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Suburra, la serie

Daniele Cesarano ha scritto insieme agli altri soci WGI Barbara Petronio, Ezio Abbate, Fabrizio Bettelli e Nicola Guaglianone il soggetto, i soggetti di puntata e le sceneggiature di Suburra, la serie. In più Insieme a Barbara ha svolto il ruolo di head writer. Come è noto le prime due puntate di Suburra sono state presentate in anteprima alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e a ridosso di quell’occasione abbiamo incontrato Daniele. Successivamente, abbiamo approfondito la questione del processo creativo della serie anche con Barbara e Gina Gardini, che l’ha prodotta.

Ciao, Daniele, la serie di cui tu e Barbara siete head writer, ha sollevato una grande attenzione e ha ottenuto a quanto pare un ottimo riscontro in tutto il mondo. Secondo te, perché? Perché è la prima serie Netflix in Italia, perché l’avventura del  protagonista Samurai discende direttamente dalle vicende della banda della Magliana di Romanzo Criminale, perché se ne voleva replicare il successo? Oppure perché il percorso di nascita è simile: un libro con co-autore De Cataldo, un film tratto dal libro e poi una serie. Un algoritmo alla Netflix o una strategia della casa di produzione Cattleya?

Escluderei gli algoritmi di Netflix, rimarrei più su modello vincente non si cambia. Libro–film-serie  è il marchio di fabbrica di Cattleya, o forse lo era, non so quanto il passaggio film-cinema rimarrà nei loro programmi futuri. Per quanto riguarda la vicinanza a Romanzo Criminale, che dire, molti elementi sono comuni: Roma, il mondo criminale, gli intrecci con la politica, una certa dose di verosimiglianza, ma la serie non vuole essere Romanzo Criminale 2, è Suburra 1, una serie nuova, con una sua identità autonoma. Nella serie ci sono personaggi presi dal libro, personaggi presi dal film e personaggi creati ex novo. Per quanto riguarda il plot riprende, ma solo in parte, cose sia del libro che del film, ma li colloca in un altro tempo… Sono stato abbastanza vago da sollecitare la curiosità di chi ci legge?

E’ la prima volta che Netflix incontra un produttore italiano: è stata dura scrivere il soggetto di serie?  Come vi siete trovati?

Cattleya rules, e il suo modo di lavorare con gli sceneggiatori non è cambiato rispetto agli altri lavori che ho fatto per loro… Per quanto riguarda Netflix: ha letto, ha fatto delle note – a volte condivisibili a volte no – ha incontrato gli sceneggiatori un paio di volte e per il resto si è relazionato con Cattleya, ma se questo sia il suo modo di operare o se si sia adeguata al modo di Cattleya, non lo so. E’ giusto ricordare che dietro la serie c’è anche la Rai che su questa serie mi è sembrata molto attenta a non interferire con il nostro lavoro.

Arriva Netflix, ma non arriva ancora il sistema USA dello showrunner, che pure ha portato le loro serie al successo internazionale. Tu e Barbara vi siete già misurati con il ruolo di produttori creativi, avete già ottenuto i credits su più serie in questo senso, inoltre tu, Daniele, sei diventato dirigente della Fiction Mediaset… Cosa manca? Agli scrittori italiani non si può proprio affidare anche il portafogli di una serie? Dobbiamo restare pensatori astratti, artisti senza potere reale?

Discorso complesso da liquidare in una battuta. Ma non voglio sembrare evasivo, per cui butto la qualche riflessione. Mi sembra evidente che anche in Italia ci sia un lento spostamento di potere verso gli sceneggiatori, forse troppo lento, sicuramente piuttosto frammentato e anche un po’ confuso. Mollare il potere non è mai facile. Ho però la sensazione che in assenza di un modello chiaro ci si rifaccia in maniera un po’ confusa all’idea mitica dello showrunner americano. Tu mi chiedi quand’è che gli sceneggiatori italiani potranno gestire il budget di una serie? è una domanda corretta, però tutti gli sceneggiatori che mi hanno chiesto di fare lo showrunner si sono tenuti alla larga dall’idea di dover gestire il budget. Ma se non parliamo anche di gestione del budget, di cosa parliamo esattamente?  Quali diritti? Quali doveri? Per questo penso che bisognerebbe partire da cosa veramente vogliono gli sceneggiatori, cose chiare, che possano essere messe su un contratto, alle quali poi legare un credito e un compenso. Comunque trovo abbastanza divertente discutere di showrunner in un’intervista su Suburra, visto che il  modello Cattleya è molto lontano dallo sceneggiatore-showrunner.

Abbiamo parlato in un’altra occasione della struttura narrativa di Suburra, delle novità espressive che un diverso sistema di distribuzione inaugurato da Netflix (tutte le puntate, subito, in una volta sola, a disposizione del pubblico) può consentire. Che differenza c’è – in questo senso – dalle vostre serie precedenti? Cosa vuol dire scrivere, pensando a una compresenza di tutte le puntate in una stessa serata, a una fruizione di dieci ore?

Fondamentalmente nessuna.

Vi facciamo ancora un’altra domanda sull’effetto Netflix. C’è una grande aspettativa di novità, una chiamata alle armi del pubblico più scaltrito (non diciamo più giovane che ormai pare un insulto…) un cambio di passo.

Vi hanno chiesto esplicitamente di agire in questo senso, o al contrario Suburra è stata pensata come una serie fondamentalmente classica, generalista?

Risposta complessa. Per essere sintetici direi che Netflix mi è sembrata più main-stream di una cable, e più edgy di una generalista, in questo senso le richieste di Cattleya mi sono sembrate più cable oriented di quelle fatte da Netfllix.

Suburra affronta non solo la criminalità, ma anche lo stato di corruzione del sistema politico. Avete potuto fare riferimenti diretti alla condizione di Roma, o non ci sono rimandi immediatamente leggibili, è tutto alluso?

I nomi dei politici veri non li abbiamo usati, come d’altronde quelle dei criminali. Per il resto la serie, come il libro e come il film, parla di Roma, per cui i riferimenti alla realtà sono facilmente leggibili.

Suburra è stata presentata a Venezia, Cannes prepara un festival per le serie… Ce l’abbiamo fatta? Gli scrittori tv sono stati sdoganati, nessuno può più considerare la tv una produzione di serie B, una non-arte? Oppure andare a Venezia vuol dire ancora un invito nel salotto buono, ma non ancora una tessera da socio nello stesso club?

Non è lo stesso club, e questo andrebbe rivendicato da entrambe le parti. Il cinema e la tv sono sicuramente parenti ma usano linguaggi diversi. Io personalmente sono fiero di essere stato uno sceneggiatore prettamente di televisione seriale, e non ho mai sofferto di complessi di inferiorità nei confronti del cinema, semmai il problema oggi è il contrario: il cinema sembra soffrire troppo il complesso di inferiorità nei confronti della tv.

L’intervista è a cura di Giovanna Koch

Questa intervista  WGI è apparsa anche sul sito Anonima Cinefili.

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