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Mio duce ti scrivo

Il nostro socio Massimo Martella ha scritto e diretto il documentario Mio duce ti scrivo, le lettere degli italiani a Mussolini 1923/1943, presentato al festival di Taormina a giugno 2016 e subito dopo distribuito in libreria in DVD, come edizione speciale dell’Istituto Luce-Cinecittà

Caro Massimo, il solito pitch, in poche parole il contenuto di Mio duce, ti scrivo

Mio duce ti scrivo è un documentario che racconta l’evoluzione del rapporto tra gli italiani e Mussolini utilizzando alcune delle lettere che egli ricevette negli anni in cui è stato al potere. I testi selezionati sono stati interpretati da attori sullo sfondo delle immagini di repertorio del ventennio.

Come hai avuto l’idea di questo documentario?

L’idea è nata dal progetto di fare qualcosa insieme a Luigi Bizzarri, capostruttura di RaiTre per i programmi di storia. Io avevo portato un progetto sui delatori durante il fascismo, ma lui mi propose di allargare il tema e di estendere l’ambito del racconto alla corrispondenza degli italiani verso il duce. Ho iniziato quindi a fare delle ricerche presso l’Archivio di Stato (ACS), dove le lettere sono conservate in originale.

Mi sono trovato di fronte a una mole immensa di documenti, catalogati in maniera assai approssimativa da quella che all’epoca si chiamava Segreteria Particolare del Duce, che doveva quotidianamente far fronte a centinaia di missive. Mi sono immaginato migliaia di voci, pensieri, sentimenti, rimasti in buona parte sepolti per anni in un polveroso sotterraneo, che attendevano di essere riportati alla vita per tornare a raccontare la loro verità umana e storica. E questa emozione mi ha convinto che valeva la pena provarci.

Ci racconti come funziona l’accesso all’archivio del Luce? Tu come hai proceduto?

Non è difficile: il database è interamente in rete, anche se una parte dei contenuti è soltanto descritta ma non visionabile, e quelli visibili sono in bassa definizione (per ovvi motivi di copyright). I risultati vengono mostrati in ordine cronologico, e per ogni filmato c’è un riassunto con un elenco di keywords che aiuta a tagliar fuori quello che non serve. Comunque, se si lavora con il Luce si viene affidati a delle guide straordinarie che sono le ricercatrici e i montatori interni dell’Istituto: dove non arriva il database arriva spesso la loro memoria storica!

Ho provato a selezionare delle voci, ma non è facile destreggiarsi con le keywords del sito del Luce. Il sistema di archiviazione ha delle regole complesse. Hai dei consigli da darci, delle scorciatoie, delle dritte?

Il materiale nell’archivio è ingente, specie per eventi come le manifestazioni ufficiali, che però spesso si somigliano tra loro. Le immagini più originali e interessanti si trovano piuttosto nei documentari “di costume” nei quali viene mostrata la vita delle persone comuni. Consiglio di specificare il più possibile le chiavi di ricerca per non rischiare di trovare troppi elementi: cercare con le parole “Milano” oppure “duce” non è chiaramente un criterio molto selettivo… Inoltre conviene procedere per gradi e puntare volta per volta su un solo tipo di prodotto desiderato: cinegiornale, documentario o fotografia. C’è però da dire che nessuno, se non appunto una guida interna, può segnalarti che cosa si nasconde all’interno di un filmato, al di là dell’arido elenco dei contenuti dichiarati nel database. Nell’archivio Luce si trovano piccoli capolavori semisconosciuti di grande bellezza; non soltanto tra i documentari firmati da autori di nome, ma anche in certi cinegiornali nei quali l’operatore, per una volta libero dai dettami della retorica, si è lasciato andare al suo gusto, e ha creato delle vere e proprie gemme di poesia.

Esistono immagini che non possono essere riprodotte tra quelle archiviate? Hai trovato qualche ostacolo, qualche top secret?

Nessun tipo di “segreto”, anzi: al Luce sono lieti di poter mostrare al mondo i propri tesori. Pongono dei limiti soltanto quando c’è il rischio che qualcuno si appropri indebitamente delle loro immagini.

Chi era che produceva immagini filmate allora? Lo stesso istituto Luce (ricordiamo qui che è un acronimo di L’Unione Cinematografica Educativa) nacque durante il fascismo come elemento di propaganda ed è stato il primo a produrre video-racconto per i cinegiornali… Hai trovato prodotti anche di altri?

Ci sono archivi stranieri ai quali si può attingere, in special modo inglesi, e talvolta a seconda dell’argomento diventa inevitabile farlo, ma la ricerca diventa più laboriosa e poi bisogna mettere in conto il costo dei diritti. Per fortuna in alcuni casi il Luce ha acquisito negli anni i diritti d’uso di materiali non suoi: ad esempio, l’unico filmato che documenta i bombardamenti italiani con gas urticanti in Etiopia non è, naturalmente, stato prodotto dal Luce, ma è stato acquisito tempo addietro da un archivio russo e io ho potuto usarlo.

Le lettere al Duce erano migliaia e migliaia… Quale criterio hai seguito per selezionare quelle inserite nel documentario? Quali le tue priorità: la capacità emotiva, la rarità del contenuto… ?

Ho iniziato la ricerca setacciando le tre antologie di lettere al duce pubblicate in passato, e ho allargato l’indagine poi a libri o articoli di riviste storiche che ne citassero alcune, anche solo incidentalmente.

Bisognava poi trovare gli originali per poterli fotografare e mostrare nel documentario. Alcune di queste fonti librarie per fortuna riportavano la collocazione del faldone dell’ACS dal quale la lettera era stata trascritta: sono così risalito agli originali. Ma se consideriamo che in ogni faldone ci sono circa 200-300 missive, e che di tutte quelle non dattiloscritte bisognava decifrare la calligrafia, capisci quanto tempo ho impiegato in questa specie di caccia al tesoro.

Naturalmente cercando una lettera in particolare, mi imbattevo in mille altre, e così ne ho scoperte alcune davvero singolari, come quella del distinto signore milanese che durante la guerra propone a Mussolini di promuovere il taglio delle capigliature lunghe delle donne italiane per inserirle nel tessuto delle divise dei soldati, in modo che si sentano “commossi e rincuorati”…

Ho privilegiato in primo luogo l’intensità della scrittura e dei sentimenti che hanno portato il mittente a trovare il coraggio di scrivere al “grande capo” in persona. In secondo luogo la varietà e la particolarità dei contenuti. Le ho raggruppate grosso modo per tema: le lettere d’amore, quelle di denuncia, le richieste di aiuto, le delazioni, gli insulti, le guerrafondaie e le pacifiste, quelle degli squadristi e degli ebrei… e su ogni tema ho costruito un capitolo.

Immagino che di fronte a tanto materiale – per dirla con Leopardi – il cor si spaura… Come hai fatto a tenere dritta la barra mentale?

Con il massimo rigore storico nell’analizzare i materiali e il rispetto per i mittenti, anche i più invasati, come quello che incita il duce a bombardare l’Africa con i gas per distruggere tutto. Mi interessava raccontare l’Italia di quegli anni senza giudicarla. Questo intento si è riflesso anche sulla recitazione degli attori: in prova gli avevo chiesto di mettere un filtro tra loro e le lettere, ma lavorandoci insieme ho capito che invece per farle vivere serviva la massima immedesimazione.

Scovato il materiale, viene la parte più difficile, la produzione… Il materiale del Luce costa molto, i soldi per i documentari sono pochi… Come hai fatto?

Beh, semplice: il film è stato prodotto dal Luce, quindi il repertorio non l’ho pagato… E siccome anche il montaggio e quasi tutte le lavorazioni sono state realizzate internamente, si può dire che il documentario è costato molto poco. Alla produzione si è associata con un pre-acquisto RaiTre, per il passaggio televisivo, e l’operazione è stata possibile.

Tecnicamente come hai avviato il progetto? Con un piccolo soggetto o un trattamento?

In un primo tempo è stato sufficiente un soggetto di tre pagine, ma per ottenere il via libera ho presentato un trattamento che in pratica conteneva già tutti gli argomenti del testo definitivo. Naturalmente le lettere selezionate erano troppe… così ho dovuto a malincuore separarmi da alcune di esse.

Hai inserito nel documentario una classica voce narrante, emotivamente neutra, ma hai dato voce alle lettere mettendo in campo degli attori e inquadrandoli davanti ad un leggio… Il contrasto è eccellente, le emozioni di chi ha scritto tornano a riproporsi particolarmente vive. Ci avevi già pensato prima o è stata una scoperta del montaggio?

No, è stata l’idea sulla quale ho costruito la realizzazione del film. L’intenzione era proprio quelle di far “vivere” le lettere. In questa scelta però sono stato anche indirizzato ovviamente dai vincoli produttivi: ho potuto girare tutto in soli due giorni.

C’è un aspetto molto bello dei documentari e in particolare dei documentari con materiale d’archivio: i volti delle persone, volti che dicono qualcosa. Oggi, seppure la tv offra una miriade di volti nei diversi programmi con un pubblico, sembra che non ci siano più facce o meglio che le facce non siano più capaci di raccontare qualcosa. Sei d’accordo?

Sì, concordo. Ma il problema non credo che sia di come vengono effettuate le riprese. Credo che abbiamo vissuto un processo di progressiva omologazione negli ultimi decenni: il nostro aspetto fisico, non soltanto i nostri abiti, vanno somigliandosi sempre più ovunque nel globo. Per tornare a quei frammenti di bellezza del repertorio: in un breve cinegiornale che racconta i primi battesimi nell’Agro Pontino bonificato, ci sono dei primi piani degni della regia di un Visconti. Non uno: tutti. Facce di contadini ingenui e speranzosi, di madri adolescenti, di bambini senza malizia. Straordinari.

Il Luce degli anni venti e trenta fu partner di produzione di molti film e anche di colossal. Oggi l’Istituto Luce Cinecittà può produrre per legge solo documentari eppure, ormai, questi documentari arrivano nei festival (tantissimi a Venezia) alla pari con i film e addirittura, paradossalmente, forse per l’effetto verità dei visi di cui abbiamo parlato prima, vantano un grande attaccamento alla realtà, alla nostra vita, riescono a rappresentare l’Italia lì dove il cinema – soprattutto di commedia – la sfugge, l’inventa o la sbeffeggia. Nascerà anche da qui il cinema di domani? Che ne pensi?

Penso che sarebbe bello. Sento che il bisogno di verità nel pubblico sta lentamente aumentando. Il documentario è finalmente uscito dai suoi confini e in tanti tra l’altro sperimentano con successo vie inedite per mescolare realtà e finzione. È un territorio affascinante da percorrere.

Torniamo alla forza del tuo racconto: migliaia di persone scrivevano al Duce. Si poteva mettere l’accento sul Duce e invece tu l’hai messo sulle persone e hai creato una progressione narrativa del documentario particolarmente interessante. E’ come la storia collettiva di un’aspettativa, di un sogno. La speranza, la solidarietà, la partecipazione, l’affanno per far andar bene le cose quando si sente la speranza scricchiolare e poi… la terribile delusione. Non è stata solo la cronologia a far questo in automatico, giusto? Come hai creato la tua progressione?

La cronologia degli eventi mi ha certamente aiutato, ho dovuto soltanto assecondarla. Ho collocato in testa il mito del duce: adorato, divinizzato, desiderato carnalmente. Poi ho collocato il crescendo delle aspettative nei riguardi della sua figura: gli si chiede di tutto, di dare soldi, di fare giustizia, di emarginare i fascisti corrotti, di fare l’Impero, di conservare la pace. Poi, la disillusione. E infine l’odio, quello delle madri che vedono morire i propri figli e gli chiedono il conto del massacro. Oltre agli attori, un grande aiuto nel crescendo drammatico l’ho ricevuto dalle musiche originali di Alessandra Celletti.

C’è un altro aspetto molto interessante del documentario: più si racconta e più si torna a raccontare. Il materiale sembra infinito, le stesse foto, gli stessi filmati lette da un cuore e dalla mente di un diverso artista diventano diverse.

Insomma è un campo molto più sconfinato della cinematografia di fiction dove vista una storia le hai viste – quasi – tutte.

Che ne pensi?

Mentre sceglievano le immagini con il montatore, spesso lui mi metteva in guardia: attento, questa inquadratura l’hanno usata in duemila… c’è per esempio una strana ripresa di Mussolini, da poco al potere, elegante e vanesio, che viene verso la macchina da presa sorridendo, mentre giocherella con un fiore in mano. L’avrò vista in almeno 5 documentari diversi… ma non conta molto: il repertorio diventa un materiale plastico adattabile a molti usi, e variando il contesto varia anche il significato.

L’altro aspetto importante del documentario è il confronto con la memoria. Si direbbe un servizio pubblico, un atto di coscienza necessario per il nostro paese, forse addirittura un processo terapeutico visto che come italiani preferiamo nascondere la polvere sotto il tappeto piuttosto che guardarla in faccia… Che ne pensi?

Penso che tu abbia ragione, è anche per questo che amo i documentari storici ben fatti, ma devo dire che sono anche un po’ scettico sulla capacità degli italiani di far tesoro degli errori dl proprio passato. Ad esempio, credo che quasi tutti, vedendo “Mio duce…”, abbiano pensato “noi non potremmo mai essere così”. E invece sì che potremmo tornare a esserlo, anche sotto spoglie diverse, eccome. Con questa brutta abitudine che abbiamo a essere degli individualisti che delegano la risoluzione dei problemi a un uomo forte…

Hai lavorato come regista di fiction, come head writer di molte serie tv (La Squadra, Distretto di Polizia, RIS) e adesso come autore di documentari. Cosa ti lega a queste diverse espressioni, dove ti senti più tu?

Sono due mondi diversi. Il ruolo da regista mi permette maggiore libertà espressiva e di seguire un progetto “artistico”; quello da sceneggiatore di fiction dà maggiori gratificazioni in termini di seguito, e mi piace perché permette di raccontare archi narrativi più lunghi. Da questo punto di vista la serialità è insostituibile.

Progetti futuri?

Sto preparando sempre per l’Istituto Luce un documentario sul salvataggio delle opere d’arte italiane durante la Seconda Guerra Mondiale, e poi sto lavorando a un progetto che, per l’appunto, per adesso ho scritto come soggetto per un documentario, ma potrebbe diventare magari anche una fiction. Poco più di un sogno, al momento.

Grazie, Massimo, in bocca al lupo per tutto.

L’intervista è a cura di Giovanna Koch

WGI si racconta – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori e tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione. Questa rassegna offre uno spazio alle singole storie professionali dei nostri soci.

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