Scrittori a festivalWriters

Perfetti Sconosciuti

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.

Paola Mammini, insieme a Paolo Genovese, Filippo Bologna, Paolo Costella e Rolando Ravello, ha scritto Perfetti sconosciuti, film che, oltre ad aver registrato un vero e proprio trionfo di critica e pubblico e ad aver conquistato ben nove candidature ai David di Donatello – tra cui quella come miglior film e migliore sceneggiatura – è stato selezionato al Tribeca film festival nella sezione International Narrative Competition. Il festival fondato dall’attore Robert De Niro si svolgerà a New York dal 13 al 24 aprile 2016.

Paola, innanzitutto complimenti! Non solo un successo galattico in patria ma adesso anche questo importante riconoscimento internazionale del Tribeca… accidenti, il festival di de Niro! Dimmi subito chi andrà in trasferta a New York, solo il regista o anche voi sceneggiatori?

Innanzitutto grazie tantissimo, da parte mia e dei miei 4 compagni di viaggio, a te e alla WGI, i complimenti fanno sempre un gran piacere, ma quelli vostri ancora di più. Detto ciò, mi spiace dover iniziare questo ‘compito’ beccandomi un bell’impreparato… A oggi infatti, non so ancora chi di noi andrà a New York. Proprio in questi giorni la produzione sta gestendo tutta questa cosa con l’organizzazione del Festival e a breve sapremo. Quello che ti posso dire per certo, è che ritrovarsi in concorso è stato talmente inaspettato da averci colti tutti di sorpresa. Un film italiano, una commedia, che viene selezionata in un festival così prestigioso è un risultato davvero incredibile. Su di me in particolare l’effetto è stato emotivamente dirompente. Insomma Robert De Niro! L’attore che più di tutti, nella mia primissima formazione di attrice di prosa negli anni dell’Accademia d’Arte Drammatica, è stato un modello di riferimento.

Quando uscì C’era una volta in America, per dire, sono rimasta inchiodata alla poltrona del cinema per due spettacoli di seguito. Non c’è un solo film da lui interpretato che non abbia visto e rivisto almeno due tre volte. E oggi, un film firmato anche da me, è stato scelto proprio da lui. La vita sa essere davvero gentile, quando vuole.

Dici che si è trattato di qualcosa di inaspettato… dunque sai niente, di com’è andata la selezione? Da chi è venuto l’input a partecipare, cosa ha colpito i selezionatori, gli altri italiani in gara…

Temo di dovermi beccare un altro impreparato! Il che in parte risponde alla domanda: non è da noi (dico noi sceneggiatori) che è partito l’input… E non so nulla di come ci siamo meritati questa magnifica occasione. Abbiamo appreso la notizia dal web, dalla condivisione sui social, dai quotidiani. Come De Niro e i suoi abbiano avuto tra le mani Perfetti sconosciuti e l’abbiano apprezzato al punto di selezionarlo non lo so e devo dire che non mi è venuto in mente d’informarmi. L’emozione ha di gran lunga superato tutto.

Va bene, facciamo che per i dettagli sul festival di Tribeca ci dirai quando saprai e che adesso ci concentriamo su Perfetti sconosciuti. La trama ormai è nota, il film l’hanno visto tutti ma per il rispetto dovuto a chiunque ci legga te lo chiedo: ci fai un pitch?

Un gruppo molto affiatato di amici, formato da tre coppie sposate e un single divorziato che da poco ha trovato un nuovo amore, si ritrova, come accade spesso, a cena. Non hanno bisogno di un’occasione particolare per vedersi. Sono amici da una vita, si incontrano spesso, vanno in vacanza insieme, per molti di loro il legame dura dai tempi della scuola. Questa volta però l’occasione c’è. Il single divorziato porterà a cena Lucilla, la nuova fidanzata che gli amici non hanno ancora conosciuto. Ma la vera sorpresa della cena non sarà Lucilla che a quel tavolo non siederà mai perché le è venuta una febbre improvvisa. Per gioco, per noia, per una sottile quanto pericolosa voglia di andare oltre il solito divertito chiacchiericcio tra amici, Eva, la padrona di casa, propone un gioco apparentemente innocuo partendo da una chiacchiera su due amici storici che a quel tavolo non ci sono perché separati da poco a causa di un messaggino: per tutta la durata della cena ognuno dovrà mettere il proprio cellulare sul tavolo, e ogni messaggio, telefonata, mail verrà letto/ascoltato pubblicamente. Tanto tra loro non ci sono segreti, che potrà mai succedere? Tra i sette amici, più d’uno vorrebbe dire no, ma dire no sembra già un’ammissione di colpa e alla fine i sette cellulari vengono schierati sul tavolo pronti a sparare… E se i primi messaggi ingenerano solo qualche equivoco innocuo offrendo ulteriori spunti di cazzeggio, via via che la cena e il gioco proseguono, ognuna di quelle minuscole sim smaschererà, e in tutta la sua crudezza, che a quel tavolo siedono sette perfetti sconosciuti. Non solo tradimenti: per come va la cena sarebbero quasi il meno… quel gioco al massacro metterà a nudo sette identità fatte di insoddisfazioni, frustrazioni, nodi irrisolti, insicurezze, pregiudizi, maschere, menzogne, in una parola: male di vivere. Lo sgomento nello scoprire e scoprirsi così tanto ‘altro’ da quello che ognuno di loro ha sempre pensato di sé e dell’amico di una vita che gli sta di fronte, provocherà un corto circuito pesantissimo dal quale è impossibile poter tornare indietro, impossibile ricomporre i cocci di una serata che voleva essere, come chissà quante altre volte, leggera e spensierata. Tentare di dire e dirsi che non possono essere diventati davvero così, non solo sarebbe troppo tardi, sarebbe inutile. [ATTENZIONE, SPOILER! ndr] Ma del tutto a sorpresa, complice l’eclissi di luna che ha idealmente oscurato i tempi della cena, non appena escono dalla casa di Rocco ed Eva questi sette perfetti sconosciuti tornano stranamente ad essere gli amici di sempre. Ridono, cazzeggiano, scherzano. Come se niente fosse accaduto. Gli stessi padroni di casa, rimasti soli, sono identici a come erano prima di mettere i cellulari sul tavolo. Com’è possibile? Cosa è successo? È successo che tutto quello cui abbiamo assistito durante la cena, è quello che sarebbe accaduto se avessero accettato di ‘giocare’ al gioco dei cellulari in libertà sul tavolo proposto da Eva. E invece no, non l’hanno fatto, e ora se ne possono andare tutti e sette a dormire sereni. I segreti sono rimasti al sicuro. Sono tutti e sette salvi. Ma fino a che punto e fino a quando? Tutto quello che sarebbe venuto fuori se avessero deciso di giocare, c’è comunque. Custodito in sette minuscole sim che come mine pronte a esplodere continueranno ad accompagnare le loro vite

Un film di personaggi, un’ambientazione unica eppure… tanta roba, nel senso di tanto intreccio. Ecco, allora, ti chiedo: cosa vi premeva raccontare, attraverso questo meccanismo molto ben congegnato e questa trama così ricca? In altre parole, venendo all’osso duro, al nocciolo: qual è il tema del film?

Non è un caso che Paolo, nel proporci di lavorare insieme a questo film abbia scelto la frase di Gabriel Garcia Marquez come una sorta di faro: “Ognuno di noi ha tre vite, una pubblica, una privata e una segreta”. Che ognuno di noi abbia una doppia identità è normale. È normale che ognuno di noi sia contemporaneamente come gli altri lo vedono e com’è nel proprio privato. La distanza più o meno grande tra le due identità deriva dal tipo di legame e dal grado di intimità che si hanno con le persone che fanno parte della propria vita. Un tema, questo, sempre vivo e sempreverde nella letteratura e nel cinema. Con questo film volevamo provare a fare un passetto in più. Ovvero esplorare una zona ancora più oscura, una terza identità non necessariamente presente in ognuno di noi come l’abbiamo raccontata nel film ma certamente plausibile. L’espediente dei cellulari era in questo senso perfetto. Ci offriva la possibilità di ‘entrarci’ attraverso l’uso della commedia, attraverso qualcosa di molto riconoscibile e che intuivamo sarebbe stato il più adatto a permetterci di mettere in gioco una crudeltà emotiva partendo in modo morbido. I cellulari, e i danni che possono creare, sono ormai super inflazionati nel cinema (e nelle fiction), potrei citarti non so quanti film in cui l’incidente scatenante, o comunque lo spunto comico/drammatico è un messaggino che non doveva essere letto, una telefonata che non doveva arrivare, una password lasciata incautamente a portata di mano. È uno scherzare col fuoco che non fa paura. Addirittura su Facebook girano frasi del tipo “Chi è senza peccato apra whatsapp davanti a tutti”. La grande intuizione di Paolo è stata quella di trasformare il cellulare da blando contenitore di bugie tollerabili e mediamente gestibili, in un rivelatore spietato di ipocrisia. Uno strumento che in un certo senso invece di essere gestito da noi rischia di gestirci. Perché la vita segreta di ognuno di noi non ha nulla di sbagliato in sé. Credo sia anche sano che ci siano delle zone più nascoste di noi che debbano rimanere tali. Per dirla da addetta ai lavori… coi nostri fatal flaw ci confrontiamo ogni giorno, ma lo facciamo, ed è normale sia così, con noi stessi, o magari con un analista… non li facciamo uscire allo scoperto come niente fosse. Per qualche strano meccanismo che a mio parere non è stato ancora indagato in tutta la sua potenza, affidare a una scheda sim, a un social, così tanto di sé, sta scombinando gli equilibri tra ciò che è segreto e ciò che è privato. E in questo scardinamento emotivo, il rischio di perdere la percezione di sé c’è. Soprattutto c’è il rischio, ed è questa la cosa che ci premeva provare a dire, cha va bene avere una vita segreta ma attenzione, perché, come dice Giallini nel film, “siamo frangibili”. E allora forse una maggiore attenzione alla protezione dei propri affetti va ripensata, protezione che passa anche dal proteggerli da sé. Prendiamo il personaggio di Edoardo Leo (bravissimo tra l’altro), ecco lui rappresenta una certa tipologia di maschio che ha una vera e propria compulsione nei confronti della conquista, del sesso fine a se stesso. Eppure ama sua moglie e ne è gelosissimo. È sufficiente cancellare i messaggini delle sue amanti per dirsi che va bene così, che non dovrebbe rivedere qualcosa di sé, fosse solo per non massacrare la donna che crede di amare qualcosa che lui non è? Non c’è giudizio in quello che dico, ognuno ha le sue zone nere… ma nel confrontarsi con gli affetti, beh lì sì che sarebbe auspicabile un po’ più di attenzione/protezione. E in questo senso, affidarsi ai cellulari per dirlo è stata una scelta molto efficace. Perché in tutto ciò la tecnologia, che ha ridotto al minimo – con un po’ di accortezza – la possibilità di venire ‘colti in flagrante’, un po’ di protagonismo ce l’ha eccome.

Ecco, brava, parliamo proprio di questo. Mettere al centro i cellulari è stato solo un gioco, un pretesto narrativo, o credi davvero che la tecnologia sia una minaccia, che non la stiamo affrontando bene?

Credo di aver già parzialmente risposto… Posso solo aggiungere che se la mia generazione talvolta ancora arranca nello stare al passo con la comunicazione a colpi di emoticon e col mondo virtuale dei social, i miei nipoti, nativi digitali, ci si muovono con grande disinvoltura. Con i pro e i contro che tutto questo può significare. Non mi sento di fare alcuna morale tipo ‘era meglio prima quando si comunicava guardandosi negli occhi’.

È troppo semplice e semplicistico. Ma un po’ come tutti, immagino, rimango molto sorpresa nel constatare quanto il numero di ‘mi piace’ o di condivisioni, possano davvero cambiare la vita a un utente Facebook. O quando uno qualunque di questi social viene utilizzato per comunicare cose privatissime, stati d’animo molto intimi, foto di famiglia, invettive contro un fidanzato/a, insulti vari o neanche tanto velate richieste di ‘affetto’. Ho un’amica molto più giovane di me che una sera, disperata perché aveva problemi col fidanzato, ha intrattenuto una ‘conversazione’ di un’ora e mezzo con me a colpi di messaggi whatsapp, invece di comporre il numero e chiamarmi. Quando qualcuno appassionato di scrittura mi chiede l’amicizia su Facebook, spesso mi ringrazia scrivendo ‘grazie, è un piacere conoscerti’. Mi conosce? Lo conosco? Ecco tutto questo mi lascia perplessa ma comunque incuriosita. Perché poi c’è tutta la parte oggettivamente bella del virtuale, ovvero la possibilità di sapere/vedere in tempo reale tantissime cose interessanti a portata di clic. Certamente è un mondo pazzesco, ma un po’ di paura sì, me la fa…

In tutto questo… tu? Dove sei? Cosa è più tuo o cosa hai fatto più tuo, di questa sceneggiatura? So che è difficile dirlo, quando si scrive in tanti, però credo anche che, come i personaggi, anche gli scrittori siano portatori di un proprio tema specifico.

È bella questa domanda e ti ringrazio, perché mi dà la possibilità di provare a esprimere – come non mi è ancora capitato di fare – l’originalità soprattutto emotiva nel lavorare a questo film. Aldilà del mestiere, della tecnica, per i temi e gli argomenti trattati, mai come questa volta ognuno di noi ha espresso, sviscerato, approfondito e messo tantissimo di sé in ognuno dei personaggi e del loro vissuto. Ma non in termini di biografia o esperienza diretta, nessuno dei personaggi somiglia a qualcuno di noi 5: ognuno di loro è il risultato dell’elaborazione di 5 punti di vista, a volte simili, altre volte meno com’è normale che sia. E nel crearli uno per uno, nel dar vita a ognuna delle loro storie, nell’intrecciare e stabilire i legami che li uniscono e i ‘segreti’ che si portano dentro, è difficile stabilire con precisione quanto sia stata io portatrice di un tema specifico o invece Paolo G., Paolo C., Filippo, Rolando. Le tantissime ore passate insieme – oltre a essere molto divertenti, va detto – sono state sempre molto ricche, animate, appassionate; emotivamente, appunto, intense. In molti per esempio mi hanno chiesto se nel processo di scrittura ci siamo divisi i personaggi. No, non c’è stata alcuna divisione. C’è stata, invece, sempre e solo condivisione. Ecco, se proprio devo pensare a cosa ci possa essere di più ‘mio’ nel film ma in quanto ‘quota rosa’ del team… il mio coinvolgimento nella costruzione dei tre personaggi femminili è stato molto forte. Anche se non ce ne sarebbe stato bisogno (ho lavorato con quattro teste fantastiche), sentivo comunque la responsabilità di rendere sempre credibili e al riparo da cliché ognuna delle tre donne, diversissime tra loro, sedute a quel tavolo. Sono infatti tutte e tre donne sposate ma ognuna di loro ha dato e investito motivazioni e significati molto diversi al proprio matrimonio, così come alla maternità e alla realizzazione di sé in quanto individuo aldilà della coppia. Il film si svolge in tempo reale, e non avendo altri appigli narrativi se non il qui e ora, era fondamentale fotografare nel miglior modo possibile la vita e le psicologie di tutti in modo chiaro. Quindi sì, sui tre personaggi femminili, il mio personale contributo emotivo posso dire che è stato particolarmente intenso (tre divorzi – peraltro fortunatamente molto morbidi – alle spalle, a qualcosa saranno serviti, no? Ovviamente scherzo, ma che l’argomento matrimonio sia nelle mie corde, è un fatto…).

Addentriamoci nel processo di scrittura. Di chi è l’idea e come si è formato il team.

Nel momento in cui si è formato il team, Paolo Genovese aveva da pochissimo iniziato a lavorare a un altro soggetto insieme agli altri tre ‘maschi’ del gruppo. Ma nel frattempo, in seguito a uno spiacevole ‘incidente’ capitato a una coppia di suoi amici a causa di un cellulare incustodito, nella sua testa si stava facendo strada ed è diventata sempre più urgente, la voglia di scrivere un film sulla vita segreta delle persone. Ha così messo da parte per il momento l’altro soggetto proponendo ai tre sceneggiatori di lavorare su questa nuova idea. Ed è stato lì che sono entrata in gioco anch’io. Per il tipo di materia da trattare, una voce e un punto di vista femminili potevano ‘servire’. Paolo mi conosce bene, avevamo già lavorato insieme in Tutta colpa di Freud, e stavamo lavorando di nuovo insieme, con Giovanna Guidoni, alle 8 puntate di Immaturi la serie. Tutto questo sempre con la Lotus di Marco Belardi, produttore appassionato con cui mi sono trovata e mi trovo molto bene, ‘padre’ anche di Perfetti sconosciuti. Il mio sì è stato, com’è facile immaginare, immediato ed entusiasta. Non solo mi ha intrigato da subito l’idea del film che Paolo voleva realizzare, ma il fatto di essere l’unica ‘femmina’ del gruppo, beh era un’opportunità da non perdere per nessun motivo al mondo. Lavorare con loro quattro è stato molto divertente, stimolante, e lo rifarei domani.

Genovese è regista ma anche sceneggiatore. Ci racconti come funziona lavorare con lui? Voi vi considerate tecnici al suo servizio o il rapporto è paritario?

Qui posso rispondere soprattutto per me. Come ho detto prima, conoscevo già molto bene il suo modo di lavorare come sceneggiatore. Ed è un modo che mi è subito piaciuto molto. Entrare nel suo mondo non mi ha richiesto alcuna fatica, anzi è stato da subito molto produttivo. Tutti e due amiamo profondamente un certo tipo di commedia, e tutti e due abbiamo un approccio molto agile con la scrittura. Amiamo entrare dentro le storie e i personaggi approfondendone ogni minimo aspetto ma sempre e costantemente accompagnati da una buona dose di ironia e autoironia. Questo ci ha consentito e ci consente non solo di capirci al volo ma, per quanto riguarda me, di fidarmi moltissimo delle sue scelte. Se a Paolo una cosa non convince, la difendo quel tanto che basta a essere certa che toglierla sia la cosa migliore per il film, ma da quando lavoro con lui non ho mai provato quella sensazione di frustrazione – che tutti noi conosciamo bene – nel non venire compresa nelle mie ragioni. Paolo è anche un regista e più di me ha una visione molto precisa della trasformazione in fotogrammi di una scena scritta. Lo facciamo naturalmente anche noi sceneggiatori, mentre scriviamo. La differenza è che noi… intravediamo, Paolo vede. Nella scrittura a 5 di Perfetti sconosciuti è stato naturale per tutti fidarsi e affidarsi a lui per comporre la stesura finale. Il materiale che avevamo prodotto era davvero tantissimo. Ed era un materiale inconsueto, vista la particolarità del film. Non si trattava di un normale copione diviso in Scena 1, Scena 2, e via dicendo. Ma di un’unica lunghissima scena scandita al suo interno dalle varie telefonate, messaggi, mail calcolate e ragionate una per una nel loro succedersi, e in crescendo, come fosse uno spartito musicale. Quindi, tornando alla domanda, non parlerei di tecnici al suo servizio, ma di 5 ‘strumenti’ nelle mani di un ottimo direttore d’orchestra…

Correggimi se sbaglio: tu nasci in teatro, come attrice, ma ti formi e cresci, come sceneggiatrice, soprattutto in tv, nella lunga serialità. Sei stata parte di tante avventure, da La Squadra fino ad Agrodolce. Quanto e come ti sono servite l’esperienza e la competenza acquistate in queste produzioni?

Moltissimo. Ma proprio moltissimo. I paletti produttivi, l’indispensabile capacità di lavorare in tempi molto stretti e la dimestichezza nel fronteggiare qualsiasi tipo di imprevisto, non solo ti consentono di affrontare qualsiasi tipo di difficoltà senza mai entrare nel panico… ma ti abituano a lavorare e a confrontarti con teste diverse, a tenere conto e a rispettare l’opinione di tutti, a non chiudersi e arroccarsi nel ruolo dell’autore che si prende troppo sul serio… Inoltre la lunga serie ti dà l’opportunità di misurarti con quella larga fetta di pubblico televisivo che non perdona… Per cui per far ‘passare’ un qualsiasi contenuto che tu come autore ‘senti’ essere fondamentale, indispensabile e imprescindibile, e se per caso gli ascolti ti dicono il contrario, certo, puoi sempre dirti ‘non hanno capito’, ‘non sono pronti’… ma fermarsi un attimo di più ad analizzare il perché quel passaggio fondamentale non sia stato recepito, può farti scoprire modi, strade e registri inesplorati nella scrittura.

I cineasti sono sempre un po’ snobettini con chi ha fatto la soap? Voglio la verità, e pure un tuo commento. Onesto.

I cineasti più ‘antichi’, sì. I cineasti più giovani, fortunatamente, no. I produttori antichi e/o giovani, invece, apprezzano molto il tuo passato nelle soap… È difficile che uno scrittore di soap scriva in una sceneggiatura di un film, e non di fantascienza: Scena 1. Roma, Piazza del Popolo. Est. notte. Tre dischi volanti atterrano mentre la città ancora dorme. E questo è molto ma molto apprezzato…

Quando ci siamo sentite, pur al volo, nei giorni del vostro esordio in sala, mi hai scritto che mai come in questa occasione voi sceneggiatori siete stati gratificati in pubblico, perché siete stati nominati e chiamati a parlare un po’ dovunque. Raccontami bene questa bella esperienza… Secondo te come mai, finalmente, è successa? Per far salire gli sceneggiatori di Lo chiamavano Jeeg Robot sul red carpet della Festa di Roma, lo scorso ottobre, come WGI abbiamo dovuto lottare: dici che è servito, che un po’ gli uffici stampa hanno imparato?

Mi piacerebbe dirti che sia per quello, ma temo non sia così. Quello che è accaduto è che già alla conferenza stampa successiva alla proiezione c’è stato l’applauso per noi sceneggiatori, e che tutti i giornalisti intervenuti hanno parlato e fatto riferimenti continui alla sceneggiatura. Da lì in poi, in ogni articolo che è uscito, in ogni incontro, invito, in ogni occasione pubblica insomma, il riferimento alla sceneggiatura è sempre stato molto protagonista. E sì, come ti dicevo per telefono, è una sensazione veramente rara da provare. Ancora oggi, a distanza di più di un mese dall’uscita del film, riceviamo tutti un mucchio di complimenti. Ma soprattutto, la cosa che più mi ha sorpreso e continua a sorprendermi piacevolmente, è la voglia di parlare, del film. Non solo fare i complimenti, proprio parlare, di Perfetti sconosciuti. Confrontarsi sul tema, descrivere le sensazioni provate, addirittura ringraziarci per averlo scritto. Mi sono interrogata a lungo sul perché il film abbia generato tutto questo portato emotivo, oltre che ad essere apprezzato. E la risposta che mi sono data è che oltre ad aver azzeccato il tema, grazie all’intuizione di Paolo, il rigore creativo che ognuno di noi ha messo in gioco nel film senza affidarsi al solo mestiere della commedia ma rischiando qualcosa in più, ha prodotto una materia umana credibile, riconoscibile. Ai nostri 7 personaggi abbiamo voluto un bene dell’anima anche e nonostante i loro scheletri nell’armadio. La loro fragilità è in un certo senso la nostra e di tutti. È un film amaro, a tratti cinico, ma mai disumano. Penso sia qui la sua forza. Penso sia per questo che il pubblico lo ‘sente’ così tanto.

Il successo del film ha cambiato qualcosa nel tuo “valore di mercato”? Stai già lavorando ad altri progetti?

Tutto il 2015 e quest’inizio di 2016 sono stati molto molto intensi per me. Tra le 8 puntate di Immaturi la serie (da una settimana sul set ‘in mano’ a Rolando Ravello che ne cura la regia) e Perfetti Sconosciuti, ho vissuto praticamente inchiodata al pc. Ovvero la cosa che più mi piace fare al mondo. Confesso che al momento prendermi una pausa anche piccola, dalla tastiera, non mi dispiacerebbe. Però sì, qualcosa è effettivamente cambiato. Al momento mi è stata offerta una ‘cosa’ sulla quale per scaramanzia taccio, ma che se va in porto, beh, è abbastanza pazzesca…

…allora non approfondisco e incrocio le dita per te. L’ultima domanda, Paola, è su noi della WGI. Facciamo queste interviste per restituire agli sceneggiatori la centralità che meritano nel sistema dell’audiovisivo. Ormai ci siamo conquistati il titolo – come sito – di osservatorio sulle sceneggiature, gli intervistati sono contenti, però ancora non si riesce a fare del tutto sistema. Cosa ci suggerisci? Come possiamo superare la tendenza congenita all’isolazionismo degli sceneggiatori italiani?

E questa è la domanda più spinosa… Perché nella tendenza all’isolazionismo, ahimè, un po’ mi ci metto anch’io. Seguo dalla sua nascita tutto quello che state facendo voi della WGI e lo apprezzo molto. Più che dare un suggerimento (di cui peraltro non avete bisogno perché quello che già fate è tantissimo e funziona e ha riscontri più che positivi) provo a dare un piccolo spunto partendo dalla mia biografia. Quando facevo l’attrice, mi sono battuta per anni, e con entusiasmo, nel sindacato attori. C’era da fare tantissimo, e insieme ai miei colleghi dell’epoca era quasi più il tempo che passavamo al sindacato che in teatro. Ma quasi niente è cambiato. Il sistema, anche lì, è rimasto lo stesso. Poi quando nel 2000 ho cominciato a lavorare come sceneggiatrice, mi sono iscritta quasi subito alla Sact, e successivamente anche ai 100 autori. Ho partecipato a molte riunioni, iniziative, ho dato il mio contributo per come ho potuto. Tavoli con la Rai, promesse di cambiamento, centralità dell’autore… Poi però è iniziata la crisi generale che ha messo (e sta mettendo) in mutande il nostro Paese, e che ha devastato anche la nostra categoria. Poco lavoro, quel poco in mano ai soliti nomi, scintille di ripresa zero, insomma una desolazione totale. E mi sono tirata fuori da tutto. Per sfiducia, per stanchezza, forse per rassegnazione. Magari c’entra l’età, sto per compiere 53 anni e ho cominciato a lottare quando ne avevo 23… e di cambiamenti in generale ne ho visti veramente pochi. Ecco. Come si fa a cambiare la testa di un soggetto come me? Rimando la palla a voi… A parte gli scherzi, l’isolazionismo è una brutta bestia che prometto io per prima di provare a combattere… Però grazie, grazie davvero tanto a voi della WGI e a quello che con impegno e passione avete già fatto, fate e farete, nonostante pessimi soggetti come me…

Grazie mille, Paola, e in bocca al lupo per il tuo lavoro!

L’intervista è a cura di Fabrizia Midulla

WGI – Writers Guild Italia incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere al Tribeca Film Festival 13-24 Aprile 2016

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