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L’uomo che non cambiò la storia

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.
Enrico Caria ha scritto e diretto il documentario L’uomo che non cambiò la storia, prodotto dall’Istituto Luce- Cinecittà e tratto dalle memorie di Ranuccio Bianchi Bandinelli, raccolte in 1938, Il viaggio del Fūhrer in Italia. Il lungometraggio è stato presentato a Venezia, come evento fuori concorso, all’interno delle Giornate degli autori.

Caro Enrico, raccontaci in poche parole di cosa parla il tuo film L’uomo che non cambiò la storia.

L’uomo del titolo è Ranuccio Bianchi Bandinelli, lo storico dell’arte che dagli anni ‘40 in poi reinventa gli studi di archeologia in Italia e nel mondo. In quanto alla storia che avrebbe potuto cambiare è quella che finisce con 54 milioni di morti. Come poteva cambiarla? Uccidendo Hitler e Mussolini in un colpo solo. Questa possibilità gli fu offerta su un piatto d’argento quando nel maggio del 1938 fu incaricato (lui profondamente antifascista) di fare da interprete e cicerone a Fürher e Duce in giro per i maggiori musei italiani.

Come sei venuto a conoscenza della storia del singolare incarico di Ranuccio Bianchi Bandinelli? Lo conoscevi già in veste di storico dell’arte e archeologo?

Bandinelli appuntò i suoi propositi omicidi in tempo reale e in seguito li trascrisse in un diario: leggendo quelle pagine il film ti si srotola davanti da solo. Se lo conoscevo? Come storico sì, come mancato killer no.

Cosa ti ha colpito della sua vicenda umana, al punto di volerne fare un film? Qual è stata l’emozione più forte che ti ha scatenato?

Leggendo il suo diario viene naturale porsi una domanda da un milione di dollari: io, al posto suo, sarei stato disposto a farmi accoppare per salvare il mondo?

E se poi quello non cambiava lo stesso?

È stato necessario contattare gli eredi di Bandinelli, immagino. Com’è andata? Nel film si vede la splendida tenuta di famiglia che è ancora adesso di loro proprietà, vero?

Andrea e Alessandro Boscu, i nipoti di Bandinelli, sono miei cari amici e l’autobiografia di Bandinelli che mi è capitata tra le mani l’ho trovata nello studio del nonno, sepolta proprio nella splendida villa storica che si vede nel film.

Hai definito il film un “docuthriller”, e la cosa mi sembra molto azzeccata. Ci parli di questa scelta, e di come hai costruito il racconto, che resta fino alla fine molto stimolante e coinvolgente?

Non avevo mai lavorato con soli materiali d’archivio ma avevo ben chiaro che non volevo battere la strada del documentario storico-divulgativo. Da subito quindi ho provato a far girare la sceneggiatura intorno a un grande classico del racconto giallo: how he did it? (nel nostro caso: how he didn’t?). Seguendo questa chiave ho intrecciato la storia personale del protagonista con la grande Storia, cercando di dare sempre la precedenza alla suspense, anche se veniva da sinistra.

Ci sono materiali di repertorio di provenienza diversa da quelli dell’Istituto Luce? Hai avuto difficoltà a trovarli? Come ti sei mosso?

Gli eredi mi hanno da subito permesso di ficcare il naso tra le carte, le foto, i giornali d’epoca e i tanti documenti che ancora sono custoditi nello studio privato di Bandinelli, nella meravigliosa villa di cui sopra. Lì ho anche effettuato delle riprese poi invecchiate ad arte per armonizzarle col repertorio.

Poi ci sono i non meno preziosi materiali rinvenuti nell’archivio storico di Siena. Last but not least i disegni di Spartaco Ripa frullati col footage dall’artista digitale Sergio Gazzo.

Nel film ci sono due narratori: uno è esterno alla storia, il doppiatore Stefano De Sando, mentre l’altro, l’attore Claudio Bigagli, interpreta le parole dello stesso Bandinelli. Ci parli di questa scelta? Tra l’altro sono due voci dall’impostazione e dal tono molto diversi.

Stefano De Sando è il doppiatore, come dice lui, cui De Niro presta la faccia da oltre vent’anni. È una voce importante, perfettamente a suo agio alle prese con un testo ora avventuroso, ora drammatico, ora satirico.

A Claudio Bigagli invece toccava restituire calore e umanità a un personaggio che usa una prosa sempre brillantissima, spesso provocatoria, come uno scudo dietro al quale mimetizzarsi. Missione, oserei dire, compiuta con successo.

Ho trovato personalmente molto coraggioso l’uso della musica. Non hai avuto alcun timore di alternare jazz, canzone italiana e hard rock, musiche che si confrontano in maniera molto netta con le immagini, non si limitano a sottolinearle, né tanto meno fanno riferimento all’epoca dei fatti. Com’è nata la colonna sonora?

Temo che il gusto per il contrasto che spiazza (in questo caso l’utilizzo di musiche apparentemente fuori contesto), e più in generale quello per la provocazione pop, sia nel mio caso una patologia. Come per Roger Rabbit quando sente un certo motivetto e non resiste alla tentazione di finirlo. Accada quel che accada.

Mi è sembrato che fin dall’inizio, con l’ironia di fondo del testo e l’uso di una musica dichiaratamente svincolata dal contesto storico, il film chiarisca con lo spettatore di voler essere una lettura “di parte” degli avvenimenti. Ma, e la domanda forse in sé contiene la risposta, è possibile secondo te raccontare la Storia in maniera imparziale?

Se sei vivo no.

Come è partita la produzione del film? Il progetto è partito da un piccolo soggetto o hai proposto fin da subito un trattamento?

Ho opzionato i diritti del libro e l’ho portato al Luce.

Nella tua carriera sei stato giornalista, romanziere, regista, autore di varietà, vignettista… è nuova per te l’esperienza del documentario storico?

Sì.

Non necessariamente anche l’ultima.

Le scene della folla adorante, mentre i due dittatori sfilano per le città italiane pavesate a festa con svastiche e fasci littori, risultano sempre un po’ sconvolgenti, e si fa fatica a riconoscere quelle strade come quelle di casa nostra, a credere che non si tratti di ricostruzione per un film di fantascienza… Quanto è importante secondo te mostrare il passato? Può aiutare, se non a comprendere, almeno a ricordare?

La memoria ci tradisce quando invecchiamo come individui e come società. E quando non ci esercitiamo, ci rincoglioniamo. E mostrare il passato a questo serve, ad allenare la mente per evitare alla società di rincoglionirsi.

Come la Settimana Enigmistica dopo i 45 anni.

La scelta di candidare ufficialmente all’Oscar per l’Italia “Fuocammare” ha suscitato delle polemiche, in quanto “documentario”. Cosa ne pensi?

Da un punto di vista tattico Sorrentino ha ragione: a candidarlo come doc rischiava di vincere, mentre tra i film di finzione il rischio si riduce. Da un punto di vista strategico invece non fa una piega: Fuocoammare è il film italiano più intenso della stagione.

Si sta delineando sempre più la tendenza a miscelare, in forme spesso sorprendenti, documentario e finzione. A mio parere è sempre stato in qualche modo inevitabile che i due approcci si confondessero, ma adesso c’è sicuramente più consapevolezza di questo. Che ne pensi?

Penso ai cinesi che col medesimo ideogramma graficizzano due significati solo apparentemente bisticciati: crisi e opportunità.

Progetti futuri? Vuoi continuare su questa strada o sei in cerca di una nuova metamorfosi?

Si vive solo due volte.

L’intervista è a cura di Massimo Martella

Scrittori a Venezia – Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 73 Mostra internazionale d’Arte Cinematografica (31 Agosto -10 settembre 2016).

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