Conosci i tuoi diritti

Breve guida all’esercizio della professione di sceneggiatore

Cosa fa uno sceneggiatore? Sembra facile: scrive sceneggiature.

E cosa sono le sceneggiature? I film, le serie scritti prima di essere messi in scena e ripresi da una camera per farne un prodotto audiovisivo. Sono i copioni che tutti sul set tengono in mano e senza i quali non inizia nulla. Sono testi tra le 60 e le 100 pagine, che contengono una storia divisa in scene, completi di descrizione dei luoghi, dei personaggi, delle loro azioni, dei sentimenti che l’attore dovrà esprimere, delle parole che dovranno essere pronunciate, del clima emotivo di tutto il racconto.

E come si fa a scrivere una sceneggiatura? Si procede per gradi, così come accade per tutti i progetti tecnici che indicano come realizzare qualcosa relativo a un’industria (una casa, una strada, un ponte, un abito, un’automobile, una bicicletta…)

Gli stadi esterni (tecnici) di questo percorso sono i seguenti: pitchconcept, soggetto, trattamento, sceneggiatura, revisione, polish per il set.

Si procede per gradi, così come accade nelle altre attività creative, anche per quello che riguarda il progetto artistico che dà vita parallelamente al progetto tecnico: l’idea astratta, la rappresentazione che germina dalla mente e che nella mente viene prima visualizzata, ha bisogno di lavorazione e di tempo per essere trasferita su un materiale all’esterno. In questo processo è facile che la prima idea, impattando con l’esterno, debba essere in grado di modificarsi e sviluppare e arricchirsi. Altrimenti muore: è naturale. Quante musiche, poesie, pitture, scritture sono state cestinate? La maggioranza? Normale.

La natura (e dunque anche l’essere umano) deve poter sprecare molto per sopravvivere. Il che non vuol dire essere maltrattati o maltrattarsi, ovviamente. Impegnarsi, faticare, sì. Questa pagina è qui per questo. Per suggerirti come sopravvivere.

Professionisti ibridi

Il lavoro dello sceneggiatore è un lavoro creativo supportato, mischiato, ibridato con un lavoro tecnico, perché genera prodotti industriali.

Così, anche dal punto di vista della legge, il lavoro dello sceneggiatore ricade in due campi diversi:

  • il lavoro creativo, in quanto prodotto dell’ingegno, è protetto dalla Legge 633/1941 sul DA – Diritto d’Autore (sì, nata nel ventennio fascista e poi modificata qui e là, ma mai veramente rinnovata) 
  • il lavoro tecnico, in quanto prestazione d’opera in conto terzi, è protetto invece dal Diritto Civile, soprattutto dagli art. 2222 e 2227.

Per questo, per risultare in regola con la Legge, dobbiamo emettere fatture di diverso tipo:

  • cessione diritti – tassazione al 75% , soggetta ad IVA, esente contributi INPS
  • corrispettivo per… (testo da consegnare) – tassazione al 100%, soggetta ad IVA e obbligo di contributi previdenziali INPS (ex ENPALS)

Quindi:

  • scritti originali – cioè soggetti o sceneggiature ideati e scritti in completa autonomia – possono essere venduti (se non li vuoi conservare nel cassetto) tramite una esclusiva cessione diritti. (1 fattura per opera)
  • scritti commissionati – cioè scritti per una produzione – devono essere venduti sia per la loro parte artistica (cessione diritti) che per la parte prestazione d’opera (2 fatture per ciascuna opera o per ciascuna fase di ciascuna opera)

I diritti dell’autore

Tutti abbiamo in mente un concetto elementare di opera dell’ingegno intesa come atto individuale di un singolo: un pittore, un compositore, uno scrittore che in rapporto con una materia esterna (tela, spartito, pagina bianca) creano (mettono al mondo, esportano da se stessi) un’opera originale (dipinto, composizione musicale, romanzo) che prima non c’era.

Anche la legge sul diritto d’autore italiana (LdA) definisce per prima cosa l’atto del singolo che crea: noi sceneggiatori dunque siamo (e dobbiamo considerarci) in prima battuta dei singoli che creano in solitudine, a tu per tu con il computer, testi che non esistevano prima. Non importa che siano o no testi commissionati (quanti artisti hanno creato su commissione? è più difficile trovarne uno che non l’abbia mai fatto…) o destinati ad essere altrimenti realizzati: resta il fatto, anche a fronte della puntata numero n di una certa serie a cui peraltro collaborano altri autori, che quella puntata, prima della nostra stesura, non sarebbe esistita. Avrebbe potuto scriverla un altro? Certo, ma sarebbe stata diversa (nelle parole, negli equilibri di senso…) e comunque sta di fatto che l’ipotetico altro non l’ha scritta. Quindi, quella puntata n, anche se gravata di indicazioni, azioni necessarie dei personaggi, location preordinate da terzi, è nostra. Nostra è la capacità di comporre dei materiali intellettuali e rendere affascinante, emozionante, artistico il testo. Da questo legame individuale con una singola opera nasce tutto: il legame individuale ed esclusivo comporta la proprietà di quell’opera e tutti i benefici economici che una società capitalistica moderna riconosce alla proprietà, tra cui il diritto di utilizzo, di sfruttamento, che può essere ceduto tramite una vendita. Questo, inventare e vendere, è il nostro modo di guadagnare, di pagare le bollette, di sopravvivere.

È importante dunque poter dimostrare la paternità (termine tecnico che – per dire che una cosa l’abbiamo fatta noi – fa riferimento alla dipendenza più forte e più oggettiva che esista in natura, cioè a un legame genetico)  della nostra opera.

Per dimostrare al mondo la paternità di un’opera si fa la stessa cosa di quando nasce un figlio vero: serve un elemento terzo (un testimone, un ufficio anagrafico) che accolga la dichiarazione dell’autore di proprietà dell’opera e stabilisca la sua data di nascita.

Perché è importante la data di nascita? Perché – come sappiamo dalla storia delle invenzioni e dei loro brevetti – conta chi arriva primo, non chi l’ha fatto meglio o chi ha reso l’invenzione applicabile sul mercato.

Si può dimostrare la paternità – attraverso quello che si chiama un deposito dell’opera – in diversi modi:

  • artigianale: si invia una raccomandata a se stessi, contenente l’opera, cioè il testo, e – quando torna al proprio indirizzo – si conserva la busta SENZA APRIRLA per far valere il timbro postale come data di nascita.
  • presso un professionista: si lascia busta e titolo e dichiarazione di proprietà nell’archivio dello studio di un notaio o avvocato. Può valere – in modo un po’ più precario – anche una pec con allegato.
  • presso un ufficio istituzionale dedicato, tipo la SIAE – deposito format o presso il MIC che ha ereditato la funzione di registro delle opere, precedentemente incardinata negli uffici della presidenza del Consiglio.
  • presso una piattaforma online che utilizzi (così come l’ufficio postale) una marcatura temporale e conservi per un tot di anni le opere depositate. WGI consiglia – per praticiità e costi – questa prassi e ha ottenuto per i suoi soci una convenzione di favore con Patamu

Attenzione! Depositare la propria opera è una prassi difensiva necessaria (come dotarsi di un ombrello o di un impermeabile quando piove) quando la creazione è stato un atto spontaneo per poter contrastare chi dovesse aver letto quel testo e volesse farlo proprio senza acquistarlo, magari depositandolo a sua volta.

Se invece la creazione è stata commissionata da una produzione, il deposito non è necessario perché la prova della paternità/proprietà dell’opera è il contratto tra autore e produzione. 

Da questo stato di cose deriva l’elementare e doveroso consiglio di un sindacato allo scrittore inesperto: NON consegnare a chicchessia nulla di scritto PRIMA di aver depositato la tua opera o aver firmato il relativo contratto, perché senza un documento di proprietà i tuoi diritti andranno facilmente dispersi.

Con lo stesso contratto di commissione il produttore si preoccupa di acquistare i diritti dell’opera, perché se non li acquista, non dimostra a sua volta la proprietà dei diritti e non potrà utilizzare nemmeno il copione della puntata n per realizzare quel prodotto che venderà a sua volta a una piattaforma di distribuzione, che la venderà agli utenti in cambio di abbonamenti e così via.

I diritti dunque possono (e per certi aspetti devono) passare di mano in mano perché il sistema funzioni.

Ma cosa può comprare – o di fatto compra – il produttore secondo la legge italiana?

I diritti inalienabili

Cominciamo da ciò che per legge NON può essere venduto e quindi acquistato.

Si tratta dei cosiddetti diritti morali, ovvero di quella bolla della creatività che ha a che fare con la sua sostanza e quindi con tutta la terminologia (spirito, anima, pensiero, coscienza collettiva, linguaggio, cultura…) che riguarda l’evoluzione di una comunità umana dove l’arte ha il compito di mostrare, far percepire, rivivere ciò che lega psicologicamente ed emotivamente le persone fra loro, ma non risulta a tutti evidente perchè gli occhi non lo vedono. Il meccanismo, la magia di questa funzione sono in mano ai singoli artisti e dunque nessuno, nessuno, è titolato a sostituire l’autore nell’esercizio del suo ruolo.

Ovviamente al diritto, corrisponde la responsabilità e siccome neanche questa può essere assunta da un altro, l’autore deve aver modo di poterle far fronte. I nomi di questi diritti morali sono molto belli, delineano uno stato nobile dell’artista, una sua dimensione specifica connessa al suo dono, al suo talento. Essi sono:

  • il diritto di inedito, decidere cioè se e quando pubblicare l’opera, oppure vietarne la diffusione.
  • Il diritto di “pentimento” (l’autore può – nel caso di un progetto industriale intensamente condiviso come capita a noi, è d’obbligo adoperare il condizionale: potrebbe tentare di – far ritirare l’opera, ma sarebbe costretto comunque a rimborsare i danni. La legge prevede che l’autore _ spesso a opera realizzata – ci possa ripensare, portarsi via – come il bimbo nella foto che accompagna il titolo di questo paragrafo – se non proprio il pallone con cui stava facendo giocare gli altri, la sua firma. L’opera risulterebbe orfana del suo nome: nella storia di cinema e tv è successo più volte.)
  • il diritto di rivendicare la paternità (e quindi decidere come e dove il suo nome deve apparire accompagnando l’opera)
  • il diritto di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione e ad ogni atto che vada a danno della stessa opera.
  • il diritto all’integrità dell’opera (chi l’acquista non può in nessun caso alterarla, farla a pezzi).

Questi diritti sono inalienabili e sopravvivono in mano all’autore anche se questi ha ceduto tutti gli altri diritti di sfruttamento economico.

In sintesi, nessuno può obbligare un autore a vendere la propria anima al diavolo. Solo lui può decidere di farlo.

Nella pratica, soprattutto nel mondo dell’audiovisivo dove gli autori aventi diritto sono almeno di tre tipi (soggettista, sceneggiatore, regista) questa compattezza autoriale può dover far fronte a visioni diverse e vige di fatto l’uso del compromesso.

Ci si divide abbastanza spesso: c’è chi non trova disdicevole una modifica dell’impianto originale e chi invece si sente tradito e ritira la firma dall’opera (non si può esercitare il diritto di inedito e di pentimento se non si è l’unico autore). Un esempio è proprio quello che è successo nell’aprile 2014, nel caso di Una buona stagione in cui non tutti gli autori la pensavano allo stesso modo.

Nella serialità, inoltre, più scrittori si assumono su un unico progetto compiti diversi e l’head writer (il capo scrittore) ha proprio  il dovere di suggerire modifiche sul lavoro di un altro per salvaguardare l’unità dell’insieme. Quindi è naturale che nel gruppo tutti debbano collaborare e contrattare reciprocamente la propria autorialità a favore di un’autorialità comune: ma anche qui la gerarchia dei ruoli non può consentire una mancanza di rispetto all’autorialità dell’altro (modificare senza avvertire, per esempio).

Ciò che è importante, è far sopravvivere sempre il principio di questi diritti (soprattutto quello di opporsi alle modifiche di altri, non preventivamente concordate), difenderli e rivendicarli al momento giusto, sia per mantenere una prassi rispettosa della legge, sia per non dimenticare che l’autore risponde con la sua opera alla propria coscienza e a una collettività sociale ampia, verso la quale ha dei doveri specifici, tra cui quello di non deve tener conto solo delle opinioni di chi lo compensa monetariamente per il proprio lavoro.

Questo è il motivo per cui la famosa clausola ad approvazione è un nonsense, un mostro che non ha ragione di esistere.

I diritti patrimoniali o di utilizzo economico dell’opera

È il momento di elencare i diritti che per la LdA  possono essere invece oggetto di compravendita. Leggiamoli una prima volta per renderci conto delle occasioni di lavoro e di guadagno per molte altre persone che il nostro lavoro crea.

Se l’autore di un prodotto per l’audiovisivo crea pensiero, cultura, arte quando compone la sua opera, al momento in cui la vende crea lavoro e denaro per molti altri. Lo sceneggiatore, cronologicamente prima del regista, avvia una grande filiera di possibilità. È il senso della campagna NoscriptNofilm che la WGI sta portando avanti.

  • Il diritto di pubblicazione
  • Il diritto di riproduzione
  • Il diritto di trascrizione
  • il diritto di esecuzione, rappresentazione o recitazione in pubblico
  • il diritto di comunicazione al pubblico
  • Il diritto di elaborazione e di modificazione dell’opera
  • Il diritto di noleggio e il diritto di prestito
  • Il diritto di seguito

Nella maggior parte dei nostri contratti, tutti questi diritti – che pure comportano sfruttamento economico su più forme di comunicazione (letteratura, cinema, radio, tv, piattaforme vod ecc.) – vengono richiesti e venduti in un unico blocco per un compenso a forfait.

Non solo. La LdA stabilisce un tempo equo (prima e dopo la produzione) e specificazione dei territori nei quali si intende sfruttare l’opera, ma nella quasi totalità dei contratti di sceneggiatura si chiede (o di fatto si impone) una deroga al tempo previsto dalla legge e un’espansione dei territori all’intero universo, compresi – sembra una battuta comica, ma non lo è – i pianeti ancora da scoprire.

Un motivo c’è e appartiene a un diritto che viene riconosciuto al compratore: chi acquista un’opera dell’ingegno non deve danneggiarla, ma deve poter essere libero di venderla a chi vuole quante volte vuole. Se un produttore non ottenesse tutti i diritti a monte, dovrebbe ripatteggiare in tempi successivi con l’autore tutte le ulteriori vendite e il sistema diventerebbe lento e fragile, perché nel settore dell’audiovisivo gli autori sono molti e molti di questi (vedi l’esperienza della Siae che continua ad amministrare diritti correttamente percepiti, ma non effettivamente distribuiti) potrebbero diventare irrintracciabili.

La proposta di compromesso che la WGI ha fatto propria attraverso gli anni e i suggerimenti del suo Garante è stata quella di consentire da subito con la cessione totale al produttore la disponibilità dei propri diritti di sfruttamento con un atto unico, ma di prevedere con lo stesso atto – quando situazioni diverse si realizzino –  ulteriori compensi a percentuale sull’importo delle ulteriori vendite, così come indicato nel contratto tipo.

Particolarmente preziosi per il ruolo autoriale di uno sceneggiatore sono – come già accennato – il diritto di elaborazione e di modificazione dell’opera (che al di là del diritto inalienabile sulla paternità consente una partecipazione e condivisione delle modifiche) e il diritto di seguito (ovvero la possibilità di derivare da un soggetto o da una sceneggiatura, non solo il film o la serie per cui erano stati scritti, ma anche ulteriori stagioni della serie o ulteriori film con lo stesso universo narrativo e gli stessi personaggi, come accade ed è accaduto con dei classici come Star Wars o Amici miei, oppure La piovra o Romanzo criminale.) Qui non si tratta solo di vantaggi economici, ma anche di controllo o espropriazione dello sviluppo di un proprio mondo creativo. È d’obbligo qui citare la tipica eccezione che non fa la regola, ma che dimostra che la regola non è necessariamente quella che viene da tutti applicata, e cioè il caso del Maresciallo Rocca, personaggio ideato negli anni ’90 da Laura Toscano che non ha mai venduto in blocco a nessuno (produttore o network) i diritti sul proprio personaggio, ma li ha concessi di volta in volta in occasione delle successive stagioni.

L’equo compenso

Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci dovuti all’uso del termine “equo compenso” da altre categorie professionali come i giornalisti: l’equo compenso che riguarda gli sceneggiatori non è il minimo contrattuale dovuto per un impiego, ma una remunerazione che ha a che fare con la “replicabilità” o, per dirla con Walter Benjamin, con la riproducibilità dell’opera d’arte.

Tutti sappiamo che gli scrittori letterari percepiscono una percentuale sulle vendite, ovvero guadagnano sul numero delle copie vendute, così come gli esercenti di sala e i produttori cinematografici guadagnano a seconda del numero dei biglietti staccati, i musicisti ad ogni ascolto pubblico e i drammaturghi ad ogni replica teatrale.

Dal 1996, con l’elaborazione dell’art. 46-bis della LdA, gli autori (soggettisti, sceneggiatori, registi e musicisti) hanno diritto a una percentuale su ogni replica (tecnicamente ogni distinta utilizzazione economica) dell’opera che hanno contribuito a creare.

Questo diritto non è automatico: deve essere attivato da un contratto tra la SIAE e ciascuna delle piattaforme che utilizzano l’opera via etere, via cavo e via satellite e che prevede compensi a percentuale diversi secondo una valutazione di orari di messa in onda, tipologia di canale, di incasso dell’emittente, eccetera…

Ne consegue che la stesura e il rinnovo dei contratti sia una questione di fondamentale importanza. Nella storia di questi ultimi anni si sono susseguiti impuntamenti, contestazioni, ritardi nei pagamenti con relativa sofferenza per tutto il settore. L’ultimo, e più complesso, è stato il caso di Sky nel 2015.

L’equo compenso viene quindi riscosso dalla SIAE che deve – secondo l’ultima direttiva europea sulle collecting, la così detta direttiva Barnier – versarlo ai rispettivi autori entro nove mesi: è questo il motivo dell’aumento delle frequenti scadenze (marzo, giugno, settembre, dicembre) con cui la Siae si fa viva sui nostri conti correnti.

Negli Stati Uniti è il sindacato dei diversi autori – la WGA per gli sceneggiatori – a contrattualizzare, riscuotere e distribuire l’equo compenso (con il quale riescono anche a garantire delle pensioni ai loro iscritti). Negli anni in cui si usava ancora spedire assegni, le buste che arrivavano nelle cassette della posta erano dello stesso colore del dollaro: ottima strategia per fidelizzare il socio… Per alzare anche di poco la percentuale di equo compenso sulla diffusione online delle opere la WGA scatenò lo sciopero del 2008 che suscitò un grande clamore perché bloccò o costrinse a una precoce conclusione molte importanti serie tv e si fece dunque avvertire direttamente anche sul pubblico.

È bene ricordare che il diritto all’equo compenso è inalienabile, non può essere per legge ceduto e nemmeno essere considerato parte del compenso dovuto dal produttore. Il ricavato da equo compenso (che arriva solo nel caso in cui l’opera venga prima prodotta e poi utilizzata da una piattaforma) giunge, per forza di cose – il tempo della realizzazione, della post produzione e della messa in onda – a un anno o più di distanza dalla fine della scrittura. Se – per svariati motivi poi – l’opera non viene prodotta, il meccanismo non si attiva. Non è un incasso sicuro, non va ceduto – lo ripetiamo – a nessuno.

Sempre a proposito di equo compenso, è iniziato, in Italia, nell’estate del 2021 l’iter parlamentare per adeguare il nostro paese alla direttiva europea 2019/790 sul diritto d’autore e i diritti connessi (nota come direttiva sul Copyright) nata per aumentare la trasparenza delle grandi emittenti (le cosìdette OTT) e la protezione del diritto a fronte delle nuove tecnologie che distribuiscono i prodotti dell’audiovisivo. Sulla carta le percentuali dei compensi e la nuova possibilità da parte degli autori di impedire la riproduzione delle loro opere in mancanza del rispettivo compenso sono molto interessanti: vedremo se verranni approvate.

Si usa il termine equo compenso, anche a proposito di una tassa che è stata istituita nel 1992 e che deve essere riconfermata con decreto del Ministro della Cultura ogni sei anni (è stata appena rinnovata nel 2020). Si tratta del molto discusso contributo per copia privata e cioè del diritto che spetta all’autore anche quando a produrre repliche o copie della sua opera è un cittadino privato, attraverso i mezzi di riproduzione (registratori vari, modem ecc) in suo possesso. Nell’impossibilità di controllare il cittadino, la legge supplisce caricando alla fonte un tot stabilito sul prezzo di vendita di tutti gli apparecchi capaci di riprodurre e diffondere copie delle opere (tv, chiavette ecc…) L’obbligo ha comportato in taluni casi l’aumento dei prezzi che avrebbe dovuto essere sopportato dall’industria produttrice ed invece ha finito col ricadere sul consumatore, creando reazioni negative nei confronti degli autori da parte dei cittadini, che hanno valutato un diritto alla stregua di un ingiusto privilegio. Nel 2014 WGI cercò di creare un ponte con i rappresentanti dei consumatori per agire insieme sulla legge e far comprendere il supposto sopruso, difendendo i diritti degli autori in un pubblico dibattito promosso da forze parlamentari.

Dal 2014 – con conferma nel 2020 – una parte dei compensi da copia privata non viene distribuita agli autori e viene invece devoluta, tramite la SIAE, alla formazione artistica dei giovani. Dai compensi da copia privata sono anche stati trovati i fondi per sostenere gli autori durante la pandemia del 2020.

Il lavoro su commissione

La grafica con cui abbiamo accompagnato il titolo di questo paragrafo, appartiene ai nostri colleghi francesi che hanno ben sintetizzato la difficoltà (e la necessità) di far convergere in un solo sistema due dimensioni tendenzialmente centrifughe: l’artista e l’artigiano.

Del ruolo dell’artista (un punto di vista originale sul mondo, il rapporto con la narrazione collettiva, la scintilla dell’atto creativo) abbiamo parlato: dobbiamo invece affrontare ora gli elementi che qualificano il lavoro artigianale su commissione e cioè una abilità specifica, un ruolo che prevede capacità di relazione e di collaborazione, il possesso della competenza che assicura il risultato (nel nostro caso la coerenza narrativa e l’artisticità delle soluzioni trovate).

La terminologia qui riguarda la dimensione concreta, la possibilità di successo, di comprensibilità, di fattibilità del progetto. Si richiede dunque capacità strategica e di ascolto, organizzazione del lavoro, apertura ed elasticità mentale, utilizzo delle risorse personali, poliedricità dell’accesso a culture altre, lati del carattere come la curiosità e la tendenza ad osservare gli altri con empatia, sospendendo il giudizio personale. Quando si lavora su commissione, si lavora per altri e insieme ad altri. Non sempre è facile, ma è sempre interessante e fortemente identificante, formativo.  Il lavoro su commissione comporta l’investimento economico di qualcun altro su di noi, è dunque un atto di fiducia, una scelta che va considerata positivamente.

L’art 2222 del Codice civile sul contratto d’opera recita: si può definire lavoratore autonomo occasionale chi si obbliga a compiere, dietro corrispettivo, un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio, senza vincolo di subordinazione, né potere di coordinamento del committente ed in via del tutto occasionale. 

Cioè non siamo  – e non dobbiamo considerarci mai  – degli impiegati inseriti in una gerarchia di compiti che possono trasformarci in semplici esecutori. Isoliamo, infatti, i concetti della definizione di legge e avremo il quadro completo dei nostri diritti (e doveri) sul lato artigiano:

  • Il lavoratore autonomo si obbliga a compiere un’opera: ovvero sceglie di farlo, è soggetto libero tanto quanto chi gli richiede l’opera.
  • Il lavoro è prevalentemente proprio, cioè non si richiede un lavoro generico, ma quel lavoro che quello specifico lavoratore autonomo è in grado di realizzare. Pensate quando chiedete a un falegname di realizzare uno scaffale per la vostra casa: guardate bene il suo modo di lavorare, i suoi gusti, la sua capacità di lavorare sulla dimensione piccola o grande che vi serve. Non è la stessa cosa che comprare una scaffalatura fatta in un negozio.
  • Senza vincolo di subordinazione, né potere di coordinamento del committente.  Siete artigiani e non operai: avete la responsabilità di organizzare il lavoro nel modo migliore per ottenere il prodotto migliore. Se il produttore chiede che veniate a lavorare in un ufficio, siete voi – e nessun altro – che dovete calcolare l’impatto (positivo o negativo) che appartamento e presenza di colleghi possono avere sulla vostra concentrazione, creatività, eccetera.

In via del tutto occasionale, vuol dire che lo sceneggiatore è un freelance, che il lavoro (e il contratto) si interrompe alla consegna dell’opera col saldo effettuato. Nel bene e nel male.

Il meccanismo contrattuale del lavoro su commissione

Torniamo un momento alla lista delle varie fasi di scrittura della sceneggiatura: pitchconcept, soggetto, trattamento, sceneggiatura, revisione, polish per il set.

Un produttore (e dunque un contratto) può chiedere di elaborare da un concept un soggetto e poi da un soggetto un trattamento e una sceneggiatura e così via. I contratti possono essere di diverso tipo e riguardare diverse fasi. In genere, però, soprattutto nella serialità, il contratto riguarda (anche in collaborazione) tutte le fasi che consentono di arrivare al copione pronto per il set.

Si prevedono dunque date di consegna di elaborati in progress e date di pagamento considerate rate di una cifra totale pattuita per il lavoro completo. Dunque, quando si firma, si stabilisce un percorso e si stabilisce anche se e come il percorso può essere interrotto: si chiamano clausole di recesso e – come ci sollecita il nostro garante – vanno attentamente valutate. Date un’occhiata agli art. 2227 e 2237 del Codice Civile.

La realtà è che si parte, tutti, assumendosi dei rischi. Lo sceneggiatore si assume quello di essere pagato di meno nella fase iniziale che è la più dura (ricerche sul campo, documentazione, organizzazione del lavoro ecc…) e vedere continuamente rimandata la conclusione del lavoro con la quota di compenso più ricca nell’ultima fase.  La produzione si assume il rischio (soprattutto nella serialità) di investire del denaro nella parte iniziale di un progetto su cui ancora non ha le garanzie di acquisto da parte dei network e, tendenzialmente, preferirebbe proprio non pagare lo sceneggiatore finché non ha le spalle coperte. Questo vuol dire che al momento della firma bisogna saper tenere duro e combattere sull’importo totale e sulle date dei pagamenti.

Ma aver firmato il contratto non basta. Bisogna nella prassi difendere il sinallagma (termine ostico che va però imparato), ovvero il nesso di reciprocità tra sceneggiatore e produttore che è alla base del contratto: anticipo, detto anche rata firma, (non la stretta di mano o la sola firma) + consegna di un primo testo + pagamento di questo primo testo + consegna secondo testo + pagamento di questo secondo testo… e così via.

La regola – ovvia, ma difficile da difendere sul campo – è che non si consegna il primo testo se non è stata saldata la rata firma, il secondo se non è stato saldato il primo e così via. Siccome dobbiamo anche rispettare la data di consegna per non essere penalizzati, nel caso sventurato (e purtroppo non troppo raro) in cui il saldo del lavoro precendente non sia stato effettuato, bisogna premurarsi di poter consegnare il testo a un elemento terzo, in genere l’agente dello sceneggiatore, che sarà così testimone della buona volontà e precisione dello scrittore.

In questa alternanza di scambio tra consegne e denaro, si pone anche il problema delle revisioni che secondo i nostri dieci punti dovrebbero essere due più il previsto polish. Va ovviamente dunque respinta la nota e già citata clausola ad approvazione, della quale – ormai da più di dieci anni – si è denunciata l’irregolarità.

La redazione