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Silenzio, non si gira!

Capitolo 3

Si poteva uscire dal coma?

L’anno passato, gli organizzatori dell’edizione 2015 del Film Festival di Freistadt avevano chiesto un commento sul cinema italiano a Nicola Badalucco che spesso aveva partecipato da vicino e da lontano alle loro iniziative.

Nicola inviò loro un testo di 28 pagine intitolato Silenzio, non si gira!

La famiglia di Nicola, che qui ringraziamo di cuore, ci ha concesso di pubblicarlo. Il testo è lungo e abbiamo scelto di riassumerlo in diversi articoli, segnalando i tagli con il simbolo (…) e lasciando a chi vuole la possibilità di consultare il testo intero scaricando l’allegato di ogni capitolo in pdf. Questo è il capitolo 3, il primo lo trovate qui, il secondo qui.

Sebbene il nostro sito segua la politica dei Creative Commons, il testo di Nicola è protetto dal diritto d’autore e non può essere copiato e arbitrariamente diffuso.

L’imperativo categorico:

                                         “Tu devi scrivere, tu devi scrivere,

è necessario che tu scriva”,

     mi ha svegliato. 

W. Nietzsche

Fu all’inizio degli Anni ’80 che si avvertirono i primi chiari segnali della crisi. Gli autori che avevano già molta esperienza se ne accorsero subito. Ricordavano bene che c’è bisogno di pochi anni perché una crisi sia in grado di colpire mortalmente il cinema, mentre occorre un tempo di gran lunga maggiore perché il cinema possa risorgere.

Finita la seconda guerra mondiale il cinema non esisteva più. Esistevano però i maestri del neorealismo che avevano quasi clandestinamente sperimentato questa linea narrativa già durante il conflitto, nonostante la dittatura fascista. Loro rilanciarono il cinema italiano con produzioni industrialmente poverissime, utilizzando spezzoni di pellicola avanzate ai cinegiornali di guerra americani di stanza in Italia. Ma ci vollero più di dieci anni prima che il cinema italiano si affermasse in tutti i mercati.

(Una curiosa informazione. Quando gli americani di Hollywood, abituati a girare lunghe scene piene di dialoghi, chiesero a Roberto Rossellini come era nata l’invenzione della brevità assoluta, cioè scene di pochi secondi prive di lungaggini, Rossellini stupì tutti quanti rispondendo scherzosamente che le scene del nuovo cinema neoralista italiano erano brevi perché gli spezzoni di pellicola avanzati ai cinegiornali americani erano corti pochi centimetri)

Proprio alla vigilia del 1980 alcune strutture cominciarono a scricchiolare. Solo pochi autori se ne accorsero, e si affrettarono a lanciare segnali d’allarme.

(…)

I padri pellegrini

I nomi non li ricordo tutti, molti però sono in grado di citarli senza alcun ordine gerarchico o alfabetico o anagrafico. Monicelli, Petri, Comencini, Cecchi d’Amico, Zurlini, Pontecorvo, Lizzani, Solinas, Antonioni, Scarpelli, Rosi, Montaldo, Age, Damiani, Loy, Wertmüller, Magni. Potrei continuare, ma a che servirebbe? Erano solo dei pellegrini che andavano a bussare alle porte dei conventi: associazioni dei produttori, dei distributori, degli esercenti; presi­denti della Camera dei deputati e del Senato, gruppi parlamentari, segreterie dei partiti politici e dei sindacati confederali. Tutti insieme scalarono persino il colle più importante di Roma dove li ricevette, con garbo e attenzione, il presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Che cosa avevano da dire in giro per Roma i padri pellegrini? Ricordo i loro argomenti con estrema precisione. Ero uno di loro, e di solito parlavo a nome di tutti: un po’ per delega, un po’ per faccia tosta (conservo ancora il calendario degli incontri e le scalette delle concioni).

Gli argomenti dei padri pellegrini si possono così riassumere. Primo: se non si liberalizza il mercato, il cinema avrà sempre meno spazio. Secondo: se non si impongono delle regole alla tele­visione il cinema avrà ancora meno spazio. Terzo: se non si garantisce la di­fesa dell’identità culturale del paese, di spazio il cinema non ne avrà più, e l’Italia avrà perduto molti cavalli di quell’unico moto­re che spinge una società moderna verso il progresso, e cioè la cul­tura.

Tutti argomenti vecchi? Niente affatto. Ora, sì, sono diventati vecchi, dopo oltre trent’anni, e nonostante ciò vengono ancora riaffer­mati come argomenti validi. Ma un fatto è parlarne (e trarne delle conclusioni) un quarto d’ora prima, un fatto è ripeterli (senza trar­ne alcuna conclusione) dopo che i giochi sono fatti.

Nel 1979 i padri pellegrini non furono ascoltati, vennero sol­tanto uditi.

(…)

Come ha potuto la sinistra politica italiana – mi riferisco a tutta la sinistra co­siddetta storica, la parte che stava al governo e la parte che stava all’opposizione – come ha potuto scaricare il cinema, animale biz­zarro e irrequieto (parlo di quel cinema, che aveva la schiena dritta, non di quello d’adesso che ha la coda fra le zampe). La sinistra aveva trionfal­mente cavalcato quel grande cinema in nome della cultura e della libertà d’espressio­ne.

(…)

Poco tempo dopo ho capito il perché di quella politica. Tutti quanti gli uomini politici della sinistra, dentro e fuori del governo, volevano raggiungere – come aveva già fatto la destra – vaste zone d’utenza televisiva facilmente controllabili, partecipando alla gestione dell’emittenza pubblica che pur essendo definita “prima azienda culturale del paese” veniva considerata come un ricchissi­mo bacino di pesca elettorale.

Ebbene, in quell’insensato disegno il cinema doveva necessariamente schizzare fuori dalla cornice; anzitutto perché già allora non c’era confronto possibile fra “i clienti in diminuzione” della sala cinematografica e “i clienti in crescita” del servizio a domicilio, in secondo luogo perché il cine­ma (continuo a parlare di quel cinema) aveva sempre dato e continuava a dare – quando si tentava di addomesticarlo – evidenti se­gnali d’insofferenza e forte capacità di autonomia culturale.

Il risultato di quella scelta è stato catastrofico: un quarto d’ora dopo, il cinema italiano entrava in coma e a poco a poco, nel corso degli anni Ottanta, passava in stato preagonico e si avviava a spegnersi.

(…)

Taci, nessuno ti ascolta

Ad un tratto gli autori si erano accorti di non aver molto da raccontare sul mondo in cui eravamo, mentre prima, e per lungo tempo, non avevano fatto altro, ora in chiave seria e ora in chiave comica, a volte con bravura e a volte no, com’è normale che sia. (taglio…) Per quanto mi riguarda, devo dire che dormono nel cassetto parecchi miei progetti – rifiutati, ovviamente – che bene o male erano frutto di un certo guardarsi attorno. (taglio…) Ricordo le risposte dei produttori e dei distributori che di falli­mento in fallimento riuscivano sempre a trovare la ricetta vincen­te: il mercato ha bisogno d’altro, il mercato cerca strade alternati­ve, il mercato guarda al di là dei confini, il mercato è saturo di pessimismo. A forza di sentirmi parlare in modo così perentorio del mercato cominciai a pensare che fosse giusto scrivere Mercato con la M maiuscola, e considerarlo un genio il cui numero di te­lefono non stava purtroppo sull’elenco.

Altre volte le risposte erano meno perentorie, più intime: il vi­cino di casa non vuole problemi, il vicino di casa non vuole pensa­re, il vicino di casa vuole sognare, il vicino di casa vuole ridere.

(…)

(Correttamente – e con tanta amarezza – Leo Benvenuti, bravissimo sceneggiatore, diceva più o meno così: “Ormai non sceneggiamo più i film, sceneggia­mo i contratti; il produttore ti chiama e dice: “Ho un contratto col tale attore comico, quanto vuoi per sceneggiarlo?”).

(…)

Uno strano spettatore era nato in Italia. Correva al cinema per sapere tutto di un oscuro avvocato che lasciava il Sudafrica per li­berare l’India dal colonialismo inglese; restava con gli occhi incol­lati allo schermo per vivere insieme ai protagonisti la tragedia cambogiana; s’infiammava per qualunque conflitto sociale o mu­tamento del costume, sempre che riguardassero altri paesi.

E l’Ita­lia? Come la vedeva quello strano spettatore che nel frattempo metteva al mondo figli simili a lui? Probabilmente aveva concluso che qui da noi non accadeva nulla di forte e significativo. A parte il terrorismo, la mafia, la corruzione e qualche altra rognetta, l’Ita­lia in fondo – ma proprio in fondo – se la cavava bene; di conse­guenza il cinema italiano, che era sempre stato lo specchio della nostra vita, faceva ridere. E intanto moriva (non lo spettatore, il ci­nema), ma grazie a Dio moriva ridendo. Evidentemente la venefi­ca esalazione era composta da una miscela di gas asfissiante e di gas esilarante.

Siamo sempre lì. Qualcuno ha aperto il rubinetto, ma il tubo in bocca ce lo siamo messi da soli.

Mancanza di stile

(…)

Quando sento elogiare da certa critica i giovani autori che si vantano perché con i loro film cercano di ritornare al neorealismo mi viene la vo­glia di urlare. Ma che senso ha? Il neorealismo (che non era una scuola fondata su un manifesto, ma un “momento” – mo­mento, non movimento – di durata assai breve) partiva da grandi tensioni morali (che oggi non abbiamo) e da una rivolta contro i modelli narrativi ed espressivi degli anni precedenti; e quella rivolta non riguardava solamente il panorama piuttosto pro­vinciale del cinema italiano, riguardava anche il cinema straniero, compreso quello americano, che ricevette un salutare scossone.

Già nei primi anni Cinquanta, proprio i padri del neorealismo abbandonavano quell’esperienza pur così straordinaria e cercava­no altre strade; aveva cominciato Rossellini nel 1951, proprio “quel” Rossellini che i giovani autori francesi della nouvelle vague chiameranno a ispiratore e nume tutelare del loro movimento. La psicologia, cioè il conflitto psicologico (extrapersonale, interpersonale e infra-personale) riprendeva il posto che gli spetta nell’ arte del racconto e della rappresentazione; e veniva accantonata la strada tipologica e caratteriale che è la sostanza e al tempo stesso il punto debole di qualsiasi realismo.

Il cinema, come il teatro, è segnato dalle svolte improvvise, da un cambiar pagina che dà il via a una nuova ricerca; e il cinema italiano, come il teatro, ha avuto questi magici avvenimenti.

Una sera del 1921, a Roma, Luigi Pirandello, coi “Sei personaggi in cerca d’autore”, imponeva al teatro una svolta che era forse la più forte dall’epoca elisabettiana; se ne ac­corsero gli autori di tutto il mondo, in Italia invece no.

Circa qua­rant’anni più tardi, Federico Fellini, con “Otto e mezzo”. compiva nel cinema un miracolo analogo; se ne accorsero gli autori di tutto il mondo, in Italia inve­ce no. Da noi si considerava il fenomeno Fellini come un episodio affascinante ma chiuso. Ma davvero è così? Davvero si può affer­mare che senza quell’avvenimento sarebbe stato lo stesso il cine­ma di Michalkov, Tarkovskij, Anghelopoulos, Woody Allen e tanti altri autori di grande rilievo? E l’avvenimento felliniano non era forse, oltre che un’innovazione tematica, soprattutto una rivoluzio­ne stilistica?

Già negli anni Ottanta il cinema italiano aveva poche cose da dire e pochissimo modi per dirle. Non era quello il momento giu­sto per avviare una seria ricerca di linguaggio e di stile che altrove puntualmente era stata avviata? E tutto questo a chi spettava? Ai nuovi autori, non c’è dubbio, se il loro esser nuovi non vuol rima­nere solo un dato anagrafico.

(…)

L’arte di fare tutto senza saper fare niente

Oggi c’è in Italia chi butta giù un soggetto senza essere creativo, scrive la sceneggia­tura senza saper mettere insieme un racconto, dirige il film senza possedere – come dicono gli sportivi di fronte a un calciatore me­diocre – i fondamentali, lo interpreta senza saper recitare (com’è brutta questa parola, recitare, i francesi dicono più propriamente jouer) e, se si mette di buzzo buono, fa le scene e disegna i costumi. Non gli resta che spazzare il pavimento prima di lasciare – stanco morto – il set, in modo da poter dire senza rubare niente a nessuno: “Que­sto film è mio da cima a fondo”.

(…)

Quando – parlo nuovamente degli anni Ottanta – i registi s’accorsero – non tutti, per carità – di non saper dare al film l’impronta di un loro stile, ebbero una crisi profonda e si domanda­rono: “Questa creatura è veramente figlia mia oppure no?“. Nel dubbio, con una scelta ermafroditica, cominciarono intanto col decidere che a loro appartiene sia lo sperma che l’utero. Conseguenza: anche la sceneggiatura, come l’inquadratura, diventò un optional.

(A proposito di scuole di sceneggiatura, oggi detta­no legge docenti americani che, senza aver mai scritto una riga, altro non possono fare se non parlare di strutture rigide come l’ac­ciaio, dimenticando che il compito più importante per uno scritto­re di film è suggerire liberamente la successione delle immagini).

Da quel momento lo sceneggiatore, incapace di far fronte ai fe­nomeni naturali, si convinse d’essere sterile. Doveva decidersi a scegliere fra due possibilità: fare il portaborse del regista cinema­tografico o buttarsi sulla televisione. Che cos’è peggio, stare a sentire un tale che ti dice senza discernimento: “Io questa scena la vedo così”, oppure mercanteggiare i punti e le virgole con funzio­nari televisivi che hanno frequentato per qualche settimana una scuola serale di sceneggiatura?

(A quel tempo esisteva un conferenziere vo­lante, l’americano McKee, il quale teorizzava sul cinema avendo fatto soltanto prodotto televisivo seriale, e perciò credeva – l’ingenuo – che met­tendo insieme i suoi tre tenenti – Colombo, Stone e Kojak – veniva fuori un generale).

Il pianeta delle scimmie

Qualcuno ha detto: non si può fare un buon film senza una buona sceneggiatura, si può fare un cattivo film anche con una buona sceneggiatura. Questa frase, a seconda delle preferenze per­sonali o dei paesi di appartenenza, viene di volta in volta attribuita a Billy Wilder, Cesare Zavattini, Mario Monicelli e Jacques Pré­vert. Nell’incertezza me ne approprio, e chi s’è visto s’è visto.

C’è però un settore in cui (fatte alcune rare e significative eccezioni) il giovane cinema italiano è passato all’avanguar­dia, non perché appartiene all’arte, ma perché fa parte di una nuova scienza: l’ingegneria genetica. Negli anni Ottanta ebbero inizio spericolati esperimenti; si cominciarono a riprodurre modelli del passato sceglien­doli purtroppo fra le creature meno robuste, cioè commedie sciocche, ben lontane da quelle degli anni d’oro. Questo processo diede subito qualche frutto marcio anche negli anni Novanta, con la possibilità di inaugurare (e contaminare) il Terzo Millennio.

Quel che vedo nel deserto di sabbia e detriti che ci circonda non è la cresta dentata della statua della Libertà, è una tegola un tempo appartenuta al tetto spiovente di un qualche teatro di posa di Cinecittà, santuario del grande cinema che rischia di essere venduto per farne l’ipermercato più grande del pianeta..

Nicola Badalucco

Il testo integrale del Terzo Capitolo di Silenzio, non si gira! è disponibile qui: Nicola Badalucco cap.3

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