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Tom Stoppard: come fa

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.
L’intervista a Tom Stoppard è apparsa sulla rivista Written By, a firma di David Gritten che ci ha concesso di pubblicarla in italiano e che ringraziamo.

Introduzione: la storia di Tom

Da cinquant’anni, Tom Stoppard si guadagna da vivere come autore teatrale. La sua prima opera, in gran parte dimenticata, Una Passeggiata sull’Acqua, fu messa in scena ad Amburgo, in Germania, nei primi anni 60 e poi trasmessa dalla TV inglese. Ma, nel 1964, Stoppard, grazie a una borsa di studio della Ford Foundation, si rinchiuse in una stanza a Berlino e scrisse un atto unico, Rosencrantz e Guilderstern Sono Morti, che poi divenne un’opera lunga, una brillante e giocosa rivisitazione dell’Amleto da dietro le quinte, attraverso il punto di vista di due personaggi secondari. Il suo debutto al Festival di Edimburgo lo portò subito alla ribalta. Aveva poco più di vent’anni; da allora la scrittura teatrale è stata la pietra angolare del suo successo.

Eppure, per tre quarti della sua carriera, Stoppard ha anche prosperato come sceneggiatore, da quando il suo adattamento del romanzo The Romantic Englishwoman di Thomas Wiseman per il regista Joseph Losey è uscito nelle sale nel 1975. Da quel momento in poi Stoppard ha adattato per il grande schermo le opere di scrittori formidabili, fra cui Tolstoy, Nabokov, Graham Greene, Ford Madox Ford, John le Carré, E.L. Doctorow e J.G. Ballard. Ma ha anche passato buona parte della sua carriera di sceneggiatore nell’ombra, facendo la revisione di stesure già esistenti o risolvendo problemi strutturali. Gran parte di questo tipo di lavoro non porta la sua firma; il contributo di Stoppard aleggia come uno spettro su alcune sceneggiature per le quali altri sceneggiatori hanno ricevuto un riconoscimento pubblico.

La cosa sorprendente di questo auto-occultamento è che come autore teatrale Stoppard è un personaggio pubblico molto osannato a Broadway, nella West End di Londra e in altri contesti teatrali in tutto il mondo. Ha macinato un successo dopo l’altro sul palcoscenico, per citarne solo alcuni: Jumpers, The Real Thing, Travesties, Arcadia, The Invention of Love, The Coast of Utopia e più recentemente Rock ‘n’ Roll. Ognuna di queste opere è Stoppard allo stato puro: arguzia, intelligenza abbagliante ed elettrizzanti giustapposizioni di temi e idee. Non è mai stato riluttante a rilasciare interviste sulle sue opere teatrali, ma finora ha sempre preferito evitare discussioni approfondite sul suo lavoro per i media.

In ogni caso, malgrado sia piuttosto reticente riguardo alle sue sceneggiature, i suoi colleghi riconoscono certamente il suo valore. Stoppard ha ricevuto il premio WGA come miglior sceneggiatura (con Marc Norman) per Shakespeare in Love (1998), e un Oscar. Nel febbraio 2013, alla cerimonia del Writers Guild Awards, ha ricevuto il WGA Laurel Award for Screen, il premio alla carriera per il cinema.

Di recente, […] si è dato da fare con due opere impegnative per lo schermo: Parade’s End, cinque episodi per la BBC ed HBO tratti dal romanzo epico in quattro parti di Ford Madox Ford, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale; e un lungometraggio sul classico di Tolstoy Anna Karenina, girato principalmente nel Regno Unito, con Keira Knightley e diretto da Joe Wright.

Stoppard ha incontrato Written By a casa sua, che è anche dove lavora: un attico che dà su un porticciolo in una zona molto alla moda di West London. Come era prevedibile, si è rivelato altrettanto erudito, provocatorio e divertente quanto i suoi dialoghi.

Teatro e cinema.

David Gritten: Perché sembri contento di parlare delle tue opere teatrali, ma non delle tue sceneggiature?

Tom Stoppard: Perché tutte le idee che mi vengono, le uso per il teatro. E uno sceneggiatore che scrive una sceneggiatura originale non è una persona come posso essere io, che di solito viene chiamata per un adattamento. Fra parentesi, lasciati dire da uno che viene dal teatro e lavora ancora nel teatro, che il protocollo dell’industria del cinema non è così piacevole. Immagina un produttore (teatrale) che dovesse chiamarti e ti dicesse, “Senti, abbiamo questo testo piuttosto interessante di Christopher Hampton che pensiamo abbia bisogno di una revisione.” Capisci immediatamente in che situazione bizzarra uno si trova nel mondo della sceneggiatura. Eppure è un comportamento standard.

Se non erro qualcosa del genere ti è capitato con Steven Spielberg.

Non conosco intimamente molti cineasti. Steven è un amico. E’ uno a cui piace dare da leggere agli amici quello che ha sulla scrivania, e, giusto o sbagliato che sia, vuole avere un loro parere. E’ successo che mi avevano chiesto di fare Schindler’s List. Lessi il libro e non avevo idea di come farne un film di un paio d’ore. La cosa mi spaventava. Steven mi mandò la sceneggiatura di Steven Zaillian perché è quello che Steven fa. Devo dire che Zaillian è uno degli scrittori che ammiro di più—non solo come sceneggiatore, ma proprio come scrittore. Non aveva detto a Zaillian che mi avrebbe mandato la sceneggiatura, non ce n’era bisogno. Così lessi la sceneggiatura e poi scrissi a Steven una lettera dai toni piuttosto accesi. Dissi, “Senti, non sapevo come fare Schindler’s List, e Zaillian l’ha fatto. Ha fatto un lavoro pazzesco. E’ incredibilmente compatto, agile e misurato. E’ ridicolo che tu debba mandare questa sceneggiatura a qualcun altro per un parere. Gira il maledetto film e basta.”

E così ha fatto. Ma si è incagliato in una scena mentre stava girando. Zaillian in quel momento era preso da un altro lavoro, così, col suo consenso, Steven mi ha chiamato. Si trattava solo di un piccolo frammento. Stavo per fare il bagno e dove vivevo all’epoca la vasca era solo a un paio di metri dalla mia scrivania. Gli spiegai quale fosse secondo me il problema della scena e gli diedi un semplice suggerimento, che lui accettò. Quindi mi piace dire che ho scritto la scena completamente nudo. Il tempo di entrare nella vasca e la scena era fatta. Se solo tutti gli ostacoli al cinema fossero così semplici e veloci da superare.

Una cosa così non capita a teatro.

E’ questo il punto. Semplicemente non può accadere. Tutta l’idea dello scrittore e del suo lavoro è molto più coerente a teatro. Credo che le ragioni siano insieme storiche e dettate dalle circostanze. Non credo che nessuno l’abbia mai scritto in un manifesto, ma la verità è che, nel senso più ampio possibile, il teatro discende dal testo. Il testo è la sua ragion d’essere. E nel cinema è il contrario.

Eppure continui a lavorare per il cinema.

C’è una sceneggiatura sulla mia scrivania, al piano di sopra. E’ arrivata ieri. Ho ricevuto una telefonata: è un film interessante. Ha solo bisogno di un po’ di lavoro sul personaggio, che tradotto vuol dire: dialoghi. Ma avendo terminato Anna Karenina e Parade’s End, sto pensando che [è sul teatro] che mi dovrei concentrare. […] Ma continuo a lasciarmi distrarre. Parade’s End è stata la distrazione principale, è andata avanti per tre o quattro anni. Cerco di resistere alla tentazione di fare un altro film, ma potrei ancora cedere.

In un certo senso sono sempre a un crocevia. Non è una questione di principio, è più che altro un dato di fatto: faccio adattamenti per il grande schermo e le mie idee originali le tengo per il teatro.

E’ interessante quando parli di resistere alla tentazione. Non pensi mai di scrivere una storia originale per il cinema?

Oh, ci penso sempre.

Ma preferisci serbarla per il teatro, è così che funziona? Come se fosse una vocazione superiore?

E’ una bella domanda. Il fatto è che non ho idee sufficienti per tenermi occupato sia col cinema che col teatro. Credo che gli imperativi di una sceneggiatura influenzino il lavoro che fai, cosa che non accade col teatro. Puoi scrivere un testo teatrale, metterlo in scena al Royal Court davanti a 400 persone per sei settimane, e quello è il massimo. Posso farlo mettere in scena anche in un teatro molto più piccolo del Royal Court. Per cui non è una questione di o la va o la spacca—la posta non è così alta. Se scrivi un testo teatrale non ti preoccupi così tanto di tenere tutto a un livello tale che possa diventare un film. E’ un lavoro molto più personale.

Se mi entusiasmo per un tema o un argomento, non è che sento che perderei il mio tempo se mi mettessi a scrivere una sceneggiatura, ma so che mi metterei nelle mani di un sacco di persone, ognuna con la propria opinione. Chiunque finisca un testo, che sia per il cinema o per il teatro, mica pensa, Ecco, questa è la mia prima stesura. Se è come me, lo fa leggere solo quando sente che è pronto e funziona. Bene, a teatro, quello è il testo, almeno fino alle prove, quando può capitare di dover fare qualche piccolo aggiustamento. Ma nel cinema è davvero la prima stesura. Sono sicuro che è piuttosto raro che qualcuno legga una sceneggiatura e dica, “Non ha bisogno di nulla. E’ bella e pronta. Giriamola.” Per cui ci sono differenze.

Spesso nei film c’è molta gente che legge la prima stesura, e non ti va di sottoporre un tuo lavoro originale a una cosa del genere.

Esatto. Certo, se vogliamo essere obiettivi, la seconda stesura è spesso migliore della prima. Ma chi sono le persone che la leggono? Io penso che lo sceneggiatore, se proprio deve essere la creatura di qualcuno, è del regista. Non credo che debba essere la creatura degli attori, a dirla tutta.

Si parte dal presupposto che un attore di nome avrà voce in capitolo sulla sceneggiatura e la ritoccherà a suo piacimento.

A essere sinceri, è vero che la posta in gioco per loro è molto alta, per cui probabilmente è giusto dare loro ascolto in qualche maniera. Qualcuno mi ha raccontato di Robert de Niro, che una volta diede un’occhiata a una sceneggiatura e disse: “Non dovrò mica dire tutta questa roba, vero?” E, ovviamente, aveva ragione.

Scuola di eloquenza

Ma la scrittura che adotti per il teatro, la cosa per cui sei più conosciuto, è notoriamente eloquente. Non hai timore di usare le parole, tante parole se necessario.

Quando ho ricevuto il WGA Screen Laurel award, ho cercato di esprimere un concetto. Era emozionante, parlare a una grande platea di colleghi—un’esperienza di comunione molto commovente, perché quando sono salito sul palco ero cosciente del sentimento di accoglienza che montava intorno a me.

Alfred Molina, una persona gentile e un attore strepitoso, ha fatto la presentazione e ha detto due parole su di me. Io sono lì seduto mentre lui parla e penso: Eccoci qui, un’altra volta, io sono questo scrittore filosofico, questo intellettuale che a volte scrive per il cinema, ma provengo da quello che potremmo definire un’altra scuola di eloquenza.

A torto o a ragione, sono lì seduto e ho la sensazione di essere una sorta di bestia esotica in mezzo a dei membri autentici della WGA. Avevo una gran voglia di dissociarmi dall’idea che avevo di me stesso. Il fatto è che sono invidioso di quella che considero la scuola di eloquenza del cinema. Mi piacerebbe saperlo fare bene.

Così ho citato un paio di battute che vorrei aver scritto io. Non sono battute letterarie, memorabili di per sé. Sono battute che deflagrano soltanto se calate nella scena. E la cosa che mi ha dato più soddisfazione è stata che per una volta avevo di fronte un pubblico che capiva esattamente quello che volevo dire. Le battute erano del Fuggitivo. Harrison Ford dice a Tommy Lee Jones, che interpreta il poliziotto che lo sta braccando: “Non ho ucciso mia moglie.” E Jones dice: “Non mi importa.” E il pubblico si è alzato tutto in piedi perché aveva capito esattamente il punto: Non esiste battuta più banale. Ma è la battuta più eloquente di tutto il film, perché cambia improvvisamente la tua prospettiva e ti fa ripensare completamente al ruolo del poliziotto e del motivo per cui si trova lì. La giustizia, il pentimento, l’innocenza, non c’entrano nulla. Il suo compito è di arrestare Ford. Quindi, “Non mi importa” è un momento bellissimo. […]

Mi viene da pensare che molte persone troveranno divertente il fatto che tu dica che non hai abbastanza idee, dal momento che sembra che ne infili così tante in una singola opera teatrale.

Forse mi sono espresso male. Un’idea non è un testo teatrale. Un argomento non è un testo teatrale. Un testo teatrale è una forma artistica di racconto. Forse è per questo che non scrivo film da zero. Quando dico che non ho un’idea per un film, voglio dire che non ho un contenitore per l’idea. Anna Karenina è stata come una vacanza. Un genio ha già scritto la trama e i personaggi. Ti rimane da lavorare un po’ sulla struttura, perché il ritmo e la struttura di un film sono diversi da quelli di un romanzo. Ecco, questo è un tipo lavoro molto interessante. Poi c’è da scrivere i dialoghi e devo dire che se esiste qualcosa come un dono dall’alto in scrittura, nel mio caso si tratta del dono del dialogo. Ora, non per usare la tipica falsa modestia inglese, so che scrivo bei dialoghi, ma non ho idea di come scrivere bei dialoghi.

Fai sembrare il tuo contributo al processo di adattamento una cosa molto divertente.

 E’ estremamente divertente. Su Anna Karenina mi ha aiutato il fatto che Joe Wright fosse molto congeniale, una persona gentile e intelligente. Non ho avuto molti rapporti con i registi, ma sono preziosi per me. Non intendo come scrittore, anche se probabilmente lo sono. Considero i grandi registi dei grandi artisti e mi piace stare in loro compagnia. Ho fatto un po’ di lavoro su Robin Hood perché non avevo mai incontrato Ridley Scott. Non è che avessi pensato, Oh, fantastico, era proprio quello che desideravo, fare un polish di Robin Hood. Ma non avevo mai incontrato Ridley. Ci siamo mancati di poco più volte per 30 anni. Lui è il creatore di uno dei pochi capolavori moderni, Blade Runner. Insieme a Chinatown, è uno dei lavori che mi tolgono il respiro. Così sono finito a lavorare un po’ con Ridley, anche se non come avrei davvero voluto.

Le sceneggiature: revisioni e adattamenti

Ci sono altri registi che hai ammirato avendoli frequentati?

John Madden è stata la persona più affabile, cortese e brillante con cui potessi sperare di lavorare. Quando Shakespeare in Love fu terminato mi sono reso conto che Madden aveva capito qualcosa che io avevo preso alla leggera: che era un film romantico, non solo una commedia. E’ ciò che ha fatto la differenza fra un buon film e un film veramente bello. Io avevo dato l’elemento romantico per scontato. Lui no.

E’ riuscito a tirarlo fuori dalla sceneggiatura?

Credo che abbia a che fare con il modo in cui si lavora con gli attori. C’è un modo di rendere i dialoghi un po’ a botta e risposta, che non tira fuori le emozioni. E poi c’è un modo di farlo in cui i dialoghi sono davvero sentiti, e allora sì che vengono toccate le corde emotive. Quello che voglio dire molto semplicemente è che per ottenere tutto quel successo il film deve aver per forza lavorato a un livello emotivo. Ci saranno state almeno 50 persone che mi si sono avvicinate e mi hanno detto, “Oh, è stata una cosa davvero brillante quando è venuto fuori che il ragazzino era [il drammaturgo] John Webster.” Ma non è quello il motivo per cui Shakespeare in Love è un bel film.

Quello è solo l’equivalente di un arguto commento a parte.

Esattamente. Ciò che rende riuscito un film o un’opera teatrale è una cosa che ho imparato ad apprezzare nella seconda metà della mia carriera. La mia opera Rock ‘n’ Roll è solo di sei o sette anni fa, e non pensavo che dentro ci fosse una storia d’amore. Di fatto non c’era quasi per niente, se contiamo le pagine. Ma ho capito quando la rappresentazione teatrale era pronta che quell’uomo e quella donna che si mettono insieme alla fine erano ciò che rendeva soddisfacente l’insieme. Non le mie battute argute su ciò che accadeva nella Cecoslovacchia comunista o sul rock ‘n’ roll o quant’altro. Non è il dono del dialogo che fa la differenza. E’ il “Non mi importa.”

Ti è mai capitato che le divergenze fra la tua visone del film e quella del regista non avessero un lieto fine?

Sì, non ci troviamo sempre sulla stessa linea d’onda. Con La Casa Russia, per esempio, ero e sono tuttora completamente affascinato dalle manovre e dalle lotte interne fra persone che stanno dalla stessa parte—in quel caso l’MI6 e la CIA. Ho scritto la sceneggiatura a partire da quello. Certo, gli studios ci videro un film in cui il vero interesse era la storia d’amore fra Sean Connery e Michelle Pfeiffer. E probabilmente avevano ragione. Ma a film finito c’era molto meno di ciò che mi interessava davvero e molto più di ciò che non mi interessava particolarmente, ovvero una storia d’amore a lieto fine.

A proposito di Rock ‘n’ Roll, si è parlato di un adattamento?

Sono sicuro che si è parlato di adattare almeno la metà dei testi teatrali che ho scritto. E’ significativo che non è ancora successo e che non riesco a farlo succedere. A dire il vero una volta ho provato a prendere Hapgood, un testo teatrale che parla di spie, e a farne un film. Tre giorni dopo mi sono fermato e ho ridato indietro i soldi. Non avevo idea di come rivisitarlo. [Il produttore] Scott Rudin mi scrive ogni sei mesi per fare un film su Arcadia, e se avessi mai voglia di dirigere un altro film farei quello. La prima cosa da fare con Arcadia sarebbe quella di tagliarne metà.

Perché un film è un animale di un’altra razza?

Sì. Ma ho imparato una lezione interessante quando ho adattato e diretto Rosencrantz and Guildenstern Are Dead. Ha a che fare con l’interiorità e l’esteriorità del fare cinema. L’elemento esterno, che non mi aspettavo, era che il produttore, Michael Brandman, aveva scoperto che i finanziatori erano più propensi a mettere la relativamente piccola somma richiesta se fossi stato io a dirigere il film.

Se ti fermi un attimo, pensi: Ma è assurdo—Io non ho mai diretto un film. Il secondo pensiero è: Ah, ecco perché. C’era qualcosa di potenzialmente sexy nel fatto che fossi io a dirigere la mia opera, non avendo mai diretto un film. Il fatto è che se non hai mai diretto un film potrebbe venir fuori che sei un nuovo Orson Welles. Invece, una volta che ne hai girato uno, la gente lo sa che non lo sei. Ma sapevo che l’avrei dovuto fare, perché ero l’unico che non avrebbe provato a difendere a tutti costi il testo. In altre parole, c’è questo “semi-classico moderno” a cui stai cercando di mettere mano, e potresti non sapere bene cosa farne—mentre per me era diverso. Ero felice di aggiungere cose, e tagliarne altre. Quindi anche quello è stato divertente.

Con la tua sceneggiatura di Parade’s End, si può dire che tu abbia rafforzato il romanzo. E’ la prima volta che fai una cosa del genere in un adattamento?

Hai ragione. Per questo lo sento particolarmente mio. Perché il romanzo non offriva tutte quelle situazioni concrete e lo slancio drammatico di cui hai bisogno in TV. Mi sono immerso nel libro in modo tale da sentirlo mio e potervi attingere liberamente, poi ho cominciato a scrivere senza preoccuparmi di cosa ci fosse nel libro e cosa no, e usando episodi che facevano parte del libro ma inserendoli in un punto diverso. Mi sentivo molto a mio agio col linguaggio dei personaggi. Per cui fra quello che veniva fuori da me, e quello che veniva fuori da Ford, il confine era molto labile. Ancora oggi faccio fatica a ricordare cosa fosse mio e cosa no.

In passato non hai dato molto peso alle tue sceneggiature.

All’inizio non mi è sempre andata bene. […] Essere coinvolti in un film è un’esperienza elettrizzante, poi a volte ci sbatti il naso. Il primo film che ho scritto era The Romantic Englishwoman per Joseph Losey. Poi è successa una cosa davvero eccitante—c’era la possibilità che Rainer Fassbinder facesse un film in inglese, tratto dal libro Disperazione di Vladimir Nabokov. Scrissi il copione, non partecipai alle riprese o cose del genere. Prima che me ne rendessi conto c’era già una copia del film e una proiezione. E mi accorsi che né Fassbinder, né il film avevano la minima ironia. La sceneggiatura era stata scritta con una vena ironica, ma recitata in modo assolutamente serio. Quindi col mio secondo film è stato un po’ come sbattere la faccia contro un muro. La cosa mi ha reso un po’ scettico nei confronti del cinema per un po’.

Sei anche modesto riguardo alle sceneggiature che hai revisionato.

Beh, ci sono due livelli della questione qui. Prima di tutto ho sempre pensato che fosse poco elegante per uno scrittore mettersi a ciarlare su una cosa che porta il nome di un’altra persona. Per cui quando mi viene chiesto di mettere mano a un copione il più delle volte è una cosa fra amici. Ma c’è sempre una specie di tacito accordo che la cosa rimanga nell’anonimato. Invece ecco che subito dopo compare su un giornale la notizia che ci ho messo le mani. Quindi cerco sempre di minimizzare e fare un po’ di retromarcia perché non trovo che sia educato prendersi il merito di un testo su cui non c’è il tuo nome. L’altra cosa è che se la sceneggiatura non è un granché, difficilmente sarà migliore dopo che ci hai messo le mani tu. C’è qualcosa di definitivo in un testo già esistente.

Anche se sei stato chiamato per una revisione?

Sì. Sono diversi i film che ho rimaneggiato nel corso degli anni, ma ciò non li ha resi dei film di cui ci si vorrebbe vantare. Continuerò a farlo perché mi attrae quest’idea, forse un po’ romantica, che in fondo siamo una grande confraternita, un gruppo di mutuo soccorso che si dà una mano a vicenda. Certo, è un sentimento facile da provare se stai rimaneggiando il lavoro di un altro. Non sono sicuro che valga il contrario.

Hai detto che in passato col cinema ti sentivi meno a tuo agio. Ti muovi ancora con cautela?

No. Con Anna Karenina mi ci sono buttato al volo. Adoro il cinema e se una cosa è lineare e semplice—“C’è un libro, puoi scriverne una sceneggiatura?”—e se mi va a genio, per me è un giorno fortunato e sono un uomo molto felice. Ma non accade molto spesso. Quello che accade è: “C’è un libro, c’è un copione, ti va di metterci le mani?” No, quello non mi esalta.

Quindi è facile resistere a quel tipo di tentazione?

Molto facile. Perché uno alla fine ha imparato che il vero purgatorio è l’essere vincolati a una sceneggiatura che per un motivo o per l’altro è diventata una fatica. Questo è il mio mantra: alla fine l’ideale non è l’essere stati intelligenti, ma fortunati. Quando le cose vanno da sole al posto giusto, e quasi non riesci a buttarle giù su carta abbastanza in fretta.

Eppure hai lavorato in varie forme a numerose sceneggiature.

Per qualche ragione ho la reputazione immeritata di essere prolifico. Non mi sento affatto prolifico. Perché i tre quarti del tempo che passo su un progetto sono il tentativo di arrivare all’inizio di Pagina 1.

L’intervista è di David Gritten
La traduzione in italiano è di Andrea Leanza

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