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Nero a metà

Abbiamo incontrato Giampaolo Simi, affermato scrittore noir per E/O e Sellerio, che è creatore insieme a Vittorino Testa della serie “Nero a metà” prodotta da Cattleya e trasmessa in autunno su Rai Uno, di cui verrà realizzata una seconda stagione. Giampaolo ci racconta la sua esperienza di scrittura seriale, con riflessioni sul genere e sulla capacità della fiction di raccontare la realtà. 

Buongiorno Giampaolo e grazie per l’intervista. Intanto complimenti per il grande successo della serie ‘Nero a metà’, siamo molto curiosi di saperne di più. Iniziamo, come da tradizione, con un breve pitch. Potresti condensare per noi il soggetto in poche righe?

Un poliziotto italiano di mezza età, stanco e conservatore, si vede arrivare addosso il futuro nei panni di un giovane collega italiano a tutti gli effetti ma nato in Africa. Accetta la sfida con il collega, ma soprattutto con se stesso. E scopre che per andare incontro al futuro deve fare i conti in sospeso con il proprio passato.

È risaputo che ogni progetto fa storia a sé. Potresti parlarci della genesi di ‘Nero a metà’?

È stato Vittorino Testa a parlarmene, un giorno di otto anni fa. Avevamo scritto insieme una puntata di Crimini per Raidue. Iniziammo a ragionarci sopra e ricordo che pensavamo a una storia ambientata in provincia, cosa che a ben vedere era piuttosto profetica, dato che le serie crime più importanti (da Broadchurch a Happy Valley a True Detective) hanno abbandonato le metropoli.

Sei ormai uno specialista della detection. Puoi parlarci del tuo approccio alla scrittura di genere?

La scrittura di genere a mio parere è innanzitutto solidità nella struttura ed essenzialità nella forma. Io le ho imparate in un tipo di storie che vanno dal giallo classico al noir, ma credo che, quando ti metti a osservare da vicino le cose, anche nella commedia o nelle storie d’amore queste due qualità siano fondamentali.

A differenza dei romanzi, in cui puoi permetterti di spaziare liberamente, in una serie devi confrontarti con tantissime professionalità, ognuna delle quali ha un ruolo nel risultato finale. La posizione dell’autore è delicata perché ogni soggetto è un po’ un figlio. Come si struttura il lavoro in questi casi e quanto è delicato il rapporto tra autori, soggettisti, sceneggiatori, regia, attori, produzione e distribuzione? Come si bilanciano tra loro queste spinte?

Il discorso sarebbe lungo, complesso e non facile. In tutta sincerità, per quanto ho sperimentato, queste spinte non si bilanciano affatto. Chi ha più potere ha l’ultima parola, fine.

Quando finalmente hai visto la serie qual è stata la tua reazione? Quanto il passaggio dalla carta allo schermo ha cambiato le carte in tavola? Ci sono state sorprese in positivo?

Era più o meno come avevo capito che sarebbe stata.

Quanto per te è importante il personaggio e quanto il tema?

Il personaggio è un grande punto di forza per una fiction, perché l’affetto che certi protagonisti generano nel pubblico è una dote preziosissima che può sopperire anche a momenti di stanchezza e di ripetitività. Sul tema invece, mi sento di essere un po’ più cauto. Pensare di scrivere su un argomento rischia di portarci dalle parti di quello che Mamet definisce il “dramma a tesi” in cui la narrazione è asservita a uno schema preesistente, già dato, che la condiziona in maniera innaturale. Personalmente io scrivo per capire meglio, scrivo di ciò su cui ho dubbi, non scrivo perché ritengo di avere delle risposte, ma perché ho trovato delle buone domande.

Con questa serie hai toccato un argomento, quello dell’integrazione culturale, che è al centro del dibattito politico. Focalizzare l’attenzione sull’attualità è sempre stato il punto di forza dei grandi momenti del cinema italiano. Purtroppo oggi l’impressione è che nella narrazione si fatichi ad aggredire la società con il mordente del neorealismo o della commedia; come se fosse in atto una rimozione collettiva del presente e avessimo smarrito la nostra identità. Sei d’accordo?

Come detto sopra, quando Vittorino Testa mi sottopose l’idea, Salvini era ancora intento a prendersela con i terroni. Vittorino aveva intuito che l’integrazione in Italia era diventata parte della quotidianità ed era il tempo di una detection mainstream che ponesse come dato di fatto una società italiana multietnica.  L’idea di entrare a piedi uniti in un dibattito politico era quindi quanto di più lontano da noi. Quello che volevamo era mettere assieme una coppia inedita per il nostro Paese. Il vero tema della serie, che abbiamo poi sviluppato assieme a Francesco Amato, è il pregiudizio e la sua inutilità, del tutto antistorica. Ma il pregiudizio, come dice Clooney in quello splendido film che è “Up in the air”, è una cosa che tutti noi usiamo perché ci fa risparmiare tempo. Ma cos’è in fondo il più grande sforzo continuo per un investigatore, se non quello di rimanere sgombro dai pregiudizi per lasciare spazio alla verità dei fatti? Per il resto, non so se si tratti di una rimozione collettiva del presente. Il neorealismo poteva contare su un’energia vitale, su una voglia di riscatto che oggi sembra perduta, è vero. Ma la commedia aveva buon gioco nel dissacrare il potere, i vincenti o i furbi di ogni strato sociale perché quei potenti, quei vincenti, quei furbi tenevano a dare di sé un’immagine rispettabile, onesta e positiva. Quindi erano vulnerabili nella loro ipocrisia. Oggi no, non solo il re è nudo, ma è decisamente sovrappeso e non ci chiede neppure di far finta che abbia il fisico di un bronzo di Riace.

Hai una puntata o una scena a cui tieni particolarmente?

La scena in cui Malik rischia di annegare nella cantina e rivede il suo arrivo in Italia su un barcone. E poi la puntata finale in cui Malik diventa inviso a tutta la squadra. Penso che anche molti spettatori lo abbiano detestato per quello che stava facendo. Volevamo che fosse così. Detestare qualcuno per quello che fa, non per il colore della pelle o per dove è nato, è il primo passo per abbandonare i pregiudizi.

Pensi che l’avvento dei nuovi canali di streaming abbia cambiato, o cambierà, le dinamiche di produzione?

Le cambierà, è inevitabile, ma senza un indirizzo né un progetto. Almeno in Italia. Rischiamo di diventare un mercato secondario da cui emergono due o tre opere che semplicemente confermano, nel bene o nel male, l’idea che all’estero hanno di noi: un paese pittoresco, in perenne caos, che sta imboccando la strada della paura, del ritorno al passato e dell’isolamento.

Si parla già di una seconda stagione ed oggi è la prassi, per le serie di successo, che le stagioni si moltiplichino. Quali sono le cose importanti da seminare nei soggetti in previsione di un allungamento della serialità?

I personaggi devono compiere il famoso arco narrativo entro una stagione, come alla fine di un film per il cinema. Ma devono avere anche altri lati nascosti da far emergere in seguito, su cui innestare altri possibili archi narrativi. Non so se l’ho detto bene, in ogni modo non è facile nemmeno a farsi, ecco. Tanto io che Vittorino – e siamo perfettamente allineati su questo – consideriamo essenziale sviluppare una storia ponendo i temi portanti dentro i personaggi, nei loro desideri, nelle loro potenzialità, nelle loro debolezze. In quello che vogliono e che a loro manca per raggiungere una totale ed utopica autorealizzazione.

Quella del soggettista-sceneggiatore è una professione spesso bistrattata, stretta com’è tra il fascino del regista e quello degli attori. Vuoi dare un consiglio a chi si avvicina a questo mestiere?

Prepararsi a lunghe discussioni in cui, almeno in Italia, non si ha quasi mai il coltello dalla parte del manico.

L’intervista è a cura di Enrico Caroti Ghelli

WGI si racconta – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori e tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione. Questa rassegna offre uno spazio alle singole storie professionali dei nostri soci.

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