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Greenland Melting

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.
Nonny De la Peña ha scritto e diretto il documentario Greenland Melting, realizzato in realtà virtuale e presentato alla recente Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezianella sezione VR.
Trovate la versione in inglese QUI: Intervista De la Pena

La nostra prima domanda è, ormai, di rito: ci può presentare il suo lavoro in un breve pitch?

Sto presentando questo lavoro, intitolato Greenland Melting (“la Groenlandia che si scioglie”, ndR), ovvero un documentario che tratta dell’argomento più ambizioso con il quale mi sia mai dovuta confrontare, ovvero quello del cambiamento climatico. È un lavoro davvero importante, che richiede tanta responsabilità, anche perché ha il compito di andare oltre quell’aspetto “mistificatorio” della scienza, permettendo allo spettatore di vedere cosa vede lo scienziato stesso: possono vedere le strumentazioni, come viene svolto il lavoro, possono vedere le navi, i computer, e credo che tutto questo sia fondamentale per capire come funzionano quelle ricerche.

Che tipo di approccio ha seguito nel cercare di mettere insieme due mondi come quello dell’ambiente e quello della realtà virtuale?

Una delle cose di cui voglio parlare è proprio “cosa vuol dire avere un’esperienza corporea”? Non parliamo di una storia vissuta attraverso gli occhi, all’interno di una cornice; il tuo corpo ti segue. Nel mio caso, avevo bisogno di un’esperienza corporea per capire meglio questo tipo di storia, che è grande. Avevo lavorato su altri progetti che trattavano di carestia e di violenza domestica. In tutti questi ho avuto la possibilità di catturare le persone, farle entrare nella stanza dove la storia si stava svolgendo e fargliela percepire.

Farli empatizzare con quello che succede.

Esatto. Una persona mi disse, sul progetto, a proposito della violenza domestica: “Wow! Non ero mai stato in una stanza con qualcuno che fosse armato!”.

E quella era un altro tipo di storia. Adesso cerco di mostrarne una più grande, qualcosa che va oltre il singolo individuo. E dunque, come ti poni di fronte a tutto ciò, come lo affronti con l’uso del tuo corpo? Ed è riflettendo su questo che ho immaginato di poter portare le persone sui ghiacciai, di modo da far comprendere meglio come è chiaramente visibile il loro scioglimento e far percepire l’enormità della questione. Cerchiamo sempre di immaginare lo scioglimento dei ghiacciai in base a ciò che accade in superficie, inoltre, ma che cosa sappiamo di quel che accade al di sotto della superficie dell’acqua? È ancora più importante saperlo. Ma è altrettanto importante che tu sia a fianco degli scienziati per prenderne coscienza, mentre portano avanti i loro studi, e capire così anche quanto sia importante quello che fanno.

Parlaci della tua esperienza con la realtà virtuale.

Faccio realtà virtuale da dieci anni. Il mio primo lavoro presentato in un festival risale al gennaio del 2012. E ho pure cominciato a costruirmi da sola i visori, con la stampante 3D, perché volevo avere la possibilità che fossero mobili, per portarli con me mentre cammino. Fino a due anni fa mi sono chiusa nel garage di mia madre a fare visori con la stampante 3D, e con tutto l’equipaggiamento necessario: avevo un sistema di tracciamento dei movimenti da 100.000 $. Insomma, ho avuto parecchio a che fare con la realtà virtuale. Soprattutto se si considera da quanto poco sia diffusa. Ma venire qua e scoprire che sia accettata come una forma d’arte è davvero eccitante. All’inizio della mia carriera venivo vista come una criminale. “Giornalismo in realtà virtuale?” Mi dicevano che non potevo farlo, che non avrebbe mai funzionato. Ho perfino perso il mio lavoro di ricercatrice per colpa di questo.

Be’, stai avendo la tua rivincita, adesso.

È fantastico, sì. Adesso ho dei collaboratori, siamo al nostro terzo lavoro commissionato da Google… È davvero emozionante.

In quanto Writers Guild, siamo interessati all’aspetto di scrittura relativo al tuo lavoro. Che metodo hai usato per immaginare e scrivere ciò che avresti poi tradotto in immagini per la realtà virtuale? Hai incontrato delle difficoltà nel farlo?

Sai, io sono un membro della Writers Guild a Los Angeles. Ho lavorato come scrittrice di opere di finzione, ma non ero felice e decisi di tornare al documentario. Comunque sia, ho incontrato diverse difficoltà nella realizzazione di questo lavoro. Avevamo in mente di riprendere certe cose, con la motion capture, ma spesso non venivano bene, o avevamo problemi meteorologici. Insomma, ci eravamo posti diversi obiettivi, all’inizio, ma delle volte ci siamo trovati costretti a rivederli in base a ciò che davvero avevamo la possibilità di filmare. Inoltre, quando lavori pure con gli ologrammi non puoi neppure tagliare i discorsi e montarli, o usare le dissolvenze, e quindi sei costretto a operare su degli interi blocchi narrativi. È un mezzo davvero complicato con cui lavorare. Ma come in tutti questi tipi di lavoro, abbiamo comunque buttato giù uno script, abbiamo fatto delle revisioni e provato via via delle cose diverse.

Quindi avevate degli script ad ampio spettro, aperti a qualsiasi tipo di cambiamento e magari pensati ogni volta attraverso gli occhi di chi vive l’esperienza.

Esatto. Il modo in cui descrivo sempre il processo alle persone è dicendogli: “Chiudi gli occhi; chiudili per un secondo. Adesso percepisci come il tuo corpo si pone nello spazio e comincia da lì”. È questo che devi pensare quando dovrai realizzare una storia che si deve svolgere intorno a una persona. È il corpo a essere lì, non solo la mente. Quindi devi pensare a ciò che il corpo può provare, a come si può porre, e non solo a ciò che possono vedere gli occhi.

La nostra ultima domanda è a proposito dello sviluppo della realtà virtuale, legata al discorso che il direttore del festival ha fatto in apertura, parlando di come queste manifestazioni abbiano anche il compito di far evolvere il mezzo del cinema. Lei, in particolare, come vede la realtà virtuale nel futuro?

Dirò semplicemente che quando la radio è nata, non è che ha fatto scomparire i quotidiani. TV, cinema, abbiamo sempre visto questi media nascere ed essere accettati dalle persone senza che queste dovessero necessariamente abbandonare ciò che era venuto prima di loro. Quindi penso che sia più che legittimo trattare la realtà virtuale con lo stesso peso che si riserva agli altri mezzi che servono lo storytelling. E venire qui e vedere il rispetto con cui questo festival ci tratta, con una dedizione che non ho mai visto prima, su di un’isola come questa… sono cose davvero uniche e mostrano come si inizi a trattare la realtà virtuale come una vera forma d’arte per raccontare le storie.

L’intervista è a cura di Orazio Ciancone e Lorenzo Righi

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