceneggiatura per Tempesta, (in seguito al concorso Melt-a-Plot indetto da Rai Cinema, vinto insieme ad altre due ragazze, Rita Demaria e Antonella Mingoni), e per la prima volta della mia vita ho dovuto elaborare una storia insieme ad altri tre sceneggiatori, Roberto Gagnor e appunto le mie due compagne. Non credevo di esserne in grado, perché mi sono sempre considerata la peggior misantropa di sempre, ma devo ammetterlo: mi sto divertendo più del previsto.

Come si è svolto il processo di sviluppo del copione?

Abituata alle riduzioni teatrali, sono partita prima dalla visione d’insieme: non avevo ben chiaro lo sviluppo dei personaggi, ma sapevo dove dovessero andare a parare. Per il concorso era necessario scrivere due puntate della serie, da cinquanta minuti ciascuna: sono partita perciò dai tre grandi eventi che avrebbero scandito la vicenda.
L’annuncio di un matrimonio, l’annuncio di una morte, e infine l’arrivo di Aldo.
Vediamo Aldo solo verso la metà della seconda puntata, perché volevo fosse ben chiaro che il ragazzino è, sì, colui attorno al quale ruota tutta la vicenda, ma non ne è il protagonista, poiché Chiù è una serie corale.

Come nel teatro, quindi, ho inserito i “vecchietti del paese”, nel ruolo, appunto di “coreuti” della vicenda: tra un bianchetto e l’altro, infatti, sono coloro che commentano, da un punto di vista esterno e umano, ciò che accade alla misteriosa famiglia Zerni.
La composizione della famiglia stessa, in realtà, non mi era chiara fin dal principio: sapevo di volere il vecchio patriarca, e Aldo, ma niente di più. Così ho cominciato a scrivere, e a mano a mano che scrivevo ogni cosa si è fatta più chiara. I personaggi hanno cominciato ad avere una vita, un carattere, nel momento stesso in cui storia cominciava a delinearsi.

A quali generi/modelli ti sei ispirata?

Con Chiù volevo inserire la magia all’interno di una serie italiana. Gli elementi fantasy, all’estero, in questo momento vanno per la maggiore. Io stessa sono dipendente di Game of Thrones, e mi sento orfana or ora che è terminato True Blood. Per non parlare di Supernatural, e Teen WolfVampire Diaries e, per fare un piccolo passo indietro agli anni 1990-2000, Streghe.

Ognuna di queste fiction (a parte forse Game of Thrones) inserisce l’elemento “magia”, in contesti assolutamente realistici, nella vita vera, nella virile provincia americana. I vari vampiri, super poteri, incantesimi, sono un pretesto per parlare d’altro, per descrivere in un certo modo la realtà che ci circonda.

Con Chiù volevo fare qualcosa del genere, ma in versione più leggera, più comica, senza (ahimè!) la violenza, il sesso e le volgarità delle serie HBO, AMC o Showtime.
Da un punto di vista estetico avevo in mente i colori pop e surreali di Pushing Daisies, e lo stesso clima leggero.

Per quanto riguarda la composizione della famiglia, invece, ho preso ispirazione da uno dei romanzi che ho più amato (e che più mi hanno fatto ridere!) nella mia prima infanzia: La matta giornata dei piccoli sei, di Pina Ballario, in cui una truppa di terribili bambini viene “messa in riga” da due buffi e magici precettori.
Non dimentichiamo, poi, che io, essendo nata e cresciuta negli anni ‘90, sono una di quelle persone della “Generazione Harry Potter”.

In Chiù ci doveva per forza essere la magia: santo cielo, è da quando ho undici anni che aspetto quella dannata lettera per Hogwarts!

Quali pensi che siano i punti di forza del tuo progetto? Li hai cercati più per una tua esigenza espressiva o per andare incontro a quelli che secondo te erano i criteri di selezione della giuria o del pubblico in generale? 

Essendo Chiù una serie fantasy, non mi aspettavo la vittoria. L’ho scritta per il piacere di scriverla, senza sperare in alcunché. A quanto pare, invece, proprio ciò che io temevo mi avrebbe esclusa dalla selezione, è stato poi il mio punto di forza.
In fase di ideazione, però, ho ovviamente tenuto presente l’eventuale target di pubblico. Giusto quest’estate ho letto un’interessante intervista a George R. R. Martin, l’ideatore e sceneggiatore di Game of Thrones, in cui sosteneva che gli è possibile esagerare con scene di sesso e violenza grazie al canale per cui lavora, HBO. Essendo un canale via cavo, può permettersi delle libertà che una televisione gratuita non potrebbe prendersi. La mia Chiù è molto più “edulcorata” rispetto alle serie che io stessa amo e seguo. Però non mi sento in colpa. D’altronde, anche l’inglesissima Dr Who (e mi si perdoni il paragone!), pur essendo politicamente corretta non perde nulla in termini di suspance!

Ci regali la tua scena preferita del copione? Ce la commenti? 

Ho scelto il mid point delle due puntate, sia perché è il momento “clou”, sia perchè è l’unico punto in cui ogni membro della famiglia Zerni è presente in un’unica stanza. I cugini Zerni, che hanno passato la mattinata ad occuparsi delle proprie faccende, sono stati chiamati ad una “riunione di famiglia” dal loro vecchio zio, Aristide. Ognuno, a parte forse i più piccoli, è molto preoccupato: non è mai un buon segnale quando lo zio chiama, soprattutto se di martedì. La cosa che più mette in ansia i due ragazzi più vecchi, Sibilla e Abelardo, è che il cugino Anselmo ha intenzione di rivelare di aver chiesto alla sua fidanzata, un’umana, di sposarlo, cosa che sicuramente irriterà il vecchio patriarca. Ma proprio quando Abelardo racconta alla famiglia del suo “amore proibito”, il vecchio Aristide sgancia la bomba: li ha riuniti tutti per avvertirli che una loro cugina, sorella proprio di Abelardo, che era scappata di casa una decina d’anni prima, è morta quel giorno stesso. Perchè è morta? Per via della maledizione che colpisce ogni Zerni, ovvio. La ragazza aveva un figlio, Aldo, che presto arriverà nella Villa. (ndr: scarica la scena chiu’)

Come funzioni? Quali sono le tue abitudini quando scrivi?

Mi piace scrivere di notte, quando torno da qualche serata fuori. Oppure in treno, o in stazione! Adoro i treni. A quanto pare, ma ovviamente non posso confermarlo, dato che non mi vedo, faccio delle buffe espressioni, quando scrivo, corrucciandomi o sorridendo a seconda di cosa sto immaginando. Bevo molto caffè.

Qual è stato il tuo percorso formativo?

Non ho avuto un vero e proprio “percorso formativo”. Ho iniziato a scrivere perché ho sempre letto tantissimo, innamorandomi dei miei vari scrittori preferiti. Li ho idealizzati, diciamo, e sono sempre stati i miei supereroi, più che Batman e Spiderman. Insomma, Roald Dahl partoriva romanzi meravigliosi e poi faceva esplodere aerei nazisti. Come si fa a non desiderare di diventare come lui?

Insomma, fin da piccola ho sognato di imitare gli scrittori che amavo. Da quando sono bambina, poi, frequento l’ambiente teatrale. I miei genitori mi portavano con loro vedere tracissimi spettacoli di Duremmatt quando non avevo nemmeno quattro anni, nel senso. Crescendo ho frequentato corsi di recitazione e poi, per me che amo così tanto scrivere, è stato naturale provare a curare la drammaturgia di alcuni spettacoli. Da qualche anno collaboro con un laboratorio di teatro per bambini, Teatrogioco di cui mi occupo, insieme alla regista, della riduzione dei testi.

Solo da qualche tempo mi sono cimentata con la sceneggiatura cinematografica e, nel caso di Chiù, quella televisiva. Da drogata di fiction quale sono, ho finalmente sentito che tutte quelle ore a guardare le più sconosciute serie tv americane non sono state buttate !

La WGI fa queste interviste per coprire un vuoto d’informazione. Di solito si parla solo di registi e attori. Che ne pensi di questa abitudine? E cosa pensi della situazione della fiction televisiva italiana in questi anni?

Per chi è appassionato di cinema e di serie, lo dico da spettatrice, è molto interessante poter leggere anche le opinioni degli sceneggiatori. Penso a Steven Moffat, lo sceneggiatore sia di Sherlock sia di Dr Who o al già citato George R. R. Martin: le loro interviste sono seguitissime dai fan dei loro lavori. Secondo me, se si desse più spazio anche a chi inventa le storie e le mette su carta, il pubblico ne sarebbe più che soddisfatto. Per quanto riguarda la fiction italiana, (siccome sono davvero una drogata con i fiocchi, ho guardato anche la maggior parte delle serie italiane, Rai e Mediaset indistintamente. Per non parlare del mio debole per Un posto al sole: è una specie di punto fermo della mia vita) credo che, nonostante abbia dei prodotti di buona qualità, soprattutto commedie, rispetto a ciò che stanno producendo all’estero in questo periodo sia ancora molto indietro. Serie come True Detective o Breaking Bad o anche la stessa Sherlock, sono pensate e realizzate come dei veri e propri film, con attori di primo livello e scenografie e costumi curati fino nei minimi particolari. So che, rispetto alle tv via cavo, le possibilità economiche sono molto minori, così come la trattazione di certi temi, eppure credo che, se gli Stati Uniti continueranno a viziarci così, prima o poi, se anche in Italia non ci sarà una svolta simile, l’interesse per i prodotti nostrani comincerà lentamente a scemare.

Cosa ti aspetti da questo importante riconoscimento? Hai già dei progetti futuri?

Il mio sogno nel cassetto è quello di poter vivere scrivendo. No, in realtà il mio vero sogno è diventare il prossimo Ernest Hemingway e passare le giornate a bere champagne, guardando i matadores, ma, ahimé, non sono più i tempi in cui si era molto ricchi e molto felici nella Parigi del 1930, quindi ho un filino ridimensionato le mie aspettative.
A parte gli scherzi, mi piacerebbe davvero poter continuare a scrivere, anche per la televisione, perché no? Io adoro la televisione! Vincere il premio Carlo Bixio è stato davvero molto emozionante, per me, e mi ha infuso un bel po’ di ottimismo.
Ho davvero tantissima fiducia nel futuro.

L’intervista è a cura di Riccardo Degni