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Sole cuore amore

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.

Daniele Vicari ha scritto e diretto Sole cuore amore. Il film è stato presentato in concorso nella selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma.

Caro Daniele, cominciamo tutte le nostre interviste con un pitch per entrare subito in tema e portare il lettore nel cuore della storia. Ci spieghi in poche righe cosa racconta Sole, cuore, amore?

L’espressione “cuore della storia” mi pare perfetta per l’occasione… si tratta infatti di un frammento d’esistenza: due amiche, che vivono nell’hinterland romano, hanno fatto scelte molto diverse nella vita, scelte “semplici”, come sposarsi o non sposarsi, avere dei figli o non averne, lavorare per mantenere una famiglia o lavorare per esprimersi artisticamente. Vogliono solo ciò di cui hanno effettivamente bisogno, ma le condizioni generali nelle quali vivono e agiscono conducono le loro vite verso una crisi difficile da affrontare.

Ci avevi lasciato con Diaz – Non pulite questo sangue… Qual è la storia del tuo percorso da un affresco così drammatico e collettivo a questa vicenda che si avventura molto nell’intimo, nel quotidiano?

Il mio percorso di questi anni non saprei descriverlo. Posso dire che Diaz è stato un “ultimo film”. Nel senso che mentre lo facevo ero perfettamente cosciente che probabilmente non avrei mai più fatto un altro film. E temevo la stessa cosa per Domenico (Procacci ndr.). In quel film io ho messo in gioco tutto me stesso, sul piano umano, fisico e professionale. Domenico ha messo in gioco la sua società, la Fandango, che non è una parte secondaria della sua vita. Diaz ha rotto una certa consuetudine di non belligeranza del nostro cinema recente con il “Potere”, ed è stato realizzato dopo il no di tutte le televisioni, di tutte le Majors, cioè di tutti i finanziatori e di tutti i distributori, infatti è poi stato distribuito in solitaria dalla Fandango. Solo in conclusione della lavorazione è arrivato un finanaziamento del MIbact pari ad un ventesimo del costo del film, soldi benedetti, per carità, ma non determinanti. Il Potere vuole essere adorato, accetta persino di essere dileggiato, ma non vuole essere sputtanato e messo in discussione. Moltissimi attori mi hanno detto di no, molti sceneggiatori anche, era un film un po’… un po’ così. Quando fu presentato a Berlino ricevette un applauso di 20 minuti un premio del pubblico e stroncature pressoché unanimi, a parte poche eccezioni. Fu però “sostenuto” da un certo numero di editorialisti, scrittori, politici che si esposero personalmente, credo convinti dall’opera e dalla sua impostazione. Poi il film ha avuto una sua vita molto importante ed ha svolto un suo ruolo. Successivamente, dopo quattro anni di progetti falliti, e dopo aver scritto varie sceneggiature senza esito, ho pensato: ora scrivo un film sui miei fratelli e sulle mie sorelle, cioè sulla gente che amo, che mi sta vicina quando ho bisogno, che schiatta per questa situazione assurda che si è determinata sul piano economico-sociale, e ho scritto Sole Cuore Amore in tre giorni e tre notti, durante i quali non ho praticamente mai dormito.

La spiegazione del titolo Sole cuore amore viene affidata nel film al ritornello di una canzone, anche le note che accompagnano la comunicazione e che insistono sul rapporto di amicizia tra le due donne, lasciano pensare a un tono leggero ma non c’è poi tutto questo racconto tra loro, sembra più un film sull’ineluttabilità del destino… Volevi che lo spettatore arrivasse senza pensieri, quasi aspettando una commedia?

Il nostro destino ha in gran parte a che fare con la struttura sociale nella quale siamo immersi. Ovviamente questa frase per una persona che può scegliere di fare quello che vuole nella vita non ha senso. Però se non puoi scegliere, se devi lavorare come un pazzo per cavartela appena, le cose cambiano. E’ ovvio che queste persone vivono, si divertono, trovano persino il modo a volte di farsi una vacanza, si indebitano, comprano le automobili a rate e così le tv e i cellulari. Cosa dovrebbero fare? Parliamo della maggior parte delle persone che vivono a ridosso delle nostre grandi e piccole città, qualche milione di individui. Persone che, soprattutto negli ultimi dieci anni, si sono trovate a stringere sempre di più la cinghia, per mantenere un livello di vita che ritengono “dignitoso”. Parliamo dei corpi nascosti dietro le statistiche che proprio in questi giorni sono state diffuse: «Famiglie under 40, i nuovi poveri». Qui non è contemplata la ribellione, come non sono considerati i diritti dalle persone stesse che potrebbero usufruirne. Ma, temo, questo discorso vale anche per una fascia ben più larga di popolazione, che magari non patisce particolari problemi economici, che però è stretta in una esistenza incerta sul piano personale, psicologico, di genere. Da questo punto di vista la “periferia” è più ampia di quanto crediamo. Queste persone, sembrerà strano, ma oltre a soffrire praticamente in silenzio la loro condizione, cantano, ballano, amano… la scena dei bimbi che cantano Tre parole, la canzone di Valeria Rossi, l’ho rubata ad una festa di comunione che si è svolta in un ristorante lungo l’Aurelia, mi ha commosso una cameriera che guardava la bimba cantare come fosse sua figlia. Ho solamente immaginato che quella cameriera, quella domenica li, avrebbe voluto stare a casa con i propri figli, anziché incantarsi ammirando i figli degli altri.

Storie di donne: è la prima volta – ci sembra – che un tuo film parta da protagoniste femminili. Come l’hai vissuto? Un caso, l’impatto con una storia vera, una diversa visione del mondo…

La storia “vera” è entrata per caso nel mio film. Stavo scrivendo la storia di una amicizia tra due donne, perché il mistero della “sorellanza” mi ha sempre commosso e affascinato. Quasi tutti i miei film sono incentrati sull’amicizia virile, quindi volevo semplicemente indagare “l’altra metà del cielo”. Mi ero dato un metodo: pescare nella mia vita, in quella delle persone che amo e che conosco meglio. Avevo molto chiara in mente Vale, perché secondo il metodo che mi ero dato, mi stavo ispirando alla vicenda di una mia amica che si chiama Miriam.

È una danzatrice e attrice, ma viene da una famiglia “normale” con una madre che ha fatto fatica ad accettare le sue scelte. In Vale, nelle sue scelte un po’ devianti dalla norma, c’è anche un po’ di me, lo confesso. Eli era invece ispirata a mia sorella, che si chiama Angela Maria, una donna che a differenza di Miriam ha tre figli, un marito e lavora sempre, sempre, sempre, e a quarantotto anni si è iscritta persino all’università! La storia andava già verso una tragedia, perché io ho molta paura che mia sorella un giorno possa crollare, forse provo anche un senso di colpa nei suoi confronti, perché lei fa cose per la famiglia che dovrei anche io contribuire a fare, ma sono spesso “lontano”. Scrivevo, cancellavo, riscrivevo, finché durante quei tre giorni di scrittura compulsiva, in Puglia è morta una donna che si chiamava Paola. Tutte le mattine questa donna si alzava alle tre per andare al lavoro ad alcune centinaia di chilometri da casa sua. Tre figli, un marito senza lavoro fisso. Questa donna è morta di fatica e la sua storia ha campeggiato un paio di giorni sulle prime pagine, dando luogo a profluvi di considerazioni sociopolitiche che lasciano di solito il tempo che trovano. Si è insinuata nella mia coscienza la storia di Paola, mi ha fatto piangere solo il pensiero che a “mia sorella” Eli, potesse capitare qualcosa, però la tragedia ha cominciato ad insinuarsi nella mia testa. Leggendo in rete la storia di questa donna mi è tornata in mente la vicenda di un’altra donna che alcuni anni fa è morta a Roma in metropolitana, si chiamava Isabella, e in un attimo ero su quei vecchi articoli. Insomma la storia di mia sorella, quella di Paola e quella di Isabella si sono mescolate nel mio delirio e la sceneggiatura ha preso forma. Vale è stata un po’ sacrificata nella scrittura, finché non ho creduto di trovare una chiave di lettura per il suo ruolo nella storia. Vale è un personaggio molto difficile, un po’ contorto, forse mi somiglia troppo, quindi ho cercato di “tenerla a bada”, forse troppo.

Purtroppo abbiamo subito questa sciagurata e mal diffusa campagna del Fertility Day ed è difficilissimo ormai parlare cum grano salis di maternità e lavoro. Proviamoci lo stesso. La tua scelta di contrapporre maternità e carriera in due donne diverse è una modalità di racconto o davvero pensi che l’incompatibilità dei due ruoli sia reale e che sia il vero problema che storicamente le donne di oggi devono affrontare?

Non saprei rispondere con certezza a questa domanda, è una cosa gigantesca. Del Fertility day non me ne frega francamente niente, fa parte dello sciocchezzaio della politica. Ma le scelte personali per me sono intoccabili. Se non vuoi avere dei figli non devi averli, se li vuoi avere devi poterli avere. Ecco, credo che avere dei figli in una società disorganizzata e priva di strutture come la nostra rischia troppo spesso di essere una sciagura per le donne che hanno deciso di averli. In particolare per le donne meno abbienti. Ecco che le storie di quelle donne “morte di fatica” divengono l’emblema di una società che rende impossibile persino la vita. Come si arriva a questo punto è quasi un dilemma, è difficile da indagare. Direi che entra in ballo anche un tabù, o un rimosso, o tutti e due. Parlo del tabù della “giovane madre che muore” e/o della rimozione della tragicità che è il vero problema della nostra cultura, soprattutto del cinema.

Non facciamo spoiler, ovviamente, ma la tua rappresentazione della donna è in tutti e due i casi dolente: ritieni che le donne stiano pagando un prezzo più alto degli uomini alla crisi economica?

Va beh, ormai anche l’uomo più greve, ignorante o dispotico, ha capito che l’80% della fatica “sociale” cade sulle spalle delle donne. A prescindere dalla ormai quasi decennale crisi economica, la quale peggiora, se possibile, la situazione.

Stai vicino ai tre protagonisti in un modo diverso. Eli – nonostante tutto – è madre e moglie perfetta, Vale sembra il controcanto del tentativo disperato di cercare un’espressione diversa del sé femminile, a Mario sembra invece che affidi il tuo personale punto di vista maschile e cioè essere esclusi, non essere in grado di provvedere… La società maschile non ha più soluzioni. Ci stiamo sbagliando?

No, non credo. Credo invece siano tutti vittime dell’individualismo che ci caratterizza sempre di più. Mario, come Eli e Vale è anche vittima dello stravolgimento dei ruoli, che è un portato in gran parte positivo della nostra modernità, ma che ha degli aspetti drammatici che possono condurre gli individui fuori strada. Mario ama i suoi figli e la sua donna, ma qualcuno lo ha formato per essere un “produttore di reddito”

Quello è il suo obiettivo, altrimenti è un fallito, quindi si sente in colpa e vive nell’impotenza più totale (il “patriarcato” ha risvolti assai negativi perlopiù sulle donne ma a volte anche sugli uomini), però si attiva per salvare in qualche modo sua moglie, vuole a tutti i costi che si curi, la ama. Eli invece, anche perché orfana, è una che vuole a tutti i costi farcela da sola, e non capisce dov’è il suo limite, Eli non si affida agli altri, è abituata a combattere. Vale invece ha deciso di mettere in gioco tutta se stessa nella sua arte, nella danza. Però l’”immaterialità” dell’espressione artistica, o anche solo della precarissima sfera del “terziario avanzato”, è una cosa sfuggente, può essere alienante quanto il lavoro produttivo, e codificare per l’artista rapporti sociali vacui, insoddisfacenti. Poi si, fornisce una grande libertà all’individuo che la agisce, ma mette in discussione tutto, spesso anche i confini sentimentali e sessuali, come ha ben chiarito Beatriz Preciado.

Questo film l’hai scritto e girato in solitaria. Hai sentito la mancanza di un compagno di scrittura oppure ti trovi bene a sceneggiare da solo?

Amo moltissimo lavorare in gruppo. Ho solo scoperto che, a volte, è bello anche lavorare da soli. Lo dico a prescindere dal risultato, che può essere meraviglioso o catastrofico in entrambe le situazioni.

Se dovessi scegliere tra il ruolo di regista e quello di sceneggiatore in quale ti riconosceresti maggiormente?

In quello di cuoco.

Quanto tempo ci hai messo dalla prima idea del soggetto alla stesura del copione? Quante versioni ne hai fatto?

Ho scritto la sceneggiatura in tre giorni. Ho girato la prima stesura. So che è una follia, ma il caso ha voluto che andasse così. Ho corretto i refusi a fine luglio. Procacci ha letto la sceneggiatura e tra Agosto e settembre ha deciso di produrlo, a metà settembre ero a lavoro sul cast, a ottobre preparazione, a novembre/dicembre riprese. Fine dei giochi.

Sul set cosa è successo con la sceneggiatura? L’hai modificata, ti sei trovato a giudicarne la tenuta in modo diverso e se sì, dove, in quali punti?

La velocità di esecuzione del film è stata talmente alta, che ho potuto fare piccole modifiche basate sull’intenso lavoro di improvvisazione fatto con gli attori.

Per certi aspetti il tuo film può essere giudicato una non-storia, un affondare in un quotidiano senza senso e senza eventi. Tutto il significato sembra invece affidato a una attentissima messa in scena. E’ la lezione della tua esperienza di documentarista, ti fidi della capacità della realtà di parlare da sola?

La realtà non parla da sola. E un film di finzione ha bisogno di una grande lavoro per raggiungere la credibilità. Il cinema documentario c’entra molto poco. Forse è vero però che il film è una non-storia, anzi forse è un non-film, perché ha quattro caratteristiche del tutto inadatte al cinema corrente:

  • è un atto unico che dura 112 minuti
  • ha due protagoniste che però sono due antieroine
  • ha un ritmo decrescente anziché crescente
  • finisce male.

Fermiamoci ancora un momento sul documentario. La Festa del Cinema ne presenta moltissimi e la metà dei film italiani in concorso sono documentari. E’ solo la crisi economica che sta spingendo avanti il documentario o è una richiesta più profonda, un modo per il cinema di ritrovare la propria strada e ripartire?

Il cinema è il cinema, qualunque sia il genere. La vera anomalia è che in Italia il cinema documentario ancora oggi si fa fatica a considerarlo tale, infatti spesso si sente dire: «Ma quello non è un film, è un documentario». Il linguaggio del cinema documentario è più complesso di quello del cinema di finzione, e tre quarti dei 600 film “documentari” che produciamo in Italia ogni anno (una cifra enorme) hanno una interlocuzione del tutto ipotetica e incerta con la parola “cinema”. Noi registi che facciamo il cinema di finzione, amiamo troppo il potere per occuparci della “realtà” e quindi per il cinema documentario c’è uno spazio immenso. Infatti la qualità artistica dei film documentari sta crescendo sempre di più e sta velocemente cambiando il cinema italiano (e mondiale).

La legge cinema, appena approvata al Senato, anche se dovrà affrontare un altro percorso alla Camera, ha acquistato dei lineamenti precisi: l’Italia ha rinunciato al meccanismo francese dell’autofinanziamento e continua a percorrere la via dell’assistenzialismo statale, solo che ora si privilegiano i ricchi e i forti, a prescindere dalla qualità. Ti sembra un’analisi giusta? Tu che ne pensi?

Quello francese è il cinema più “statale” del pianeta, ma il meccanismo del CNC fino ad ora ha funzionato bene. La nuova legge non mi fa impazzire, non c’è un CNC autocefalo, e l’equiparazione tra prodotto televisivo e cinema è tutta da verificare nel suo reale impatto, ma credo sia difficile peggiorare rispetto alla situazione vigente, siamo sopravvissuti alla legge Urbani, sopravviveremo a questa. L’unica cosa seria da fare non la fa nessuno: una legge antitrust che faccia nascere un po’ di concorrenza nel mercato dei diritti e dell’esercizio. Se si vuole la libera concorrenza, la si faciliti, ma non sembra sia una cosa facilmente praticabile.

Non ti sei mai misurato con la serialità televisiva. E’ un caso, un campo che non ti interessa, serve una predisposizione diversa…?

Non ho fino ad oggi ricevuto proposte adatte a me. Non escludo nulla, il cinema è ormai “espanso” lo si può trovare in rete come in tv, oppure su altri supporti oltre che nelle sale. La cosa importante per me è riconoscermi in ciò che faccio.

Hai in preparazione due film, vero? Ci dai qualche anteprima?

Non ho in preparazione nessun film, quelli a cui forse fate riferimento sono progetti falliti, morti e sepolti.

Grazie e in bocca al lupo.

Crepi!

 

L’intervista è a cura di Giovanna Koch e Silvia Longo
La foto della copertina è – come le altre nel testo – di Emanuela Scarpa
 
Scrittori a Roma – Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla Festa del Cinema di Roma (13-23 ottobre 2016).

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