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Banat

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.
Ezio Abbate ha scritto con il regista Adriano Valerio la sceneggiatura di Banat. Il film, unico italiano in concorso all’interno della rassegna Settimana Internazionale della Critica, verrà presentato a Venezia, oggi, 4 settembre alle 14 nella Sala Perla.

Ciao, Ezio, come ci descriveresti il tuo film? Qual è il cuore del racconto, il tema principale?

Lei ha appena perso un fidanzato, un lavoro e un cane, tutto in un giorno, lui non ha niente da troppo tempo e ha appena trovato un lavoro 1453 km lontano da casa. I due ragazzi si conoscono proprio in quel momento e sono dolcemente condannati ad innamorarsi di un amore che sembra impossibile. Tutti e due i personaggi hanno trent’anni e vengono dal Sud, Bari per la precisione, anche se poi nessuno dei due è barese. I temi sono, quindi, sin da subito chiari: una storia d’amore e di gioventù al tempo della libera circolazione delle cose e delle persone.

Come è nato il progetto? E in che modo si è sviluppato?

Un soggetto di cinque anni fa, scritto dal regista, Adriano Valerio e una sua amica scrittrice, Miriam Dubini. Nasce tutto da lì. Conosco Adriano ad un festival ed è la prima cosa su cui cominciamo a lavorare. Ma quasi per conoscerci, senza pensare a tutta la strada che poi il copione avrebbe inaspettatamente cominciato a macinare. Del tipo che alcuni produttori italiani lo hanno letto e lo hanno voluto opzionare, e poi, come nella strada dei Musicanti di Brema, si sono andati lentamente ad aggiungere Rai Cinema, Mibact, Media, i co-produttori romeni, quelli macedoni, quelli bulgari. E alla fine di questo inaspettato viaggio durato 5 anni, proprio sul più bello, il film si è fermato ad un passo dal baratro. Siamo a gennaio 2015 e abbiamo appena ricevuto una risposta negativa dal fondo Eurimages. Il film può cadere giù oppure può andare sul set. Coraggio e competenza dei produttori, un po’ di incoscienza e oggi venerdì 4 settembre il film verrà proiettato alle 14 nella Sala Perla del festival di Venezia.

Come ti sei trovato a lavorare con il regista? Pensi che una stretta collaborazione tra scrittore e regista sia fondamentale per realizzare un buon film?

Adriano firma la sceneggiatura perché l’ha scritta tanto quanto me, e intendo sia per qualità che quantità. Questo vuol dire che ha una sensibilità, una competenza e un piacere per la scrittura che non ho visto spesso nei registi. All’inizio eravamo due sceneggiatori puri. C’eravamo solo io e lui a prenderci sul serio, poi le cose lentamente sono cambiate. Sia per la sua carriera che per la mia. E Banat era sempre lì sul desktop che faceva un passo avanti. Poi dopo Cannes e il David, tutto è diventato più facile. Più il copione si avvicinava al set, più i nostri ruoli sono tornati diciamo alla normalità. Ma non abbiamo mai smesso di parlarci. Per dire, io e Adriano abbiamo fatto insieme i sopralluoghi e non è così scontato visto che è stato un viaggio nell’Europa dell’Est e visto il budget risicato, abbiamo scelto gli attori insieme, soprattutto nei classici momenti delle defezioni, e poi sono stato coinvolto nel montaggio dal primo all’ultimo draft, e anche sulle scelte estetiche di locandina, titoli e grafica.

Cosa pensi che un regista dovrebbe imparare da uno sceneggiatore e cosa uno sceneggiatore dal regista?

In rigoroso ordine di banalità, dico che lo sceneggiatore dovrebbe imparare che deve esserci sempre uno scontro tra la fantasia del copione e la realtà del set, e che il regista dovrebbe imparare che la realtà del set non può dimenticarsi della fantasia del copione. Complessivamente, corriamo tutti lo stesso grande rischio e cioè che le idee possano restare nella penna o nella macchina da presa.

Scrivere con il regista influenza anche la tua tipologia di scrittura? Tendi ad essere maggiormente dettagliato circa le idee di inquadratura o le tecniche di ripresa vengono tenute fuori dal tuo lavoro di scrittura?

Non avevo mai neanche pensato di poter scrivere un copione di 63 pagine e con Adriano invece questo è successo. Ed è stata una specie di liberazione. Perché come si fa col polpo, ho completamente rivoltato il cervello. Va bene l’uso dell’ellissi narrativa, ma un copione di 63 pagine sembra più un’eclissi che un’ellissi. E infatti abbiamo volontariamente eclissato la quasi totalità delle informazioni di cui era fatta la storia, lasciando vedere solo quelle veramente vitali e intravedere le altre, cercando di riprodurre lo stato d’animo spaesato dei protagonisti nella testa dello spettatore. Abbiamo sicuramente corso il rischio di rimanere spaesati anche noi. Ma è bello correre rischi.

Quanti cambiamenti, se ce ne sono stati, avete apportato durante le riprese rispetto all’ultima stesura della sceneggiatura? Ce ne parli?

Quando abbiamo avuto la green light per il film, il copione ha cominciato un viaggio di riscrittura che è durato mesi al termine del quale è diventato un vero shooting script. Per amore di sintesi, diciamo che più che una riscrittura è stata una dieta. Il copione è partito da una lunghezza standard di 103 pagine e alla fine, a tre giorni dall’inizio delle riprese, se ne contavano solo 63. I tipi della copisteria dove stampavo i draft erano imbarazzati, gettati in un limbo straziante, non sapevano se farmi lo sconto che fanno di solito quando hai tante pagine oppure no.

Sei stato presente sul set? Pensi che lo sceneggiatore dovrebbe sempre esserci durante le riprese?

I giorni di riprese sono stati 27, partendo dalla Romania e proseguendo in Macedonia, Bulgaria, Grecia, ferry boat e Bari. Io sono stato con loro nei giorni bollenti in cui si è chiuso il set macedone e si è cominciata la discesa verso la Puglia. Ho messo piede nel San Nicola di Bari e poi me ne sono tornato a casa. Ne è valsa la pena, e parlo da tutti e due i punti di vista, il mio e quello del film. Arrivi sul set e nonostante l’ospitalità, ti senti comunque un estraneo, perché lo sceneggiatore nasce lontano dagli amori e dalle guerre quotidiane del set. Al produttore italiano – Mario Mazzarotto – che mi ha accolto sul set col sorriso e col gelo meno 10, ho detto con cinismo Qui siete tutti miei impiegati! Ha riso, mi ha dato ragione, tutto comincia dallo script, mi ha detto, soprattutto il flusso di soldi, poi mi ha portato al banchetto del tè caldo e mi ha dato una sedia nella fanga e mi ha detto di guardarla, la fanga: Tiracene fuori, mi ha detto severo. C’era tutta una sequenza da rimettere a punto per i giorni seguenti. Ecco, in questi casi e anche quando si prepara la scena e ci si avvicina al ciak, senti lucidamente che nessuno meglio di te conosce quella materia, la fanga intendo, neanche il regista che la sta facendo diventare reale. Perché è così.

Parlando delle tue idee originali, come nascono di solito i suoi soggetti? Da una premessa narrativa intrigante? Dal mondo del racconto? O dai personaggi?

Da tutto tranne che da quel gigantesco equivoco chiamato ispirazione. Detto questo, la mia fantasia funziona molto poco con le premesse narrative high-concept.

Non so perché, ma si accende sempre , invece, con dei dettagli insignificanti, diciamo apparentemente insignificanti perché poi si rivelano determinanti. Per fare un esempio, Jihadi John, il tagliagole inglese dell’Isis: qualche anno prima di indossare la tunica nera e il coltellaccio, era un timido adolescente al college che una volta s’era sentito dire da una ragazza con cui ci stava provando che aveva l’alito cattivo. Pare che da quella umiliazione, l’alito sia diventato una sua fissazione e che la sua timidezza sia diventata una porta chiusa a tre mandate. Poi ad un certo punto, purtroppo, è uscito.

Come funzioni? Quali sono le tue abitudini quando scrivi?

Curiosamente sono le stesse di quando studiavo e che avevano portato un mio co-inquilino di Monopoli a teorizzarle al posto mio: funny studying. Praticamente studiavo tanto e forte, una cosa da topo di biblioteca ma senza la biblioteca, dentro contesti dove accanto a me c’erano persone che si stavano divertendo, godendosi la vita al posto mio, tipo al bar o accanto agli amici che fondevano la Playstation. Quindi oggi scrivo dappertutto, soprattutto dove c’è mia figlia Daria e il meraviglioso caos che si trascina dietro, e poi la musica a tutto volume, tanta musica, ininterrotta, la tv accesa, dodici pagine internet aperte sotto final draft, riviste e giornali con gli articoli che devo leggere in bella vista, palletta per il canestrino e palletta per la porta indoor della Mondo, dvd impilati che secondo Francesca, la mia compagna, non vedrò mai e certo, Transmission che va a 900K per il binge watching serale di coppia, quando finalmente ci sarà silenzio.

Oltre a scrivere per il cinema, lavori in pianta più stabile per la televisione. Quali sono le differenze? Ti senti di avere la stessa libertà creativa anche quando le linee guida arrivano dall’alto? Come cambia l’approccio alla materia narrativa quando l’idea non è tua ma scrivi su commissione?

Le differenze tra scrivere per il cinema e la tv? Una sola direi. Quando scrivi per il cinema, devi dar retta a tutti quelli che ti stanno intorno mentre ti dicono che fare un film è un sogno. Quando scrivi per la tv, dar retta a tutti quelli che ti dicono che scrivere 12 episodi in 5 mesi è un bisogno. Quanto allo scrivere su commissione, diciamo che con il mio gruppo di scrittura negli ultimi tre anni abbiamo scritto due concept e due piloti on spec e siamo riusciti a trovare un produttore in tutti i casi. Ma è l’eccezione, non la regola. E la regola rischia seriamente di atrofizzare la fantasia degli sceneggiatori. Quante sono le serie mondiali di prima fascia che sono nate da un libero pitch? Rispondo io: quasi tutte.

Sei quello che viene considerato un giovane sceneggiatore, quale pensi che sia il contributo che la tua generazione può dare alla scrittura di film e serie tv? E cosa invece apprendere dai colleghi più maturi? Pensi sia necessario uno “svecchiamento” creativo in Italia?

Ho avuto un brutto rapporto con i cosiddetti maestri, perché ho cominciato con dei maestri pessimi che mi hanno portato a rivendicare una contrapposizione netta tra vecchia e nuova generazione, una cosa da bava alla bocca. Poi per fortuna ne ho incontrato uno bravo, di maestro, e questa persona mi sta mettendo in crisi ogni giorno, perché continua a farmi capire che posso imparare tanto da lui soltanto se anche lui impara qualcosa da me. A parte lui, i modelli narrativi contemporanei – la serialità ormai mescolata al cinema ormai mescolato ai fumetti ormai mescolati ai videogame ormai mescolati alla parola device – non sono più alla portata di tutti e quindi penso che la generazione di sceneggiatori italiani dai 53 anni in su debba essere deportata in blocco in un padiglione della Holden di Torino e chiusa in un openspace con camino – il cannibalismo è sempre una opzione – a scrivere favole tristi per bambini tristi che finiscono sempre con la solita morale: le storie si ripetono uguali dalla preistoria e gli archetipi e i miti greci sono il nostro dna e noi abbiamo fatto il Cinema degli Autori e pure il Centro Sperimentale.

In TV spesso si lavora in gruppi di scrittura. Cosa ti piace di più dello scrivere con altri? Quali sono i pro e i contro?

Visto che il mio sogno era di fare il musicista, la cosa che mi piace di più dello scrivere in un gruppo è poter far finta di essere un gruppo, una band che come tale si regge sui talenti e sui difetti dei componenti ognuno diverso dall’altro, il songwriter, l’arrangiatore, il bassista, il batterista che picchia sulle pelli e poi scopa dopo i concerti, tutto questo micromondo messo insieme per un pezzo che dura 90 o 12×50 minuti.

Sei uno dei soci fondatori della WGI. In Italia la categoria degli sceneggiatori non è molto protetta e riconosciuta, siamo molto indietro rispetto agli altri Paesi Occidentali. Colmare questo gap è difficile e richiederà anni, forse decenni. Quali pensi siano le battaglie più urgenti su cui concentrarsi per la tutela dei diritti degli scrittori in Italia?

Pregare Dio – anche chi non ci crede come me – che nel nostro panorama possa spuntare fuori dal nulla uno sceneggiatore che sappia essere bello, bravo, intelligente, stimato, invidiato, invitato dappertutto, chiacchierato, pure sulle copertine dei giornali e che soprattutto sappia restarci sulla cresta dell’onda, sfruttare il lato pop della fama e permettere a tutti noi di non dover dire o pensare che senza il peso di un regista, le nostre battaglie valgono niente. Significherebbe risolvere il grande equivoco della categoria: la separazione tra WGI e Centoautori.

E poi, in coda, vorrei dire una cosa, che c’entra poco con le rivendicazioni sindacali ma molto con noi. Dovremmo pretendere, con passione e fermezza, maggiori investimenti nella formazione degli editor, spingere produttori e broadcasters a curare con attenzione la nuova generazione di editor per formare professionisti sempre più competenti e che sappiano amare un lavoro molto difficile ma fondamentale che consiste, semplice semplice, nello spingere scrittore e scrittura ad essere sempre migliori.

L’intervista è a cura di Riccardo Degni

Scrittori a Venezia – Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 72. Mostra internazionale d’Arte Cinematografica (2-12 settembre 2015).
Le foto dei film sono state messe cortesemente a disposizione della stampa dal sito della Mostra biennale.org e dal sito di Istituto Luce – Cinecittà filmitalia.org. a cui vanno i  nostri ringraziamenti.
Le foto degli sceneggiatori sono invece di loro proprietà: grazie anche a loro.

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