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“Serve un sindacato unico degli sceneggiatori per avere più potere contrattuale”

Nicola Guaglianone
(foto di Fabrizio Iozzo)

Intervista esclusiva allo sceneggiatore Nicola Guaglianone socio fondatore WGI

(Con questa intervista Writers Guild Italia intende aprire un dibattito libero fra gli sceneggiatori, i soci, gli amici, gli addetti ai lavori, sui problemi e le prospettive del nostro mestiere in un momento in cui il mercato dell’audiovisivo sta cambiando e crescendo: le possibilità di lavorare sulla carta aumentano ma spesso in un sistema senza regole e garanzie minime. Sul nostro sito troverete alcune proposte e dati: dal “contratto ideale” ai “10 principi” www.writersguilditalia.it; https://www.facebook.com/WritersGuildItalia/)

Guaglianone: “Bisogna costruire un sindacato unico degli sceneggiatori in Italia e poi allearsi a livello europeo, solo così si avrà la forza contrattuale per negoziare direttamente con le OTT. Bisogna chiedere alle grandi piattaforme che una percentuale del budget di tutte le produzioni realizzate in Italia sia destinata a ‘finanziare’ la scrittura delle serie tv. Nicola Guaglianone, sceneggiatore fra le altre cose di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, “Non ci resta che li crimine”, “Il primo natale”, ha parlato con WGI – di cui è socio fondatore – dei problemi e delle prospettive di un mestiere che lo appassiona e su cui ha idee molto precise. Come quella di unire tutti gli sceneggiatori italiani in un’unica organizzazione, superando le divisioni attuali, per coordinarsi poi con le altre associazioni europee e andare a negoziare con chi per davvero controlla il mercato. Lo scopo? Ottenere tutele “sia sul piano economico sia su quello autoriale”.

Cominciamo dal principio: come hai cominciato a fare lo sceneggiatore, cosa ti ha spinto?

“Ero troppo timido per fare l’attore e troppo pigro per fare il regista, quindi fare lo sceneggiatore mi sembrava un buon compromesso. Me ne stavo a casa, scrivevo le mie cose. Poi certo devi trovare il coraggio di farle leggere agli altri. Un giorno comprai un’agenda dedicata ai cento anni del cinema da un signore coi capelli bianchi a Porta Portese, un signore che c’è ancora e vende locandine di film. Sfogliandola trovai la sigla Anac, Associazione nazionale autori cinematografici. Amavo i film di Sergio Leone, avevo una locandina in camera di “C’era una volta in America”, e la sera mi guardavo i nomi di tutti questi sceneggiatori: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Franco Arcalli… Così decisi di chiamare l’Anac e chiesi se esisteva una scuola di sceneggiatura a Roma. Mi dissero che c’era Leo Benvenuti che ogni venerdì faceva dei seminari gratuiti. Il venerdì successivo ero lì, ad ascoltare quest’uomo altissimo dall’accento fiorentino dotato di un meraviglioso superpotere: l’osservazione ironica della realtà. Che detta così pare facile, ma non lo è affatto. Perché con l’osservazione ironica della realtà non solo scrivi bei film, ma vivi pure meglio”.

Il passo successivo?

“Feci leggere a Leo un cortometraggio che avevo scritto e lui mi disse la parola magica ‘puoi fare questo lavoro’. Partivo quasi sempre dai personaggi, mettendo in pratica quello che avevo imparato. Amare difetti e fragilità tanto per cominciare, ma neanche questa è una cosa facile. A Roma, per esempio, c’è la cattiva abitudine di salire sull’autobus o in metro prima di far scendere i passeggeri. Ecco, penso spesso che il giorno in cui amerò queste persone forse scriverò belle commedie!”

Parli di Sergio Leone e mi viene in mente che a Roma in questo periodo c’è una mostra su Sergio Leone all’Ara Pacis, ma quella appunto era una stagione in cui si produceva ogni genere di film, non solo commedie. Rispetto ad altri anni pensi che lo sforzo produttivo si sia contratto o ridotto o le cose stanno cambiando?

“Credo che la situazione stia cambiando. Mi ha fatto molto piacere il bell’incasso che sta facendo ‘L’immortale’ di Marco D’Amore e dei suoi bravissimi sceneggiatori, che è arrivato quasi a superare commedie di autori amati dal pubblico. Secondo me i film di genere possono benissimo giocarsela al botteghino con le commedie. Di commedie ne abbiamo fatte talmente tante che il pubblico si è un po’ stancato e forse è arrivato il momento di rischiare e sperimentare strade nuove. Poi non è detto che funzioni sempre, ma almeno ci si diverte di più”.

Ma questo è un problema di chi produce o di chi scrive o di entrambi?

“Dalla mia esperienza posso dire che un film o una serie vengono bene quando c’è una unità di visione. Quando si è tutti d’accordo – sceneggiatore, produttore, regista – nel voler fare la stessa opera. Così, quando si va sul set non sono più due, tre o quattro cervelli separati che lavorano ciascuno per conto proprio, ma è un cervello più grande che lavora alla stessa visione. Ed ecco perché per rendere il lavoro più facile, soprattutto nelle serie, serve una figura in grado di portarla avanti quella visione, di unire i vari reparti, di orchestrare le varie voci. Lo showrunner”.

Che sarebbe una sorta di coordinatore…

“Lo showrunner non è un invadente ficcanaso che calpesta i piedi agli altri mestieri o professioni, ma è una persona dotata di talento e cazzimma necessaria a salvaguardare la buona riuscita dello show. Perché il rischio è che tu scrivi un family, il regista gira un action, poi in tv arriva un dramma”.

Ma allora che difficoltà incontra oggi chi scrive per cinema e tv? C’è un problema di visibilità, di assenza di tutele, di valorizzazione del proprio lavoro…

“Credo che la visibilità uno se la debba anche conquistare, non solo per sé, ma soprattutto per la categoria e per le future generazioni. Bisogna garantire alla figura dello sceneggiatore la dignità e il rispetto che merita. Perfino il nome sul cartellone, non sempre scontato, essere citati nelle presentazioni, nelle conferenze stampa, possono far cambiare l’idea che si ha della scrittura e dello sceneggiatore”. “Lo dico sempre anche ai mei studenti (Guaglianone tiene un corso alla Luiss, ndr): questo è un mestiere dove comunque se bussate alla porta nessuno ve la apre, dunque dovete bussare due o tre volte, poi, se resta chiusa, alla porta dategli un calcio”.

Ma in base alla tua esperienza, i problemi che incontrano gli sceneggiatori in Italia sono gli stessi che si registrano anche all’estero?

“Da quello che ho sentito in giro, i problemi sono più o meno gli stessi. Prima di tutto c’è la questione economica: bisogna poter partecipare agli utili. Ma perché a uno sceneggiatore gli devi levare il sogno, l’idea di ‘svoltare’, se magari un giorno azzecca un film o una serie iconica che ha successo in tutto il mondo?”
“E invece molti si lamentano di avere ancora nel contratto clausole che legano il pagamento all’approvazione definitiva dell’ultima stesura”.
“Stabilire dei minimi di pagamento per una puntata mi spaventa molto, perché quei minimi potrebbero diventare una regola. Credo invece che il potere contrattuale del singolo vada salvaguardato. Sempre per quella idea del sogno. E poi vabbè, in Francia, Germania, Svezia… c’è sempre la lamentela contro lo strapotere dei registi: è lui che porta a casa la serie e riesce sempre ad avere l’ultima parola anche nei confronti di chi magari quella serie l’ha creata. Ma questa è un’altra storia”.

Ma dicevi che c’è un problema di risorse economiche: dove si prendono i soldi per gli sceneggiatori o per gli showrunner?

“Parlando di serie, applicare il sistema produttivo americano in Europa è un po’ complicato. Perché ci sono meno soldi rispetto al mercato statunitense dove le writer room sono aperte cinque giorni a settimana dalla mattina alla sera. Ma lì gli scrittori sono strapagati. Da noi uno sceneggiatore per mantenersi deve fare due o tre lavori contemporaneamente, accavallando scadenze, facendosi salire la pressione e spendendo metà rata firma in Xanax. Scrivere un bello show in queste condizioni diventa sempre più difficile. Le serie richiedono impegno, costanza, pazienza. E ovviamente il giusto compenso”.
“Allora, forse l’idea potrebbe essere quella di stipulare un accordo con tutti gli OTT per dire: facciamo che in tutti i contratti che sottoscrivete con le produzioni italiane, c’è una percentuale del budget produttivo della serie che deve essere per forza destinata alla scrittura. C’è una cifra già stabilita in percentuale e questa cifra va divisa fra tutti quelli che lavorano alla sceneggiatura nelle sue varie fasi. Magari funziona. Siamo noi che dobbiamo proporre queste cose ai grandi gruppi perché ormai abbiamo un accesso diretto alle piattaforme”.

Ma chi deve negoziare con le ‘piattaforme’?

“Possiamo farlo noi. Ma abbiamo bisogno di un sindacato unico di tutti gli sceneggiatori italiani. Il sogno è quello di creare un unico grande sindacato italiano, superando le divisioni, per poi, cosa ancora più necessaria, unirci con le altre associazioni europee. Oggi la moneta di scambio è data dai contenuti e i contenuti ce li abbiamo solo noi. Allora uniamoci tutti in Europa, scriviamo 10 punti condivisi che vanno inseriti nei contratti, e sono sicuro che anche la WGA ci verrà dietro, perché ormai abbiamo tutti gli stessi problemi. In un momento di trasformazione del mercato non dobbiamo perdere questa occasione. Possiamo cominciare da alcuni principi base: l’autore della serie deve comunque poter partecipare agli utili, poi deve essere rispettata la sua visione, il suo lavoro. Sono priorità sia economiche sia autoriali”.

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.
L’intervista è a cura di Francesco Peloso (Ufficio Stampa WGI)

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