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PETER EXACOUSTOS

L’URGENZA DI SCRIVERE COME PERDITA E ABBANDONO

Lo sceneggiatore de L’Allieva ci racconta della sua creatività con alle spalle 30 anni di carriera

L’allieva s’ispira ai romanzi di Alessia Gazzola. Come nasce l’idea di farne una serie tv? Quali sono le caratteristiche che ti colpiscono in un testo letterario e che ti spingono a pensarlo in forma di sceneggiatura?

Nel primissimo documento che ho proposto in Rai dopo aver letto i primi romanzi di Alessia Gazzola ed essermi confrontato con il mio produttore Endemol ho scritto: “Il giallo in realtà sembra un pretesto per raccontare i sentimenti di Alice, i suoi desideri e le sue aspirazioni e questo pare essere la chiave vincente di questi due primi capitoli di una serie che sembra avere tutte le carte in regola per continuare con successo. La componente ‘rosa’ ha quasi lo stesso peso, nella trama dei libri, di quella gialla, e spesso le due cose si confondono, creando un’alchimia vincente. Nella trasposizione televisiva, questa peculiarità va assolutamente mantenuta, anche se, ipotizzando un formato da 100’, con i casi di puntata che si concludono, i gialli vanno strutturati con una complessità e sequenzialità che permetta di avere vicende di autonoma rilevanza rispetto al punto di vista e alle avventure sentimentali della protagonista. Naturalmente senza perdere nulla della leggerezza e del tono di commedia caratteristici della base letteraria, andrebbero inoltre inventati casi più sorprendenti, con colpi di scena e detection maggiormente smaliziati ed originali.” E poi: “Il mondo visto con gli occhi di Alice, anche se popolato di crimini efferati, è comunque un mondo dove vale la pena di vivere e amare”. Questa affermazione mi ha guidato fino alla terza stagione; la scrissi nel primissimo appunto che mi feci dopo aver letto le prime 40 pagine del romanzo ‘L’Allieva’.

Come hai gestito la writing room nel caso de L’Allieva? Ti ritieni più un headwriter o uno showrunner?

Detesto la parola showrunner o meglio il suo significato dispotico, che rispecchia una società e un modo di lavorare statunitense che non mi appartiene. L’idea che ci sia per forza un leader che debba dettare legge su tutto, che imponga la sua visione soggettiva nell’illusione di essere lui il creatore, mi imbarazza. Credo molto di più nella Compagnia, vale a dire nel lavoro di squadra, nella comunità che fa spettacolo e lavora insieme per dare al pubblico la rappresentazione più efficace ed emozionante. Ciò non significa che non esista un ‘direttore d’orchestra’, un capo comico, un autore, che si prenda la responsabilità di far quadrare le cose per quanto riguarda l’ambito creativo della scrittura, ma non ha niente a che vedere con la figura egocentrica dello showrunner che tutto decide e tutto guida, dal budget produttivo al cast, dalle scelte registiche al marketing. Sono cresciuto con il mito del cinema artigianale, dove i film si scrivevano insieme, dove lo sceneggiatore faceva parte di una comunità creativa, di un laboratorio, in cui c’erano i maestri e gli apprendisti. Anche la prima serialità televisiva nasceva dalla triangolazione produttore, sceneggiatore, regista. Inoltre noto che la figura dello showrunner ha vita breve. Sempre secondo la prassi americana, si può giungere giovanissimi a ricoprire il ruolo di showrunner, ma basta un insuccesso per bruciarsi la carriera. E’ come se anche qui l’idea del rapido consumo vigesse. Il massimo di potere equivale anche al massimo di responsabilità e colpa nel momento in cui un progetto non ha il successo sperato. L’epica dello showrunner ha a che fare a mio avviso con l’idea tutta americana di un uomo solo all’apice del potere. Finché rendi, va bene, appena cali, sei fuori. L’idea che con l’avvento del ruolo di showrunner, lo scrittore, lo sceneggiatore sia finalmente al centro del processo produttivo, che sia lui il creatore di mondi, è qui da noi pura illusione. Anzi ho la sensazione che in quest’ottica, si sia acuito il malcostume di ascrivere unicamente agli autori l’insuccesso di un prodotto, mentre al contrario se esso ha successo il merito è di altri.
L’headwriter invece, che corrisponde al nostro capo sceneggiatore, ha già più senso. E’ giusto che il reparto scrittura di una serialità televisiva, che dovrebbe vedere impegnati più sceneggiatori, venga guidato da qualcuno che per esperienza, capacità e talento sia riconosciuto come autorità dagli altri, dal produttore dagli editor del network, dal regista. Non è una questione di età. Si può essere anche giovani e avere tutte e tre le qualità suddette, unite però ad una spiccata capacità di saper lavorare con e per gli altri. Un bravo headwriter deve saper ascoltare tutti i reparti, dalla regia alla scenografia, deve tenere testa alla produzione, ma capire anche quali sono i margini entro cui il prodotto che sta scrivendo può muoversi. Deve mettere i suoi colleghi sceneggiatori nella condizione di dare il massimo, di scrivere la serie con una sola voce, esaltando però la singola creatività. Deve tutelare l’idea iniziale, sapendo destreggiarsi nel dedalo dei mille cambiamenti che il processo realizzativo pone. Ho attraversato diverse stagioni televisive. In passato le serie venivano scritte da un folto gruppo di sceneggiatori, a volte tanti quanto il numero degli episodi, coordinati da un capocordata. Ora si è fatta strada l’idea che si possano ottenere risultati migliori affidando l’intera scrittura ad uno o al massimo ad una coppia di sceneggiatori. Dunque 8 o più puntate scritte dalle stesse mani. Non ho la facoltà di analizzare i risultati in termini di successo, ma mi trovo in disaccordo con questa scelta. La condivisione di un progetto, a mio avviso arricchisce. Inoltre dà la possibilità di mettersi alla prova a più scrittori (per non parlare del sacrosanto diritto al lavoro). Per quelli giovani è una palestra necessaria, sotto la tutela di un capocordata, pronto a sorreggerti nel caso perdessi la presa o commettessi un errore. E’ secondo queste mie convinzioni che ho gestito la writing room, altra definizione americana che sta a sostituire il concetto di cosceneggiatura. La ‘stanza in cui quelli scrivono’, è un modo di vedere le cose che non mi piace. Perché temo che dietro questo modo di immaginarsi la sceneggiatura, ci sia l’idea di qualcuno che in quella stanza può entrare e dettare legge. E’ la stanza all’interno della produzione, della major, della grande compagnia che ti paga e ti controlla. Sono troppo affezionato all’idea che gli sceneggiatori possano incontrarsi dove vogliono ed essere creativi come gli pare e piace. La libertà di sceneggiare seduti in un caffè o mentre si prepara da mangiare. Troppo spesso ci si dimentica, e lo dico alle giovani generazioni, di appartenere alla categoria degli artisti, anche se si scrive la lunga serialità. Siamo quelli che fanno spettacolo, non contabili, non ingegneri, o medici. Teatranti che un tempo vivevano in comunità, dotati di ironia e sarcasmo, disposti a tutto pur di far piangere o ridere la più vasta platea possibile. Uomini e donne capaci di vivere e immaginarsi fuori dagli schemi.

Nel gruppo di lavoro hai incluso la giovane Magda Mangano proveniente dal Wivaio di WGI. Che esperienza è stata?

Magda Mangano è stata una mia allieva in un master di sceneggiatura televisiva. In seguito alla politica che mi sono imposto quando ho accettato di ricoprire il ruolo di docente, e cioè quella di inserire in ogni mio progetto di scrittura almeno due tirocinanti scelti tra gli allievi più meritevoli, l’ho coinvolta nella prima stagione dell’Allieva. Con grande tenacia, Magda, passo dopo passo, si è guadagnata alla terza stagione il suo spazio come sceneggiatrice. Oltre al talento di scrittrice ha avuto la pazienza di seguire l’apprendistato. Adesso siamo arrivati a firmare insieme dei soggetti, a condividere idee. Lo scambio generazionale, il passaggio di consegne, è in corso, non solo con Magda, ma con altri suoi giovani colleghi, miei ex allievi. E’ quello che dovrebbe avvenire per non perdere memoria e per dare spazio al rinnovamento.

Quanto la figura dello sceneggiatore può influenzare gli altri reparti? E quali sono le difficoltà più importanti che hai incontrato (in particolare ne L’Allieva)?

L’autore è il punto di riferimento di tutti i reparti che contribuiscono alla realizzazione di un prodotto seriale. Se ha impostato correttamente il suo lavoro, nelle sceneggiature sono contenute tutte le indicazioni necessarie all’interpretazione. Scenografia, costumi, fotografia devono poter desumere il tono della serie dallo script. Eppure ci sono suggestioni che a volte non passano. C’è necessità di parlare. Come già detto, credo nella condivisione. E’ importante che l’autore possa esternare le sue idee al regista e al produttore, che ci sia dialettica e anche che possa leggere insieme agli attori i suoi dialoghi. La sceneggiatura, lo ripeto sempre anche ai miei allievi, non ha dignità letteraria, è un canovaccio in fieri. Fino all’ultimo, può essere modificata, migliorata, e non sarà mai ciò che alla fine resterà impresso nella registrazione. Ognuno, dal singolo attore, fino all’ultimo attrezzista ci avrà messo del suo. E questo lo trovo straordinario. Delle difficoltà incontrate con L’Allieva, preferirei non parlare. Tre stagioni, hanno significato quasi otto anni della mia esistenza. E’ stato molto difficile non perdere l’entusiasmo, la voglia di scrivere e di divertirsi, come la lucidità professionale, in frangenti in cui veniva minata la mia autostima. Trovo che questa sia una delle peripezie peggiori che uno sceneggiatore possa incontrare sul suo cammino artistico. E’ molto semplice per gli altri mettere in discussione il tuo lavoro e convincerti che la tua creatività si sia spenta o che la tua scrittura non sia più efficace. Mentre è molto arduo per un autore continuare a credere in se stesso e nella validità delle proprie idee. Ho visto valenti colleghi crollare, rinunciare al proprio lavoro, buttare via il talento e la propria creatività, per non aver avuto la forza di perseverare, di resistere al micidiale smantellamento della fiducia in se stessi e nei propri mezzi. E’ un peccato che tra i potentati televisivi questa pratica sia molto diffusa per imporre idee e posizioni culturali o semplicemente per disfarsi di chi non risulti gradito.

Ti sei creato una carriera longeva fatta di successi irripetibili. Come mantieni viva la tua creatività dopo 30 anni? Qual è il progetto che ti ha dato più soddisfazione?

Mantengo la mia creatività sforzandomi di pensare ad altro. L’imperativo categorico è scrivere e immaginarsi solo storie che in qualche modo ti arrechino piacere. Il piacere di raccontarle. Devo sentirmi ogni volta pervaso da un misterioso calore, solo allora scaturisce l’urgenza di scrivere, di dare spazio a quel personaggio, o a quella trama. Se non c’è quel calore, è meglio fare altro. Scrivo per la televisione nella presunzione che quel calore iniziale che io stesso ho provato, possa propagarsi attraverso una serie in ogni singolo spettatore che ci segue dal suo privato. Ripensando alle cose fatte non provo soddisfazione, ma un senso di perdita e abbandono. Tutte le storie raccontate in realtà mi hanno portato via qualcosa. Spesso sono state occasioni perdute, o figli abbandonati al proprio destino. D’altro canto cinicamente dico a me stesso che tutto quello che ho scritto è servito a pagare bollette, crescere figli, sostentarmi, e perché no, anche a togliermi qualche sfizio. Spesso mi sorprendo a guardarmi alle spalle con incredulità: possibile che sia riuscito a farla franca per 30 anni e passa, giocando con trame e personaggi?! Mi sono divertito.

Federica Colucci

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