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Non uccidere

Claudio Corbucci è creatore, soggettista, sceneggiatore e produttore creativo di Non uccidere.
La serie televisiva ha esordito in prima serata su RAI TRE lo scorso 11 settembre 2015: evento molto atteso, perché la RAI dal 2009 ha smesso di produrre per le reti minori e la fiction originale era stata fino ad allora concentrata – a parte l’eroico e solitario Un posto al sole – su RAI UNO. Dopo la sesta puntata del 16 ottobre, Non uccidere è stata interrotta con la promessa di una ripresa a gennaio. Ed eccoci infatti qui a raccontarvene, in occasione della messa in onda della prima puntata della nuova stagione (la numero 7 complessiva) su RAI TRE sabato 9 gennaio.

Caro Claudio, siamo al secondo esordio di Non uccidere, la seconda stagione. La prima serie (o prima parte della prima stagione) – uscita a settembre su RAI 3 – ha ottenuto ascolti bassi, ma critiche eccellenti. Insomma, è diventata uno spartiacque tra la fiction semplice e rassicurante di ieri che ancora la fa da padrona su RAI UNO e la serialità più complessa di un possibile domani, di chiara derivazione anglosassone. Insomma, c’è un prima e un poi di Non uccidere: parliamone.

Per prima cosa ti chiediamo un pitch in pochissime righe per introdurre nella serie coloro che ancora non la conoscono. Di che parla Non uccidere?

Non Uccidere è una serie crime dove la protagonista, Valeria Ferro, una giovane ispettrice della Squadra Mobile di Torino (Miriam Leone), indaga su delitti che nascono all’interno della famiglia, i cosiddetti delitti privati. E’ una serie prevalentemente verticale, un caso per ogni episodio, dove non vengono raccontate solo le indagini di Valeria Ferro ma anche le storie di alcuni personaggi coinvolti nel delitto. L’altra peculiarità della serie è la storia personale della protagonista, che ha vissuto sulla sua pelle le conseguenze di un delitto in famiglia e che porta questa ferita profonda in ogni sua indagine. Sua madre infatti (Monica Guerritore), quando lei era bambina, ha ucciso suo padre. All’inizio della serie la madre esce di prigione dopo aver scontato la pena e nel corso del racconto nella nostra protagonista nasce il dubbio che in realtà sua madre possa essere innocente. Anche la storia orizzontale quindi diventa gradualmente un’indagine su un delitto in famiglia.

Com’è nata Non uccidere? Da chi è nata l’idea? Quali sono stati i tempi di realizzazione dalla nascita dell’idea alla messa in onda?

Dopo la chiusura de La Nuova Squadra, il produttore Lorenzo Mieli e la Rai mi hanno chiesto di trovare un’altra idea per una lunga serie da realizzare con lo stesso modello produttivo. In qualche modo quindi è stato un lavoro su commissione, anche se non ho avuto indicazioni su che tipo di serie volessero. Sono partito quindi esclusivamente dai paletti che un modello produttivo come questo impone. Per quanto riguarda la storia invece ho avuto massima libertà creativa. Era da tempo che volevo confrontarmi con un giallo classico, con il genere procedural, e volevo che, a differenza de La Nuova Squadra, dove a svolgere le indagini era un gruppo di poliziotti, questa volta ci fosse un solo investigatore. Questa scelta ha creato un problema. Avere un unico protagonista (alla Montalbano per fare un esempio italiano) in un sistema produttivo che prevede due troupe che girano in contemporanea sembrava quasi impossibile. La soluzione mi è venuta pensando a cosa non mi piace nella stragrande maggioranza dei gialli, romanzi o serie televisive che siano. Il fatto che i personaggi di puntata, le persone coinvolte nel delitto, quasi sempre svolgono una funzione di semplice passaggio di informazioni. Sappiamo poco di loro e non approfondiamo mai quei personaggi. Da questo desiderio da spettatore di conoscere più a fondo quei personaggi mi è venuta l’idea di dar loro voce. Circa metà del racconto di ogni singolo episodio infatti è dedicato a loro. Mentre seguiamo l’indagine di Valeria Ferro, seguiamo anche le storie di tre personaggi coinvolti nel delitto. Un’idea che credo sia l’elemento che distingue maggiormente Non Uccidere dalle altre serie di questo genere.

I delitti in famiglia – così si è chiamata per un po’ la serie – sono un argomento doloroso e complesso. Molto più facile raccontare i crimini dei criminali, cattivi per definizione. A parte la casualità, quali sono gli altri motivi delle uccisioni in famiglia?

Quello che credo sia narrativamente potente in questo tipo di delitti è il fatto che nascono da emozioni e conflitti che tutti noi viviamo ogni giorno all’interno delle nostre famiglie. Tradimenti, amori non corrisposti, invidie, sentimenti comuni a tutti che in alcuni casi s’inaspriscono a tal punto da concludersi con un fatto di sangue. Questo tipo di delitti ci fa più paura e nello tesso tempo ci attrae più degli altri perché ciascuno di noi potrebbe trovarsi in una situazione come questa.

Nel trailer della nuova stagione si cita un commento del Corriere della Sera: “Una serie in stile crime nordeuropeo. Hanno ragione? Tu che sei il creatore della serie, ti sei ispirato a quei modelli? A chi conosce la serialità nordica viene subito in mente The killing

Credo che chiunque faccia lo sceneggiatore in Italia oggi sia influenzato da quello che succede negli altri paesi, ma non c’è stata una serie in particolare che mi ha ispirato più di altre. Quello che mi ha ispirato è stato il desiderio fortissimo di fare una serie che non sfigurasse troppo nel confronto con le altre serie europee. E spero, pur nei limiti produttivi che avevamo, di esserci in buona parte riuscito.

Una novità di Non uccidere balza subito agli occhi: la fotografia. Forte contrasto, toni drammatici, colori scuri… Il noir, insomma. Quali sono le altri principali novità della tua serie? Pensi che Non uccidere apra davvero – come pensiamo – una via nuova per la fiction RAI, come la definiresti?

Non so se questa serie possa aprire una via nuova per la fiction RAI. La mia sensazione è che ora ci sia la voglia, da parte di tutti, scrittori, registi, produttori e broadcaster, di tentare nuove vie. Percepisco sicuramente il desiderio di alzare l’asticella della qualità. Solo il fatto che gli ascolti non eccelsi di Non Uccidere non abbiano comunque compromesso la possibilità di fare un’altra stagione, che sto iniziando a scrivere, sia molto indicativo di un netto cambio di passo.

Per quanto riguarda la novità di Non Uccidere credo che, al di là dello stile visivo o dell’attenzione alla scrittura, il vero elemento innovativo di questa serie sia stato la ricerca di uno stile forte e riconoscibile. Con Giuseppe Gagliardi, il regista, ci siamo confrontati a lungo su come doveva essere questa serie. C’è stato un enorme lavoro di preparazione che ha prodotto una sorta di manuale stilistico. Insieme a Giuseppe abbiamo scelto i registi delle altre unità, Lorenzo Sportiello e Emanuela Rossi, e con loro abbiamo condiviso il frutto di questo lavoro per fare in modo che ogni inquadratura avesse la stessa cifra stilistica. E così abbiamo fatto con tutti gli altri reparti, fotografia, costumi, scenografia, trucco. C’è stato un rigore assoluto e una condivisione artistica di ogni singolo aspetto della produzione che credo sia stato il vero segreto della buona riuscita di questa serie. Nulla è stato lasciato al caso.

Non uccidere condivide regista e attrice protagonista con la serie Sky 1992 della quale sei stato produttore creativo per Wildside: hai bissato la scelta di Giuseppe Gagliardi e Miriam Leone, come se il pubblico di riferimento potesse essere lo stesso? Un atto di coraggio che forse non è stato abbastanza premiato o cosa?

La scelta di Giuseppe Gagliardi è stata molto naturale. Ci eravamo trovati perfettamente in sintonia lavorando su 1992. E’ un regista di grande talento con una visione personale molto forte e molto affine ai miei gusti. Abbiamo condiviso ogni scelta creativa, confrontandoci ogni giorno e lavorando gomito a gomito durante tutta la preparazione, la lavorazione e la post-produzione.

E’ un regista molto consapevole di quello che vuole, ma è anche un regista che accetta, anzi pretende, il coinvolgimento del creatore della serie in ogni fase della lavorazione. La scelta di Miriam Leone invece non è stata dettata dall’esperienza comune di 1992. Ovviamente ci eravamo trovati molto bene con lei e aveva fatto un lavoro straordinario nella serie Sky. Ma quello che ci ha convinto a sceglierla come Valeria Ferro è stato il provino. Ha semplicemente fatto il provino migliore tra le attrici che avevamo in mente per il ruolo. E sono convinto che è stata la scelta giusta. E’ un attrice di immenso talento, e si è affidata completamente a Giuseppe e a me accettando anche di cambiare aspetto per entrare nei panni di Valeria Ferro.

Restiamo su questo confronto con 1992: sentiamo spesso dire “questa roba per la Rai non va bene” oppure “questa cosa la puoi proporre solo a Sky”. Che differenza c’è tra una serie come Non uccidere, pensata e scritta per la Rai, e una serie targata Sky come appunto 1992 o Gomorra? Ci sono davvero così tante differenze tra un modello produttivo e l’altro?

Differenze naturalmente ce ne sono molte. La prima è il budget. Non Uccidere costa meno della metà di 1992. Dal punto di vista dei contenuti invece credo che, negli ultimi tempi, anche la RAI abbia scelto di differenziare il tipo di serie che produce. Già il fatto che sono tornate le produzioni su Rai Due e Rai Tre è indicativo. Naturalmente sono reti generaliste, che sono obbligate a fare numeri diversi rispetto a quelli di Sky, ma credo che se Rai Fiction continuerà su questa strada tra qualche anno potremmo arrivare a uno scenario dove la varietà di contenuti e di stile sarà la norma e non l’eccezione come oggi. Discorso a parte bisognerebbe fare sulla promozione. La vera forza di Sky è vendere bene le loro produzioni. La Rai ha qualche difficoltà a farlo, anche perché produce molto di più e forse non riesce a promuovere ogni serie nel modo più giusto. Credo che la promozione di una serie sia quasi più importante della fase di produzione e la soluzione più ovvia sarebbe di affidare la promozione al produttore.

Sei stato uno degli scrittori di punta de La squadra e il creatore de La nuova squadra. Sempre Freemantle (allora Grundy) e sempre Rai TRE. Ora Non uccidere. Ci sembra che ci sia un percorso di crescita che attraversa queste tre serie e un tuo personale percorso all’interno di esse… Ce lo racconti?

Direi che sono stato molto fortunato. Sono entrato nel team di scrittori de La squadra alla quarta serie facendo un test come si usava fare all’epoca per quel progetto. E ho avuto la fortuna di trovare quasi subito qualcuno che ha creduto in me. Dopo la prima sceneggiatura che avevo scritto, Francesco Nardella, che seguiva il progetto per Rai Fiction, mi ha telefonato per farmi i complimenti. Da quel momento mi hanno affidato molte sceneggiature nelle serie successive e, quando la Rai decise di rinnovare la serie, ho ricevuto la proposta di fare il capo-scrittore. Così è nata La Nuova Squadra, dove mi è capitata la seconda fortuna. Incontrare un produttore, Lorenzo Mieli, con il quale lavoro ormai da molti anni e che è l’unico produttore, o uno dei pochi in Italia, che crede fermamente nel ruolo dello showrunner all’americana. Questo incontro mi ha permesso di fare il produttore creativo su 1992 e infine di arrivare a creare una serie come Non Uccidere. Mi fa piacere che abbiate notato un percorso di crescita. Credo che derivi principalmente da due fattori. Il primo è il tipo di coinvolgimento che ho avuto in ciascuna di queste serie. Da sceneggiatore di puntata, a capo-scrittore, a showrunner. Ma oltre a questo credo che il compito di ogni scrittore, per migliorarsi, sia quello di ricercare un suo stile personale. Una voce diversa da tutte le altre. E’ questo secondo me che fa veramente la differenza. Guardare una serie e capire da chi è stata fatta senza dover leggere i titoli di testa. E a giudicare dal soprannome che gli amici di Rai Fiction mi hanno affibbiato, il cupo Corbucci, forse mi ci sto avvicinando. Anche se credo di non essere poi così cupo…

Restiamo ancora sulla tipologia di La squadra e Non uccidere. Un modello di lunga serialità a costi relativamente bassi, con parte della troupe derivata dai centri RAI e una doppia regia in contemporanea tra esterni e interni, che ha dato ottimi frutti a Napoli. In più, è stato sottolineato quanto Non uccidere abbia salvato gli studi della Lumiq e creato nuovi posti di lavoro. E’ questa la macchina produttiva più intelligente per creare industria?

E’ sicuramente una macchina produttiva molto intelligente per contenere i costi, anche se credo che non sia l’unica e che, ad oggi, è ancora presto per allargare questo modello produttivo a più di un tot di serie l’anno. In pratica non credo che sia possibile che diventi l’unico modello produttivo. I centri di produzione Rai attrezzati per produrre fiction ad alto livello sono pochi, e quei pochi non credo che abbiano le risorse per gestire più di una serie per volta. Il modello di Non Uccidere però secondo me può essere d’esempio, al di là della coproduzione effettiva con un centro di produzione Rai, di come si può fare una serie di qualità ottimizzando i costi. Questo permetterebbe di fare più serie e quindi industria.

Restiamo sulla tipologia produttiva e ricordiamo che Freemantle produce l’unica soap italiana rimasta viva e cioè Un posto al sole. A questo proposito, noi come WGI siamo convinti che la lunghissima serialità vada aumentata e sostenuta perché è l’unico vero vivaio per creare professionalità e individuare talenti. Sappiamo che da qui sono passati De Cataldo, Sorrentino, Bises e molti altri… Sei d’accordo?

Assolutamente sì. La lunghissima serialità è l’unica che permette a molti più sceneggiatori, registi e professionisti del settore di lavorare con continuità e di crescere.

Durante le masterclass dell’ultimo Roma Fiction Fest è stata più volte ribadita la necessità del ruolo dello showrunner, cioè del controllo della serie tv da parte dell’autore. Noi pensiamo che il credit “creato da” sotto il titolo della serie sia una grande conquista ma anche una necessità. Come sappiamo, i produttori italiani, Riccardo Tozzi in testa, sostengono invece che in Italia funziona meglio una conduzione condivisa: regista, produttore, e – talvolta – sceneggiatore. Però tu firmi la produzione creativa di Non uccidere ed ecco che La Repubblica scrive che le serie Usa non sono più così lontane Dunque, è vero, se vogliamo cambiare direzione basta mettere uno scrittore al comando?

Direi di sì. Il coinvolgimento dello scrittore che ha creato la serie in ogni fase della lavorazione è essenziale. E sinceramente non capisco la resistenza di molti produttori a concederlo. Dovrebbero capire che è una risorsa e non un ostacolo. In questo senso però noi come categoria dobbiamo fare un piccolo mea culpa. Troppo spesso quando uno scrittore viene coinvolto in altre fasi della produzione si limita a fare il difensore della parola scritta, a controllare che nulla di quello che ha scritto venga cambiato. E’ un atteggiamento sbagliato che credo possa aver creato questa sfiducia nei confronti degli sceneggiatori. La sceneggiatura è ovviamente importante, ma è solo il punto di partenza di un processo creativo che ha molte altre fasi che, per varie ragioni, riscrivono la storia. E’ proprio questo il motivo per cui lo scrittore deve esserci, perché è l’unico che di fronte a questi inevitabili cambiamenti può mantenere la rotta giusta. Devo però anche dire che il grado di coinvolgimento di uno scrittore nel processo produttivo dipende anche dalle competenze che uno scrittore ha. Fare lo showrunner è un lavoro molto complesso, che ha bisogno di professionalità in ogni aspetto della produzione… Io ho avuto la fortuna di avere una storia professionale che mi ha permesso di avere competenze che vanno oltre la scrittura. Non credo poi che quello che Riccardo Tozzi sostenga sia in contrapposizione con la realtà dei fatti. Ovviamente uno scrittore deve collaborare strettamente con il regista e il produttore, ma quello che troppo spesso accade in Italia è che lo scrittore viene estromesso dal processo produttivo appena ha consegnato l’ultima revisione delle sceneggiature.

Ha dichiarato Nic Pizzolatto, lo scrittore di True Detective che: Lo showrunner ha il compito di far soffiare il vento sempre nella giusta direzione, mantenendo la stabilità. Tu ci sei riuscito? Non uccidere è interamente un tuo prodotto o qualcosa ti è sfuggito? Quali difficoltà hai incontrato? Sei stato lasciato libero?

Quello che dice Nic Pizzolato è esattamente quello che penso anch’io. Nel caso di Non Uccidere credo di esserci riuscito. Mi riconosco perfettamente nel risultato finale. Certo è stato lungo, faticoso e difficile, ma anche molto appagante. Di difficoltà ne ho incontrate molte, ma sono state le normali difficoltà di una lavorazione così lunga e complessa. E, pur dovendomi confrontare ogni giorno con i miei referenti, Rai Fiction prima di tutti, devo dire che tutti hanno avuto grande fiducia in me e nelle mie capacità di mantenere la rotta giusta.

WGI, fin dalla sua fondazione, ha cercato in ogni modo di dar voce agli sceneggiatori. Di solito siamo una categoria abbastanza silenziosa che se ne sta tranquillamente in disparte. Pensi che dar voce alla categoria possa contribuire a restituire anche nella percezione altrui il ruolo centrale che appartiene alla scrittura?

Assolutamente sì. E’ essenziale portare avanti alcune battaglie fondamentali tutti insieme. In parte credo che ci stiamo riuscendo, ma la strada da fare è ancora molta.

Un’ultima domanda. La tua squadra di scrittura. Come scegli i tuoi collaboratori? Pensi ci sia tempo e modo per uno sceneggiatore agli esordi di entrare a far parte di un’équipe di scrittura, qual è lo stato dell’accesso alla professione oggi?

Quasi sempre, nella scelta degli scrittori da coinvolgere in un progetto, mi affido all’istinto. Una serie di incontri più o meno casuali nel corso di questi ultimi anni mi ha permesso di formare una squadra di scrittori di fiducia con i quali collaboro più frequentemente. Sicuramente cerco, per quello che posso, di inserire sempre qualcuno di nuovo in ogni progetto. Credo che sia un dovere per ogni showrunner dare la possibilità a giovani scrittori di accedere alla professione. Nel caso di Non Uccidere ad esempio ho inserito nel gruppo di scrittura due giovani scrittori sin dalla fase di sviluppo della bibbia, Stefano Grasso e Peppe Fiore. Uno di loro, Stefano Grasso, ora sta sviluppando una sua serie per la Rai e con il secondo sto scrivendo una serie per il mercato internazionale. La cosa mi riempie di orgoglio. Così come sono felice che altri sceneggiatori che negli anni ho coinvolto nei miei progetti ormai abbiano una carriera più che avviata al di là dei miei progetti. Come Viola Rispoli o Francesco Cioce.

Noi ti e ci auguriamo che aumentino gli ascolti di Non uccidere e che la RAI venga spinta a non abbandonare la via dell’esperimento… Ma – detto fra noi – c’è qualche errore che ti riconosci e che magari avete corretto tra settembre e adesso?

Il mio stato d’animo rispetto a questa serie è di grande soddisfazione. Non mi rimprovero nessun errore in particolare. Non Uccidere è esattamente quello che volevo fare. Certo, è una serie forse più difficile e ostica di altre da seguire, ma ho la convinzione o forse solo la speranza che possa, con il tempo e la giusta promozione, trovare il suo pubblico. Di correzioni da settembre ad ora non ne abbiamo fatte perché anche questa seconda stagione era già stata girata. L’unico errore che mi rimprovero è forse quello di non aver avuto la possibilità, o forse il tempo, di rendere quanto più perfetta e appassionante ciascuna sceneggiatura. Se si dovesse fare un’altra stagione sarà questo il mio impegno principale.

Grazie, Claudio, un sincero In bocca al lupo!

Grazie a voi e crepi il lupo.

L’intervista è a cura di Aaron Ariotti

WGI si racconta – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori e tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione. Questa rassegna offre uno spazio alle singole storie professionali dei nostri soci.

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