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Anna Magnani: dalla luna con amore

Simona Fasulo, socia fondatrice della WGI, ha scritto e diretto il documentario Anna Magnani: dalla luna con amore, che verrà trasmesso in occasione della Giornata Internazionale della donna, martedì 8 marzo 2016 alle 21.30,  su RaiStoria.
 

Cara Simona, la RAI manda in onda il tuo documentario su Anna Magnani in occasione della Giornata Internazionale della Donna, quindi la nostra prima domanda che abitualmente è la richiesta di un pitch, stavolta te la formulo così: quale Anna Magnani c’è nel tuo documentario, tu come l’hai vista, quale donna ci farai vedere?

Potrei dire che Anna Magnani, come tutte le donne, è sfaccettata: piena di asperità eppure accogliente. Farci i conti non è stato facile, è stato l’incontro con la complessità di una donna molto moderna, molto vicina, nonostante siano passati tanti anni dalla sua scomparsa (1973).

Ho cercato una chiave di lettura per questa attrice che ha rappresentato l’Italia nel mondo per tanto tempo, e che noi italiani abbiamo colpevolmente un po’ dimenticato. Sapevo che il documentario sarebbe andato all’interno di un programma di Rai Storia fatto di biografie di grandi italiani, e quindi ho scelto la chiave storica, accostando a quella di Anna Magnani la storia delle donne del suo tempo. Donne che lei ha rappresentato nel cinema, ma con le quali in realtà non ha molto da spartire per quel che riguarda la vita corrente. Le donne di cui parliamo sono anche quelle che vivono sotto il fascismo, sfornano tanti figli per la patria e sono soggette al “capofamiglia” che è sempre e comunque un uomo, non hanno diritto al voto e nessuno le ascolta. Lei, nell’anno in cui si firma il nuovo diritto di famiglia (1942) che sancisce la patria potestà, fa un figlio fuori del matrimonio con un uomo più giovane di lei (Massimo Serato), è separata (da Goffredo Alessandrini) ed è lei “l’uomo di casa”, come dice il figlio Luca.

Una donna coraggiosa, che fa anche scelte discutibili, che soffre per amore, che è piena di dubbi e di paure e maschera tutto con una grande presenza di spirito e con una proverbiale irascibilità.

Anna Magnani – ci sembra – non si considerava un’attrice, nel senso di una persona al servizio di una storia, ma affrontava il ruolo di attrice da un punto di vista autoriale, la sua interpretazione era per certi aspetti una riscrittura del suo personaggio e dell’intera storia. Sei d’accordo? E’ una lezione che può servire anche ad uno scrittore, pervadere la storia di sé e non il contrario?

È diverso: un’attrice, anche un’attrice come lei, che giustamente tu definisci autore, parte comunque da una storia che qualcun altro ha scritto per lei. La fa sua, si veste dei panni di quel personaggio, se li aggiusta addosso facendoli aderire alla sua propria sostanza, cercando di non tradire nessuno. E alla fine dice: “Io non lo so mica se sono un’attrice. Un’attrice dovrebbe essere tutte le sere uguale, io tutte le sere sono diversa”. Per dire che, nonostante o proprio grazie al suo scrupoloso lavoro sul personaggio che interpreta di volta in volta, può permettersi di seguire le emozioni del momento.

Un autore ha un bel darsi da fare per evitarlo, sempre se stesso porta in quel che scrive, ma lo deve fare con attenzione, o il rischio è scrivere sempre la stessa storia.

Anna Magnani: dalla luna con amore è il tuo quinto documentario: raccontaci del tuo metodo. Come cominci a costruire il documentario? Pensi che debba funzionare come una fiction, che debba cioè essere costruito come una storia, cioè con un tema, un inizio, un arco narrativo e una fine?

La struttura resta quella, e viene quasi automaticamente: l’arco narrativo è importante e portante in tutti i tipi di storia. E anche un documentario “di servizio” si regge su una struttura del genere. Per quanto riguarda il mio metodo di lavoro non è consigliabile, perché è caotico. L’unica consolazione è che il caos è il mio e quindi lo conosco e mi ci muovo a mio agio. Certo, studio il tema che voglio trattare, ma per lo più mi lascio portare dalle interazioni con le persone con cui vengo a contatto e soprattutto dalle sensazioni che provo, per creare nessi, accostamenti, distanze.

Del tuo documentario su Anna Magnani hai una stesura letteraria vera e propria(trattamento, sceneggiatura…) o solo appunti, magari una scaletta…?

Nel caso del documentario ci sono immagini di repertorio, interviste, persone che parlano, gesti, espressioni che usano. Non sono sostituibili da un copione, mentre se scrivo una sceneggiatura o un soggetto, i personaggi ce li ho in testa, e si muovono e parlano come decido io… Comunque sì, la struttura la studio come se fosse un film. Ma a posteriori diciamo… Prima lo giro e poi lo scrivo. Ogni volta incomincio con la stesura di una scaletta o con un copione vero e propri, ma mi fermo dopo poche battuta perché se non vedo non vado avanti.

Racconti di te che avevi cominciato a scrivere “professionalmente” già a dieci anni, che avevi un tuo giornale dal titolo molto solenne: Il nostro tempo… Racconta. Che percezione di te ti arrivava attraverso la scrittura? Il luogo della scrittura che avevi creato dentro di te è rimasto sostanzialmente lo stesso?

Da bambina volevo fare la giornalista. E in realtà poi l’ho fatta a lungo per varie riviste di teatro e letteratura, senza mai raccogliere gli articoli (e ce n’erano!) per la tessera da pubblicista e da giornalista. Ma questa è un’altra storia che attiene alle mie difficoltà di guardare al futuro. Il pensiero di scrittura che avevo allora era più vicino a un’idea di divulgazione: scrivere per dare informazioni e essere letta. Oggi, e da molto tempo, è un luogo segretissimo – a volte mi ci perdo anch’io -, e lo considero il mio buen retiro. Scrivo racconti che mi danno soddisfazione. Il resto è piacere, ma anche dovere. E spesso mi dico che aver collocato una fetta importante di piacere personale – la scrittura – sotto l’etichetta di lavoro (troppo spesso mal remunerato) è stata una dannazione.

Tu sei passata attraverso molti tipi di scrittura e di piattaforme di comunicazione che richiedono approcci tecnici diversi, quindi ti facciamo lo stesso tipo di domanda che è stato rivolto ad Anna Magnani: a che cosa fai appello per riuscire nelle diverse imprese, al te scrittrice/scrittore, al tuo talento o allo studio delle tecniche del mezzo? Sappiamo che forzatamente la risposta sarà un mix di tutto, ma ci interessa la percentuale… Insomma, in base alla tua esperienza, per ottenere l’ottimo deve prevalere il sé?

Una cosa la so per certa: se sento che il prodotto che sto sfornando non mi rappresenta, non mi assomiglia almeno un po’, il prodotto non mi piace. Non mi va di tradirmi troppo. Per quanto riguarda le tecniche, certo, sono diverse: scrivere il soggetto di una fiction, un programma radiofonico, un format televisivo o un documentario per la Rai, non è la stessa cosa. E con la tecnica bisogna comunque farci i conti. In questo conta secondo me essere stata utente –ascoltatrice, spettatrice – di tante diverse forme di spettacolo e di intrattenimento. Però la teoria per me viene sempre dopo aver fatto pratica. I libretti delle istruzioni non li leggo mai. Rischio di fare casini, ma il rischio non mi spaventa e invece le istruzioni le trovo ostiche e un po’ mi annoiano.

Scrittura della voce: hai iniziato con i drammi e i radiodrammi, poi sei passata alla scrittura dal vivo, in diretta con tanti programmi Radio RAI, tra cui persino il celebre 3131, che nella versione condotta da te (era la prima volta che il 3131 andava in onda da giugno a ottobre) si intitolava Pronto estate. Aaron Sorkin, che riempie sostanzialmente di solo dialogo film e serie tv, sa bene che la gente non parla come lui la fa parlare, ma che proprio in questo sta la forza della scrittura: nell’essere profondamente realista, ma diversa dalla realtà. Tu che ne pensi?

Ho tenuto vari corsi di scrittura radiofonica e lunga serialità, e abitualmente insegno scrittura creativa, ed è quello che cerco sempre di spiegare ai miei studenti, partendo dalla frase di Alfred Hitchcock: “scrivere vuol dire raccontare tutto quello che succede nella vita, senza le parti noiose”. E le parti noiose spesso stanno nei dialoghi. Una bella sequenza senza azione la si può descrivere (a parole o per immagini) ed è l’ambiente circostante a parlare, ma una persona che dice cose noiose si sopporta poco. Per questo anche in questo caso, forse, partire da se stessi non è male: che cosa mi annoia? Come si può dire questa cosa in 7 parole invece che in tre pagine? Quanto di quello che sto scrivendo è frutto di compiacimento linguistico e quanto è autentico? La radio mi ha insegnato a “contenermi”.

Scrittura del quotidiano, arriviamo alle soap, dài, la tv generalista per eccellenza. Una nostra socia, Amy Pollicino, ci invita a non chiamarle soap, ma real drama, racconto del reale, lunghissima serialità. Insomma, una narrazione complessa e degna di attenzione tanto quella del cinema e delle miniserie che viene considerata genere alto, eletto. Tu hai partecipato alla scrittura di quasi tutte: Incantesimo, Ricominciare, Vivere, Agrodolce… Cosa ne pensi?

Ho imparato tantissimo dalla scrittura della soap. Intanto ad imbrigliare la fantasia in uno schema complesso ma chiuso: scene brevi, dialoghi contenuti, azioni più da raccontare che da vedere, e poi ad integrarmi nella quotidianità lavorativa di una fabbrica. La soap è una fabbrica. Quando ho incominciato, con Ricominciare, ero abituata a scrivere da sola, al massimo con una collega storica, a gestire un microfono nazionale per ore e ore con libertà d’azione e di parola, coadiuvata da redazioni che per lo più sceglievo io. Entrare in fabbrica è stato un bel bagno di umiltà. Che mi ha tolto tanto, ma mi ha anche dato tanto: la tecnica per esempio, e uno sguardo sulla realtà circostante diverso, più vero.

Noi della WGI pensiamo – nel nostro ruolo di sindacato – che la lunghissima serialità debba tornare ad essere prodotta per diversi motivi: il primo – ovviamente – perché genera offerta e continuità di lavoro, quindi genera industria, ma il secondo – che ci appare assai più importante, è perché è di fatto un vivaio di professionalità, mette a confronto le generazioni e alimenta il talento. Ma forse c’è un ruolo sociale ancora più importante: crea una narrazione condivisa, un appuntamento dickensiano con la lettura del presente, insomma crea legami tra le persone, collettivi emotivi. Esagero?

No, non esageri. Di sicuro è quello che la lunga serialità ha fatto per decenni – qui e altrove. Ha sostituito la lettura intorno al caminetto dei nostri avi, la radio a galena dei nostri nonni. È stata collante sociale, ma non solo: ha permesso di dare informazioni su milioni di piccole cose a tutti coloro che a quelle piccole cose non sarebbero arrivati altrimenti. Negli anni della prima guerra del golfo i rifugiati afghani in Pakistan hanno scritto una soap opera radiofonica con tanto di storie d’amore per far sapere a chi era rimasto dentro il paese e subiva il regime talebano dove si trovavano materie prime indispensabili per coltivare i campi o dove erano le terre minate. E credo non sia l’unico esempio di utilità sociale della soap.

La funzione di vivaio di nuovi talenti è fondamentale. Leggo spessissimo nei titoli dei film e delle fiction importanti i nomi di dialoghisti passati dalle soap. La verità è che ci vergogniamo un po’ troppo di aver fatto la soap, minimizziamo spesso la portata delle tecniche apprese lavorando in fabbrica. Ma è sempre stato così: gli impiegati in giacca e cravatta non sempre vanno fieri di aver indossato la tuta.

Sei diventata anche regista, hai imparato a scrivere per immagini. Cosa hai scoperto? E’ stato un salto in un altro territorio o un’espansione di quello che già conoscevi?

Avevo fatto delle regie radiofoniche, che sono di tutt’altra natura. Qui potremmo aprire un capitolo interessante sulla funzione della regia in generale e in particolare nel documentario televisivo, ma sarebbe complicato. Il montaggio è essenziale, e quello in parte lo conoscevo, ma solo dal punto di vista del sonoro: alla radio montavo i servizi da sola, con le forbici e lo scotch, ed ero diventata bravissima. So che schiere di adolescenti si montano video amatoriali da urlo a casa. Per me la tecnica del montaggio video è stata una scoperta. La cosa che mi ha colpito di più è la lentezza: per montare cinque minuti puoi impiegare un’intera giornata.

Come regista credo che ogni scrittore di fiction lo sia in nuce: non si scrive niente senza immaginare la scena. E dentro la scena, a guardar bene, ci sono anche gli oggetti, i movimenti degli attori, le luci…

Tu sei persona molto attenta alla dimensione sociale, fai volontariato, frequenti luoghi dell’emarginazione come le carceri… La prima domanda è perché: ce lo puoi dire?

Ho cominciato da bambina: a 12 anni seguivo mia sorella maggiore in Croce Rossa perché volevo essere grande. Dimostravo qualche anno in più e mi presero tra i volontari quattordicenni. Facevo il doposcuola nelle borgate a ragazzi che avevano il doppio dei miei anni… Se ci penso mi viene da sorridere. Era troppo presto. Però l’esigenza di prendersi cura degli altri – l’ho imparato col tempo – ha a che fare anche con un nostro bisogno di cure, così, curando gli altri, tentiamo di auto-curarci. Questo per dire che non c’è niente di eroico nel portare in un posto di sofferenza dove però c’è molta vita, come può essere un carcere, il proprio minuscolo sapere e spartirlo con loro. Ho imparato di più, umanamente, dalle chiacchierate su un film con gli abitanti del G9 di Rebibbia, che in tante conversazioni con i cosiddetti cittadini liberi e incensurati.

La seconda domanda che riguarda sempre il tuo interesse sociale, è invece di carattere professionale: quanto è vero che la narrazione esiste fuori dei luoghi deputati, che in un certo senso proprio quando volti le spalle alla scrittura o ai salotti della scrittura e ti occupi di altro, incontri le storie che alimentano di nuovo la capacità di scrivere?

Salotti della scrittura? Che sono? Non è un caso che io lavori poco e che sia malpagata: non ho mai frequentato salotti della scrittura, nemmeno sale da pranzo. E a parte questo, certo: se non fai esperienza nel mondo difficilmente puoi scrivere. A meno che tu non sia molto speciale. E non ne nascono tanti di scrittori speciali. Come dico sempre nei miei corsi, senza leggere non si può scrivere. La realtà bisogna leggerla, viverla, starci dentro. E dopo, casomai, si può raccontare.

Scrivere in modi diversi, su piattaforme diverse… A quale sei più affezionata?

La radio è il mio primo amore: la comunicazione diretta. I racconti sono la forma dell’anima. La fiction TV e il cinema sono la fantasia al potere. (Io vivo di film e serie televisive -straniere-, almeno come spettatrice…).

Dobbiamo essere anche realisti. Scrivere è un’espressione importante del sé, ma abbiamo bisogno di portare a casa un compenso, uno stipendio… Quanto hanno inciso i diversi livelli di retribuzione sulle tue scelte professionali?

Il passaggio dalla radio alla soap è stato fatto essenzialmente per questioni retributive. Stavano cambiando cose importanti della mia vita, avevo bisogno di guadagnare di più, di avere un lavoro più stabile e più remunerativo. Il passaggio al documentario è avvenuto per caso: la proposta di un amico volontario a Rebibbia, le tre storie di ex carcerati, la conoscenza del tutto casuale con un produttore. Nel frattempo, per vivere, dopo la débacle economica del post Agrodolce (sono tra i creditori della casa produttrice che ha dichiarato fallimento) ero approdata a quella che allora si chiamava Rai Educational e avevo ricominciato a fare l’autrice televisiva (mestiere già praticato un paio di volte per Rai Uno) con un compenso addirittura risibile. Sotto questo aspetto le cose non sono cambiate purtroppo. Se faccio questo lavoro è perché mi piace, non perché mi pagano. Ma questa è la nota dolente dell’Italia.

Dentro quale dei vari campi in cui ti sei esercitata viene maggiormente rispettato lo scrittore?

Alla radio. Sicuramente. Almeno, questa è la mia esperienza.

Cosa vedi nel tuo futuro? Ancora documentari?

Sto preparando un documentario su Antonino Caponnetto per Diario civile di Rai Storia…. E sono contenta di questo incarico, ma non ho smesso di sperare che prima o poi qualcuno acquisti un mio soggetto e soprattutto che si possa realizzare. (Ce n’è uno cui tengo molto che piace a tutti, ma non si riesce a varare.) Non mi dispiacerebbe scrivere di nuovo lunga serialità, se ce ne fosse; e recentissimamente,dopo tanti anni, ho fatto due proposte di programmi a Radiotre… Come vedi, nonostante tutto, per poter lavorare qui da noi, si è sempre costretti ad avere lo sguardo di una mosca, a 360 gradi…

Grazie e in bocca al lupo per tutto.

Grazie a te e in bocca al lupo alla WGI.

L’intervista è a cura di Giovanna Koch

WGI si racconta – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori e tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione. Questa rassegna offre uno spazio alle singole storie professionali dei nostri soci.

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