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Crushed Lives – Il sesso dopo i figli

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.

Silvia Cossu ha scritto con Alessandro Colizzi, che lo ha anche diretto, Crushed Lives – il sesso dopo i figli. Il film è in concorso al RIFF nella sezione National feature film competition e verrà presentato stasera, 12 maggio 2015, al The Space Moderno alle 22:30, con replica domani al Nuovo Aquila alle 16:30.

 

Ciao, Silvia, cominciamo con un pitch di te: scrittrice di romanzi e sceneggiatrice. Storicamente quale mestiere è venuto prima, come hai cominciato?

Ho cominciato scrivendo un romanzo: La vergogna (Marsilio Editori), poi l’ho sceneggiato insieme ad Alessandro Colizzi, che ne ha tratto un film: L’ospite.

Parliamo di Crushed lives – Il sesso dopo i figli. Facci un breve pitch del film, vendicelo. Perché dovremmo andare a vederlo?

Perché racconta i quaranta/cinquantenni di oggi e il loro complicato rapporto col sesso (soprattutto dopo l’arrivo di un figlio), affrontando un aspetto fondamentale della vita di coppia che, di solito, nelle sue declinazioni più intime e nascoste, rimane del tutto taciuto. E lo fa in modo diretto, non convenzionale, dissacrante e inaspettato. Si ride moltissimo assistendo alle sventure in cui inciampano i protagonisti e che appartengono a tutti. Si ride ascoltandoli parlare di sè e verificando come poi la realtà li smentisca. Alla fine ha un effetto liberatorio. Su Minima & Moralia Gaia Manzini ha scritto un bell’articolo su questo.

Con il tuo compagno, Alessandro Colizzi, avete fondato la Film Daedalus con cui avete prodotto film e documentari, scritti, diretti e realizzati da voi. Una intera filiera in casa… Perché? Voglia di indipendenza, troppi rifiuti… Che è successo?

E’ difficile rintracciare una sola ragione. Voglia di indipendenza certamente, un po’ è anche stato il caso. Una volta ottenuti i finanziamenti, guidare la parte produttiva ci è sembrata una garanzia per controllare il risultato artistico dei film. Poi c’è anche stato qualche rifiuto, e in questo caso l’autoproduzione è diventata una scelta necessaria.

Come funziona il vostro rapporto di condivisione del progetto? Chi comincia cosa? Chi prevale quando? Chi mette la parola fine allo script?

Anche qui non c’è una regola. Talvolta l’idea di partenza è mia, altre volte di Alessandro. Non c’è uno dei due che metta la parola fine. C’è invece spesso una lotta per smollare all’altro la soluzione dei problemi di sceneggiatura più rognosi. L’idea (geniale) che non arriva, di cui si è a caccia da giorni, a volte da mesi.

I vostri film precedenti, L’ospite e Fino a farti male, hanno avuto una lunga storia sulla carta, sono nati prima come romanzi… Mentre scrivevi i libri, già pensavi al film o sono state fasi differenti, isolate?

Dietro L’ospite c’era il mio primo romanzo La vergogna. E all’epoca in cui l’ho scritto, non sospettavo affatto di poterne trarre un giorno la sceneggiatura. Al contrario nel caso de L’abbraccio (Marsilio Editori), il romanzo è venuto fuori dopo la realizzazione del film Fino a farti male. L’idea è nata proprio da una parte del materiale inutilizzato di sceneggiatura – si trattava del diario di uno dei personaggi – di cui mi piaceva la voce, mi ispirava moltissimo. Aveva una dimensione così intima che non volevo lasciare.

Anche Il sesso dopo i figli è stato preceduto da un libro, ma stavolta si tratta di un saggio. È stato più difficile arrivare a costruire il plot?

Il sesso dopo i figli non è propriamente un saggio, ma una parodia di tutti quei manuali che in sette mosse ti spiegano come svoltare la tua vita, trovare l’anima gemella, conquistare l’armonia, diventare più figo, più ricco, più muscoloso, e via dicendo… In questo caso abbiamo scritto il libro a due mani, pensando da subito al film che ne sarebbe venuto fuori. Il plot in realtà segue fedelmente la progressione dei capitoli del libro, quella parabola discendente che va dall’idillio iniziale, fino agli abissi di frustrazione (sessuale!) della finesalvo (salvifici) esiti imprevisti.

Film pensosi, sofferti, che scavano nella psicologia e nel dolore e poi, apparentemente all’improvviso, una commedia. Perché? A che cosa è dovuto questo salto di genere?

E’ vero, i primi due film sono molto lontani da questo. Erano cerebrali, freddi, psicologici. A me il salto inaspettato verso la commedia ha divertito moltissimo. Soprattutto penso che da quest’inversione ne abbiano tratto vantaggio i personaggi, che qui sono più umani, più simpatici, a tratti esilaranti. E questo è merito anche del gruppo straordinario di attori che vi hanno recitato: Walter Leonardi, Nicoletta Romanoff, Bob Messini, Euridice Axen, Jacopo Cullin, Melissa Bartolini, Leonardo Sbragia, Paola Migneco, Alberto Basaluzzo, Caterina Capodilista, Carmen Giardina, Chiara Martegiani e Cesare Apolito.

I tuoi/vostri film sono stati realizzati con il contributo del Ministero, hanno girato molti festival, ma sono stati distribuiti poco nelle sale. Che ne pensi da produttrice?  C’è un errore nel meccanismo statale (ad esempio non si dovrebbero dare contributi senza assicurarsi una distribuzione), oppure al contrario l’intoppo è nella divaricazione tra gli autori e il pubblico, non si conoscono, non si appartengono più abbastanza?

Non credo che i grandi problemi legati alla distribuzione oggi dipendano solo dalla divaricazione tra autori e pubblico, tutt’altro. In circolazione ci sono film ottimi che, andandolo a cercare, un loro pubblico lo troverebbero. E’ la fruizione in sala che ha subito negli ultimi cinque anni una flessione imponente, a favore di altre forme di fruizione. C’è però in questo una corresponsabilità da parte dei produttori (e dei distributori) che nel nostro paese continuano a proporre storie che si somigliano tutte, con cast sempre uguali, situazioni e modelli narrativi talmente sovrapponibili da non riuscire più veramente a distinguere un film dall’altro. E poi questo buonismo che annacqua la realtà, il “politicamente corretto” che è tanto stucchevole quanto falso, di facciata.

Torniamo sulla filiera casalinga, lo scrittore che propone il soggetto al produttore, il produttore che chiede modifiche, il regista che deve realizzare il prodotto… Dall’esterno sembra un processo rischioso, soffocante… Ti è mai mancato il confronto esterno, un’apertura ad una macchina industriale più ampia?

Crushed lives – il sesso dopo i figli è un progetto che anni fa avrebbe dovuto essere realizzato con un  budget importante e un produttore forte, un “esterno” per capirci. Saltò alla firma del contratto per la sostituzione del dirigente che lo aveva voluto, e con quel tipo di impianto produttivo non si è più riusciti a recuperarlo. Ma in effetti per due anni abbiamo lavorato e scritto confrontandoci continuamente con interlocutori espressione della macchina industriale di cui parli. (Ed è stato utile.)

Avete prodotto solo film e documentari. Continuerete su questa strada o nel futuro vedi anche una fiction tv o una webseries?

Mi piacerebbe provare a scrivere una fiction tv. Abbiamo un paio di idee che mi piacerebbe sviluppare nella direzione della serialità, ma che non immaginiamo per ora di produrre in proprio.

La WGI è un sindacato di sceneggiatori e guardiamo con molta attenzione alla categoria nel suo insieme. Da una parte sembra che le nuove tecnologie spingano sul tuo esempio a diventare anche produttori, dall’altra sembra che l’Italia debba restare ancora per molti anni ancorata a modelli produttivi tradizionali. Tu che ne pensi?

In Italia lo sceneggiatore o il regista che rivesta il ruolo di produttore (a meno che non sia già famoso) è guardato con diffidenza, con sospetto. Il pregiudizio che c’è dietro è che la sua idea non sia abbastanza forte (o valida) da suscitare l’interesse di un produttore vero. Negli Stati Uniti, dove siamo stati due volte nell’ultimo mese e mezzo, in concorso con Crushed Lives al Cinequest International Film Festival, al Los Angeles Comedy Festival, e al WorldFest – Houston, dove il film ha vinto il Gold Remi per la commedia, ho avuto modo di verificare quanto sia frequente negli Usa la coincidenza dei ruoli di sceneggiatore e produttore, o di regista e produttore. Tanto da sembrare, nel panorama della produzione indipendente, quasi la norma. Il che dà da pensare.

Pensiamoci. Grazie e in bocca al lupo.

L’intervista è a cura di Giovanna Koch

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