Scrittori a CannesWriters

Dogman

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.
Massimo Gaudioso, autore insieme a Ugo Chiti e al regista Matteo Garrone della sceneggiatura di Dogman, svela i segreti del lungo processo di scrittura del film, la cui idea risale a più di dodici anni fa. Un processo di scrittura lungo ed elaborato per estrapolare da una vicenda di cronaca una sceneggiatura per un intenso noir metropolitano. Il film è stato presentato nel concorso ufficiale della 71esima edizione del Festival di Cannes, conquistando il premio per la miglior interpretazione maschile andato a Marcello Fonte.

Carissimo Massimo, dopo aver collaborato con Matteo Garrone in tutti i suoi film, torni nuovamente a Cannes con il suo ultimo lavoro, “Dogman”, ispirato alle vicende reali del Canaro della Magliana, avvenute nel 1988. Questa nuova pellicola segna una narrazione dura e in qualche modo oscura fra i tasselli della tua filmografia. Ci puoi raccontare la trama in breve?

La trama in breve è arcinota, perché ispirata ai fatti reali del 1988, ma in un certo senso reinventata. In una periferia sospesa tra metropoli e natura selvaggia, dove l’unica legge sembra essere quella del più forte, Marcello è un uomo piccolo e mite che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toelettatura per cani, l’amore per la figlia Sofia, e un ambiguo rapporto di sudditanza con Simoncino, un ex pugile che terrorizza l’intero quartiere. Dopo l’ennesima sopraffazione, deciso a riaffermare la propria dignità, Marcello immaginerà una vendetta dall’esito inaspettato.

Il terribile evento è conosciuto da tutti per la sua inaudita e spietata crudeltà. In un’intervista dell’epoca al Messaggero, Dario Argento ebbe a dire: “Questo è un mattatoio, non c’entra con i miei horror”. Sentivate in un certo senso il peso della responsabilità nella stesura prima del soggetto e poi della sceneggiatura? Come avete deciso di procedere nella trasposizione dal racconto reale a quello di finzione?

Il peso della responsabilità non lo abbiamo mai sentito, anche perché non era nelle nostre intenzioni di fare una ricostruzione dell’evento, né qualcuno ci aveva pagato per farlo. All’inizio – parlo della prima stesura che, se mi ricordo bene, fu scritta tra Primo Amore e Gomorra – eravamo partiti dal solito lavoro di documentazione. Avevamo letto l’ottimo racconto che aveva scritto Cerami, e che era contenuto nel suo libro Fattacci, che già avevamo usato inizialmente come traccia per L’imbalsamatore. Era uno dei quattro episodi di cronaca nera che Cerami aveva scelto tra quelli più rappresentativi di un’epoca, e che tra l’altro ci piacevano tutti. Cerami già dava una sua personale lettura alla vicenda, che era quello che avremmo voluto fare anche noi.   Facemmo un ulteriore lavoro di documentazione, attraverso la raccolta di materiale scritto o filmato (articoli di giornale dell’epoca e approfondimenti televisivi). Quindi cominciammo a costruire una prima scaletta dettagliata dei fatti, una mappa della storia, da tenere soltanto come base di partenza. Da lì abbiamo cominciato a immaginare la storia daccapo, seguendo le nostre suggestioni, prima il protagonista, poi l’antagonista, lo scenario e via dicendo, distaccandoci progressivamente dalla storia vera e inserendo quello che ci sembrava importante e coerente ai personaggi che avevamo immaginato. Il soggetto non lo abbiamo mai scritto, anche perché non si trattava di un lavoro su commissione, abbiamo proceduto costruendo diverse scalette, come facciamo abitualmente.

Garrone ha iniziato a lavorare alla sceneggiatura dodici anni fa. Cos’ è cambiato nel corso del tempo? Pensate di aver raggiunto una certa consapevolezza nel raccontare i fatti così come sono avvenuti, ma seguendo un’ottica e una prospettiva differente?

Nel frattempo sono state fatte altre stesure, in tutto sei, in ognuna delle quali si partiva dall’insoddisfazione di Matteo per quella precedente, cercando di andare ogni volta in una nuova direzione, mantenendo quello che c’era di buono, se c’era. Ogni volta si ripartiva dal personaggio e dalle sue motivazioni. E ogni volta si cambiava un po’ tutto, la sua origine, la sua estrazione sociale, il suo rapporto con l’antagonista, il punto di vista e lo scenario della storia. Non credo che abbiamo mai raggiunto una consapevolezza della storia com’è realmente avvenuta, ma nemmeno ci interessava. Ogni volta rimescolavamo le carte per costruire una storia diversa, che avesse una sua verità e che fosse soddisfacente per noi, per le premesse che avevamo creato. L’unica consapevolezza era quella della sua imperscrutabilità, che ci è stata subito chiara e che ci ha liberato dal peso di dover essere fedeli a un mistero.

Il poster della pellicola anticipa visivamente e notevolmente sia lo scenario che l’epilogo stesso di quello che è accaduto. Lo consideravate indispensabile nella riduzione filmica di questo fatto di cronaca nera? Erano presenti le stesse sensazioni quando avete scritto uno dei suoi primi lavori, ovvero “L’imbalsamatore”?

L’unica nostra preoccupazione è sempre stata quella di creare uno scenario che fosse perfettamente coerente con il nostro personaggio e amplificasse visivamente la nostra narrazione. Certo, non potevamo rinunciare allo scenario del fatto di cronaca nera che aveva colpito l’immaginazione di tutti e soprattutto quella di Matteo: la toilette per i cani. Il regno del protagonista. Un universo chiuso, a sé stante, che esclude ogni altro essere umano, a parte i proprietari dei cani, gli unici abitanti di quel luogo. Un luogo che evoca in modo naturale quegli scenari da fiaba nera che tanto piacciono a Matteo. Per il resto potevamo muoverci liberamente. Le periferie sono tutte uguali. Di luoghi come la Magliana dell’epoca – un quartiere dove, come ci hanno raccontato le persone che ci vivevano, quando pioveva le strade e i cortili si riempivano di fango e di liquami – ce ne sono tanti. E comunque, ripeto, lo scenario dipendeva dal protagonista, da quello che avevamo deciso dovesse essere il suo mondo interiore. Nell’ultima stesura è rimasta un’idea visiva che c’era sin dall’inizio, quella di un villaggio western, un microcosmo, con il corso principale attraversato dalla sabbia, il saloon, la drogheria, e intorno la pianura o le colline. Questa idea era scaturita dal conflitto finale del protagonista, un conflitto che avevamo desunto da un interrogatorio del vero canaro e che ci sembrava centrale per la nostra storia: se nascondere o meno agli altri, alla comunità, il proprio delitto. La scelta che fa, quella che abbiamo deciso che facesse, ci ha suggerito l’inquadratura finale e ci ha definitivamente convinto che quell’idea fosse giusta. E comunque, ci tengo a precisarlo, l’epilogo della nostra storia è ben diverso da quella vera. Succede spesso che gli spettatori tendano a confondere i due piani, quello reale e quello inventato, fino a credere che il secondo sia quello vero. Con i nostri film è sempre successo così, non solo per quanto riguarda l’aspetto narrativo, ma anche per quello stilistico. Per molti, Matteo fa dei film realistici, pensa un po’… Quando uscì Gomorra molti ne parlavano come se fosse un documentario, senza minimamente avere il dubbio che alle spalle ci fosse una solida drammaturgia.

Trent’anni fa, i fatti del Canaro hanno sconvolto non solo l’Italia intera, ma soprattutto la Magliana, il contesto cittadino dove è accaduto l’efferato omicidio.  Dalla visione del trailer emerge un’altra tipologia di ambientazione, come siete arrivati a questa decisione? Perché avete deciso di raccontare un altro luogo e un’altra epoca, ma soprattutto, non temevate che un’eccessiva modifica del contesto reale dove si è svolta la vicenda, possa disorientare gli spettatori?

Di quello che è successo 30 anni fa, dello scalpore che suscitò, dei suoi risvolti ne sono cosciente e ne ho memoria, dato che all’epoca vivevo già a Roma e non ero un bimbo. Ma il mio e il nostro interesse per il fatto in sé finisce lì. Nello scegliere questa storia non abbiamo mai avuto l’intenzione di raccontare l’Italia com’era; nessun intento storico-politico, antropologico, sociologico, psicologico. Qualcun altro lo avrebbe potuto fare, magari anche meglio di noi, ma noi abbiamo seguito un’altra strada. Non è semplice, d’altronde, cercare di spiegare cosa abbia determinato questa terribile vicenda, che cosa ci sia dietro un mistero insondabile come quello della mente umana e a un fatto così poco chiaro ancora oggi nella sua dinamica, come nel movente. Non era quello il nostro compito. Quindi, ogni volta che abbiamo scritto una stesura non ci siamo mai preoccupati di essere fedeli al fatto di cronaca. Sicuramente certe suggestioni, soprattutto visive, come ho detto, la storia ce le ha date e sono piuttosto evidenti. Si potranno riscontrare nella trama alcuni episodi simili a quelli reali, o meglio, a quelli che ci sono stati tramandati. Ma questo non vuol dire che volessimo imitare la realtà. Tutt’altro. Ogni volta abbiamo lavorato cercando di immaginare nuovi personaggi e scenari, senza intaccare il nucleo originario. La scelta di un luogo e di un tempo diverso è la naturale conseguenza di una precisa volontà che è alla base di tutti i film che abbiamo fatto finora, quella di trasfigurare il reale, trasponendolo in una dimensione senza tempo, fiabesca, con personaggi archetipici. In alcune pellicole questa volontà è espressa più chiaramente, in altre meno, ma è sempre stata fondamentale nel nostro approccio quando abbiamo deciso che storia fare. Non abbiamo mai temuto di disorientare il pubblico. Magari ci sarà qualcuno che andrà al cinema aspettandosi di vedere la fotocopia di quella spaventosa vicenda, o almeno di quella che crede essere la sua fedele riproduzione, ma spero proprio di no. Come diceva il mio amico Eugenio Cappuccio: il cinema è un’altra cosa. Un film è un film, con la realtà non c’entra niente; se uno va lì a mettere i puntini sulle i, a fare confronti, è un problema suo. Gli spettatori giovani neanche sanno di cosa si parla, per fortuna, i più vecchi sono morti e quelli come me sono già sufficientemente rincoglioniti per fare paragoni.

Il rapporto con Garrone e l’altro suo sceneggiatore di fiducia, Ugo Chiti, quanto ha influito nella fedeltà dell’adattamento, dalla cronaca al grande schermo? Hanno predominato le convergenze o le divergenze nel processo creativo di scrittura?

Ormai sono tanti anni che con Ugo e Matteo ci si ritrova per lavorare insieme. Ci conosciamo bene, siamo una squadra collaudata, se così si può dire. C’è un’ottima sintonia, mi sembra. Matteo è molto esigente, quindi le divergenze ci possono stare, così come i momenti di tensione che ne scaturiscono, ma poi tutto rientra, è normale, fa parte di questo mestiere, sarebbe strano il contrario. Di solito le convergenze sono proprio il risultato, la sintesi perfetta delle divergenze, che sono la nostra ricchezza.

Nella vostra scrittura emerge con forza il contrasto narrativo fra questo scenario da western urbano, e la sua contaminazione con la natura selvaggia. In fase di elaborazione dello script, ha influito per caso Pasolini con il suo romanzo “Ragazzi di vita”? Quanto sono essenziali queste storie di periferia e borgate romane per un autore come te?

Influenze letterarie ci sono state, ma Pasolini mai.  Piuttosto Dostojevski, il suo mondo narrativo, quello senz’altro. Nelle prime due stesure, nella costruzione del protagonista soprattutto, eravamo partiti dalle “Memorie dal sottosuolo”, le cui influenze secondo me continuano a risuonare nell’ultima versione, quella che è stata girata, e da un bellissimo saggio di René Girard “Il capro espiatorio”. “Ragazzi di vita” non è mai stato nominato, se ben ricordo. Io non sono di Roma, ci sono venuto soltanto per lavorare, non vivo nelle borgate e nelle periferie, non ho un legame affettivo né sono interessato particolarmente a quello che vi accade. Quindi non sarei in grado di raccontarle. Se un giorno mi dovesse capitare di conoscere una storia di borgata che m’interessa o di incontrare una persona che viene dalla borgata con una storia interessante, cercherei di approfondirla, frequenterei quel posto, quella persona, ma questo potrebbe accadere ovunque e in qualsiasi momento.

Il protagonista del film, Marcello (Pietro De Negri nella cronaca) è un uomo pacifico e mite che si ritrova nel suo vivere quotidiano a subire continuamente vessazioni e umiliazioni da parte del ras del quartiere, Simoncino (Giancarlo Ricci nella cronaca). Qual è l’arco narrativo di entrambi? C’è uno stravolgimento descrittivo nei panni interscambiabili di carnefice e vittima?

Sarebbe bello togliere i nomi tra parentesi, sia per rispetto di quelle persone e del loro tragico destino, sia perché, come ho detto e, come temo, dovrò ripetere più volte, il nostro film è soltanto ispirato alla realtà, ma da quella se ne discosta decisamente. L’arco narrativo… Non ci avevo pensato! Ci provo, ma non son bravo con queste cose. Il primo da vittima inconsapevole diventa carnefice inconsapevole, quindi nuovamente vittima inconsapevole. Il secondo da carnefice inconsapevole diventa vittima inconsapevole. Non so cosa sia lo stravolgimento descrittivo ma forse anche no.

C’è una scena di questo controverso confronto/scontro fra i due che hai avuto piacere a scrivere con Chiti e Garrone? O avevate nella vostra mente un’idea ben diversa da quello che è stato il prodotto finale?

Veramente non ricordo scene particolari. In generale mi è piaciuto scriverlo, in alcune stesure precedenti ci siamo anche molto divertiti nel costruire delle situazioni che esprimessero il mondo interiore del protagonista così come lo stavamo immaginando. A volte Matteo s’intestardisce su alcune scene che ritiene indispensabili oppure insiste a farci scrivere in modo molto minuzioso alcune scene che poi magari neanche gira. Faccio un esempio: la scena della tortura, che era un retaggio della vicenda reale. L’abbiamo scritta più volte e non era mai abbastanza, sembrava sempre che ci fosse qualcosa di troppo o di troppo poco. Alla fine abbiamo compreso che l’insoddisfazione nasceva dal fatto di averla voluta lasciare a tutti i costi, mentre non era più un elemento così essenziale nella nostra narrazione, nel percorso che avevamo intrapreso. E la scelta dell’attore protagonista prima e del lavoro di costruzione del personaggio fatto insieme a lui da Matteo, soprattutto sul set, ce lo ha definitivamente confermato.  Alla fine credo che quello c’era nelle nostre menti e sul copione corrisponda a ciò che si vede nel film, anzi ha trovato una sua giusta definizione. È vero che Matteo ha la capacità di sorprenderci sempre, perché non si accontenta mai della pagina scritta, la rielabora continuamente, sul set, come dopo, in montaggio. Ma, essendo coinvolto in tutte queste fasi, condivido con lui anche gli eventuali cambiamenti e me ne sento co-autore e co-responsabile.

In merito alla questione sullo scontro fra la Siae e Sky, come vedi la posizione degli autori in questo momento di cambiamento del panorama mediatico, con l’ingresso di grossi player internazionali? Credi che questo possa incidere sulla loro indipendenza e libertà, ma soprattutto, sulla possibilità di avere il giusto riconoscimento per il loro lavoro?

Mi dispiace, ma non seguo più le vicende politiche da tempo e quindi anche quelle che riguardano il mio lavoro. Nutro un’istintiva diffidenza nei confronti di quelli che definisci “player internazionali”. Più sono grandi, peggio sono, questo soltanto posso dire; è ovvio che libertà intellettuale ed economica siano sempre più a rischio.

Da quando ho iniziato a lavorare c’è sempre stata la stessa arroganza e la stessa impunità che vedo oggi. Ma adesso questo nostro settore è cresciuto enormemente,    i capitali in ballo si sono moltiplicati così come la forza lavoro che spinge per entrarvi. La produzione immateriale, dietro l’attrattiva di un lavoro gratificante e privilegiato, crea forme di sfruttamento simili a quelle del capitalismo ottocentesco. Come diceva la buonanima di Marx: l’operaio diviene tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che egli produce. Bene, eccoci qua… Trovo assurda la posizione illegale di Sky nei confronti degli autori, e spero che i tanti colleghi più giovani e molto più agguerriti di me, mettano fine con le buone o con le cattive a tanta protervia. Se venissero intraprese delle forme di protesta più concrete e se le ritenessi giuste nella sostanza, vi aderirei senz’altro.

L’intervista è a cura di Francesco Maggiore

Scrittori a Cannes – Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere al Festival di Cannes 71  (8 – 19 maggio 2018).

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