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Vito Palumbo

Il cortometraggio ha il dovere di osare.

Vito Palumbo è uno sceneggiatore e regista italiano. Assieme a Roberto De Feo, ha scritto e diretto due pluripremiati cortometraggi.

Ice Scream, vincitore del MIFF 2010 e selezionato per i Golden Globe, ha dato ai due autori la possibilità di realizzare un lungometraggio ad Hollywood, prodotto da Christian Halsey Solomon.

Il secondo corto, Child K, realizzato sempre in coppia con De Feo, è stato prodotto da Colorado Film, Dinamo Film ed Eido Lab con il contributo del Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo e di Apulia Film Commission. L’opera è stata premiata ai Nastri D’Argento ed è in lizza per entrare a far parte della cinquina che si contenderà l’Oscar 2016.

Ciao Vito! La WGI sta cercando di capire le vie d’accesso alla professione di autore di cinema e tv. Uno dei mezzi abituali è il corto. Raccontaci la tua esperienza. Hai fatto il primo corto perché…

Ho fatto il primo corto perché sentivo la necessità di esprimermi. Avevo voglia di emozionarmi e di emozionare, di intraprendere un percorso, di realizzare sogno della mia vita: diventare un regista. Purtroppo il primo corto venne fuori così brutto che lo chiusi in un cassetto e credo sia ancora oggi lì.

A Venezia, nell’ambito della Mostra Internazionale del Cinema, è stato detto che solo il 10% dei corti vengono distribuiti e che il massimo di ritorno economico che possono ottenere è la visibilità di un ingresso nella cinquina degli Oscar e un volo a Los Angeles. Qual è la tua idea?

Realizzare un’opera filmica è un’impresa non da poco. Servono tenacia e pazienza. Molta pazienza. Una delle regole non scritte quando si parla di cortometraggi è che mai e poi mai recupererai i soldi investiti per produrlo.

Distribuirlo è tutt’altra storia perché oggi esistono nel mondo centinaia, migliaia di festival del corto e se hai girato un’opera che osa e che non passa inosservata è possibile arrivare ovunque. A chi abbia voglia di girare un corto per arricchirsi consiglio di indirizzare i propri sforzi verso altri settori.

Il corto – secondo Antoine LeBos, sceneggiatore e script-consultant francese – è più vicino alla poesia e consente agli europei di salvare la propria identità culturale senza farsi schiacciare dalla struttura americana delle storie con eroe al centro e percorso dell’eroe abbinato. Il noto sceneggiatore Leo Benvenuti diceva invece: coi corti impari a corteggiare… cioè a non arrivare mai a costruire davvero una storia. Tu che ne pensi?

Mi trovo più vicino all’affermazione di LeBos. Il cortometraggio ha il dovere di osare, di raccontare storie che davvero valga la pena mettere in scena ed essendo totalmente affrancato dalla logica del botteghino, evitare di cadere nel luogo comune, nella sceneggiatura che ammicca allo spettatore e che si rifà a strutture e stilemi commerciali.

Come WGI riteniamo che la chiave per poter creare un’industria (come funziona nel mondo occidentale) sia creare da subito e mantenere salda durante tutta la realizzazione, la triade scrittore/produttore/regista: che mi dici dei corti, da questo punto di vista, sono il contrario dell’industria?

Io credo che il sodalizio tra scrittore, produttore e regista possa e debba essere il valore aggiunto di un progetto che funzioni. Il difficile sarà trovare i giusti collaboratori che condividano e rispettino la poetica del regista che dovrà essere il punto di partenza dell’unione. Mai accontentarsi.

Altrove, in Danimarca e in Francia, lo Stato si preoccupa di creare un ponte tra scuole di cinema e mercato. Secondo te ci vorrebbe anche in Italia? In quali momenti ti avrebbe fatto comodo?

E’ difficile rispondere a questa domanda perché purtroppo il capitolo ‘scuole di cinema’ in Italia è argomento che andrebbe seriamente approfondito. E’ assurdo che nella scuola pubblica non vi sia lo studio, anche solo a livello teorico, del cinema come forma d’arte. Che Truffaut, Ozu, Fellini, Godard e Kubrick non siano considerati alla stregua di Picasso, Raffaello, Molière o Goldoni. E’ assurdo che in Italia esista una sola scuola di cinema nazionale aperta a una manciata di fortunati ogni anno. Fatta questa doverosa premessa, l’accessibilità per i registi ad un mercato del corto, sarebbe uno strumento in grado di dar risalto, diffusione e quindi visibilità ai propri lavori. Un modo per sentirsi meno isolati.

Il corto è il biglietto da visita del regista o anche lo sceneggiatore ne tira fuori qualcosa?

Il corto è un contenitore di sogni, speranze, ambizioni. Io credo sia il biglietto da visita per chiunque vi prenda parte: sceneggiatore, regista, produzione, scenografi, direttore della fotografia, costumista… tutti.

Lo sceneggiatore di un corto scritto bene non passa inosservato.

E’ facile passare dai corti ai lunghi o la tua esperienza può considerarsi un’eccezione?

Non c’è niente di peggio che girare corti avendo dentro di sé la frustrazione del lungo. Il cortometraggio è un mondo a sé, ha una poetica, un linguaggio e un respiro che stanno al lungometraggio come il racconto breve sta al romanzo.

Quando abbiamo scritto e diretto il corto Ice Scream non abbiamo nemmeno lontanamente pensato potesse un giorno diventare un film.

Quando ci è stato chiesto di scriverne una trasposizione per il cinema, la mia prima domanda è stata: perché far durare un’ora e mezza un prodotto che funziona alla grande in venti minuti?

Di sicuro la statistica dice che il corto che diventa un lungo è evento più unico che raro ma se giri un corto con questo proposito ti consiglio di fermarti, fare un bel respiro e riconsiderare i motivi per i quali hai voglia di raccontare la tua storia.

L’intervista è a cura di Mario Olivieri

I Guardiani della Soglia – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di sostenere gli sceneggiatori. Questa rubrica – che prende il nome da uno dei gradini del classico manuale di scrittura Il Viaggio dell’Eroe di C. Vogler – si rivolge ai più giovani e indaga le vie d’accesso alla professione.

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