Scrittori a festivalWriters

The elevator

La WGI è nata con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione SCRITTO DA, sotto l’egida di WRITTEN BY, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati  dagli organi di informazione.

Mauro Graiani  e Riccardo Irrera hanno scritto The elevator, diretto da Massimo Coglitore. Il film, in concorso al Rome Independent Film Festival 2015 nella sezioneN ational feature film competition, verrà proiettato oggi, 9 maggio 2015, alle 22:30 nella Sala 4 del The Space – Cinema Moderno e, in replica, martedì 12 maggio al Cinema Nuovo Aquila.

Ciao Mauro e ciao RIccardo! Raccontateci la vostra vita professionale con la sintesi di un pitch.

Mauro: Io sono genovese, e insieme all’amico Paolo Calissano, una volta terminati gli studi presso la Scuola Europea di Cinema e Teatro di Milano, ideammo ”Gente di Mare”, prodotta poi dalla Palomar per Rai Uno. Cominciò così, con la Tv, e poi sono seguite molte serie e una miniserie. Per il cinema ho scritto anche Strada di PaoloMio Papà di Giulio Base e Poli Opposti in uscita la prossima stagione. Ma il meglio deve ancora venire.

Riccardo: Sono un friulano un po’ girovago. Ho studiato a Los Angeles e a Londra, poi sono venuto a Roma e qui mi sono fermato. Ho cominciato con il teatro off, poi è arrivata la televisione con la soap opera, le lunghe serialità, una miniserie… Per quanto riguarda il cinema ho co-firmato K il bandito, Strada di Paolo, Mio Papà e Poli Opposti.

E adesso il pitch di The Elevator: qual è la trama del film?

New York, il giorno in cui la Big Apple si ferma per la festa dei lavoratori. Jack Tramell, il conduttore televisivo del quiz “Three Minutes”, rientra nella sua penthouse, in un grattacielo vuoto per le festività. L’ascensore che lo sta portando all’attico si ferma per un guasto apparente.

Prima che Jack possa premere il pulsante dell’emergenza, una donna – salita qualche piano più sotto – lo aggredisce, facendogli perdere i sensi. Al suo risveglio, inizia l’incubo: legato e imbavagliato nell’ascensore fermo al decimo piano, Tramell è costretto a subire il gioco della sconosciuta che lo sottopone ad un quiz del tutto simile a quello che lui conduce. Ha tre possibili risposte per ogni domanda, la possibilità di avere un aiuto esterno, e quella di cambiare domanda. Unica differenza, rispetto allo show televisivo, in palio non ci sono soldi, ma la vita di Jack.

Perché quella folle sconosciuta ha ideato quella tortura? Cosa c’entra con lui, cosa le ha fatto? Sono le domande a cui Jack deve dare una risposta, se vuole rimanere vivo e deve farlo alle condizioni di lei, aprendo i cassetti segreti della sua coscienza e giocando psicologicamente con la sua aguzzina. Sempre che i ruoli di vittima e carnefice siano quelli.

Com’è nata l’idea del film? Avete avuto dei modelli?

L’idea è nata davanti ad una macchinetta del caffè. Volevamo scrivere qualcosa che avesse un costo da cinema indipendente, ma una totale libertà di contenuti e genere. Volevamo fare un film che non si fermasse ai numeri del mercato italiano. Ed è stato un po’ come nella scena di Apollo XIII quando gli astronauti sono costretti ad inventarsi un filtro per respirare e da Houston prendono le poche cose che hanno a disposizione sulla navicella e si inventano un accrocco. E come dice Ed Harris: “Inventatevi come mettere un piolo quadrato in un buco rotondo.”

La Morte e la Fanciulla di Polansky è stata la più grande fonte d’ispirazione. Un racconto dove tu, spettatore, hai apparentemente le stesse informazioni dei protagonisti e con loro devi arrivare alla verità e decidere da che parte stare. Salvo poi, ogni volta che credi di aver capito, vederti ribaltare ogni tua convinzione e ricominciare da capo nella ricerca della verità.

La scelta dell’horror, genere così poco frequentato in Italia. Pensate di aver individuato un pubblico o è semplicemente amore per il genere?

Non è un Horror ma un Thriller Psicologico. Niente scene sanguinolente, solo tensione emotiva. Volevamo cimentarci con un racconto di genere puro, cosa che in Italia, per logiche commerciali, non sempre è possibile fare.

Raccontare un intero film all’interno di un ascensore: non dev’essere stato facile scrivere la sceneggiatura. Quali sono le maggiori difficoltà che avete dovuto affrontare?

E’ vero, il rischio di claustrofobia era grosso, ma sinceramente non ne abbiamo mai avuto la percezione, questo perché abbiamo deciso, fin dal concepimento dell’idea, di rendere l’ascensore non un ambiente ma un personaggio vero e proprio. E’ parte integrante della storia, non è solo il palcoscenico della vicenda. E la soddisfazione maggiore, anche grazie alla regia di Massimo, è che ad un certo punto le pareti dell’ascensore spariscono e rimangono solo le vite disperate dei protagonisti con il loro carico di sentimenti e le loro idiosincrasie. Detto così, una vera follia. E la vera difficoltà, una volta esportato il pdf della prima stesura, era trovare un produttore altrettanto folle che credesse in un progetto del genere. Un progetto scritto in inglese da sceneggiatori italiani, di una storia americana in un genere impegnativo come il Thriller Psicologico. Noi l’abbiamo trovato due porte oltre il nostro studio. E’ Riccardo Neri, produttore indipendente che ha lavorato con grandi registi come Scorsese, Tornatore, Haggis… L’ha letta d’un fiato, ne ha capito le potenzialità, ed è stato abile a dare al film un production value che si vede in ogni fotogramma.

Quali sono nel film gli elementi di novità, quelli che sentite più riusciti, più importanti, più capaci di invogliare…?

Semplicemente l’aver preso un film di genere e aver parlato di una tematica sociale che è profondamente nascosta nelle pieghe del racconto, ma che alla fine esce fuori in tutta la sua drammaticità con una verità inattesa. In poche parole lo spettatore, ponendosi le stesse domande dei protagonisti, è costretto a prendere una posizione di coscienza e fare i conti con delle scelte che ognuno di noi potrebbe essere costretto a fare. E, dal punto di vista dei crediti, siamo anche produttori in quota parte del film stesso.

Avete lavorato a quattro mani. Potete spiegarci come avete portato avanti il processo di scrittura? In quanto tempo siete giunti al “final draft”?

Quando uno scrive, l’altro fa il caffè, poi torna cancella tutto e si ricomincia.
In realtà ci siamo chiusi dentro quell’ascensore (anche se eravamo sulla terrazza del nostro studio a Officine Farneto) e ci siamo calati nei personaggi. Abbiamo dato loro un passato e delle motivazioni, abbiamo fatto male ad entrambi riportando a galla quello che loro non sapevano di aver vissuto, poi alla fine sono stati loro a dirci passo passo cosa avrebbero fatto, detto e dove sarebbero andati.
Per il “final draft” ci sono voluti un paio di mesi, intensi e totalizzanti.

Com’è stato il rapporto col regista? Ha accettato il vostro punto di vista, vi ha chiesto delle modifiche…

Massimo Coglitore è stato il miglior regista che avremmo potuto immaginare per questa sceneggiatura. C’é stato un grande rispetto reciproco, da parte sua verso la scrittura, della quale non ha praticamente cambiato una virgola, apportando però un valore aggiunto sulla profondità dei personaggi, nella messa in scena. E poi ci ha voluto al suo fianco a Cinecittà, sul set. E’ proprio sul set che ci siamo accorti che Massimo ha una sensibilità cinematografica perfetta per il genere di storia che avevamo scritto. E sa ascoltare gli attori.

Quanto è cambiato il copione sul set rispetto allo script? Per quali ragioni?

La cosa grande degli attori con cui abbiamo lavorato è il continuo confronto con gli autori, e la profonda ricerca di verità. Caroline Goodall (Shindler’s List – Hook – Cliffhanger) e James Parks (Kill Bill – Django Unchained – Grindhouse) sono due professionisti impagabili, ed hanno un approccio al ruolo che è estremamente gratificante per chi fa il nostro mestiere.

Basta dire che, alla lettura del copione, sebbene seduti a un tavolo, hanno interpretato lo script sudando, piangendo, spingendo sulle intenzioni come se stessero girando ed hanno discusso con noi ogni singola modifica di battuta o intenzione, che una volta fissate sul copione, sono state esattamente le stesse dette davanti alla macchina da presa.

Tra pochi giorni partirà a Bologna il primo workshop per scrivere sceneggiature per fiction e web series a basso costo. “Low budget, high concept” pare sia diventato il nuovo mantra nel cinema e nella televisione. Che ne pensate come sceneggiatori? Come possiamo difendere i nostri compensi?

E’ difficile rispondere. Una cosa è certa, finché il cinema in Italia non diventerà una vera e propria industria sarà difficile far valere i propri diritti. Certo, la WGI sta facendo un buon lavoro nell’ottica corporativa, ma la crisi economica non aiuta e il calo drastico delle ore di produzione televisive è un ulteriore ostacolo alla crescita del settore e della professione. Il web è una frontiera accessibile, un luogo di sperimentazione e consolidamento che inizia ad avere le sue regole e il suo linguaggio.

Avere un basso budget e un idea ambiziosa è un po’ la sintesi della progettualità messa in The Elevator. Ci sono mille modi di raccontare una storia e mille altri per colpire il sentimento dello spettatore: non necessariamente ci debbono essere costosi effetti speciali. A volte bisogna ricordarsi di quello che diceva Orson Welles a proposito del cinema. Per lui, un film, “è la storia di qualcuno a cui hanno tolto la noia.”

Culturalmente crediamo che debba passare il concetto molto caro agli americani del writer producer, dove l’autore diventa parte integrante del processo produttivo ed è più difficile disconoscergli paternità e diritti dell’opera. E in questo dovrebbero aiutarci anche i broadcaster. Non esiste che un produttore arrivi addirittura alla messa in onda senza aver completamente corrisposto quanto dovuto a chi con la sua sceneggiatura gli ha dato la possibilità di produrre. Perché troppo spesso ci si dimentica che se non c’è un autore, se non c’è una sceneggiatura, non c’è un film.

Nella scheda di The Elevator sul sito del Riff ho notato che è presente solo un distributore estero (Archstone Distribution). Per il circuito italiano se ne occuperà qualcuno?

Questo è il problema delle distribuzioni italiane. Il distributore americano, Archstone, ha creduto subito nel progetto riconoscendone le potenzialità e mettendolo in catalogo senza esitazioni. The Elevator è uscito in Russia, Germania, Spagna, Sud America, Asia… Mentre qua lo farà soltanto nel primo trimestre dell’anno prossimo, grazie a Distribuzione Indipendente.

Ci regalereste la scena più bella del copione? Potreste anche commentarcela?

La più bella svela troppo, non è il caso. Questa – TheElevS6 – è divertente perché è il set up della psicologia di Jack. Di come un uomo di successo sappia accettare le sfide e di quanto sia preparato. Può essere un gran figlio di… ma al tempo stesso generoso. Jack è l’uomo che sembra avere tutte le risposte e quando hai tutte le risposte incontri sempre qualcuno che vuole farti una domanda… Persino il ragazzo delle consegne lo incontra nella hall degli studi televisivi e lo sfida… “scommetto 100 dollari che non sai che….”

Cosa pensate della situazione del nostro cinema in questi anni?

Tolti pochi autori riconosciuti internazionalmente, il nostro cinema ha un rapporto costi/ricavi troppo penalizzante. Per varie ragioni, tra cui la lingua e di conseguenza il mercato. Mediamente e paradossalmente i film costano troppo rispetto a quanto incassano. Questo non produce un ricambio di capitale, ma si è ormai costretti ad attingere alle casse dei broadcaster che di anno in anno sono sempre più vuote. C’è poi un discorso di appiattimento sul genere che funziona: la commedia incassa, tutti a produrre commedie senza in realtà analizzare il fatto che non basta fare una commedia perché incassi, ma deve essere fatta bene. Purtroppo non abbiamo abbastanza esempi di altri generi, che vengono sistematicamente visti come improduttivi e non redditizi.

Siete il Ministro della Cultura: in che settore del cinema buttereste tempo e denaro? Una nuova legge? Più mercato? Più distribuzione?

Non basterebbe un’intervista. Ma per iniziare si potrebbe fare qualcosa nel rapporto distribuzione/esercente. Ci vorrebbe una legge che obblighi distributori ed esercenti a garantire una distribuzione e un sostegno in sala ai prodotti italiani che abbiano dei requisiti di qualità.

Come sceneggiatori, che idea vi siete fatti della della Writers Guild Italia? Cosa fa e cosa invece non fa e dovrebbe fare?

Sta facendo un buon lavoro. Ovviamente il modello americano è un modello di riferimento importante, pur non avendo noi gli stessi numeri. Forse una cosa che potrebbe servire è il provare ad essere voi a raccogliere i soldi dei diritti maturati in Italia e nel mondo dagli sceneggiatori italiani, avendo una indipendenza dalla SIAE.

Nuovi progetti in cantiere?

Oltre al prossimo film internazionale di Massimo Coglitore, prodotto sempre da Riccardo Neri con la Lupin Film, come abbiamo detto il prossimo autunno uscirà Poli Opposti, per la regia di Max Croci prodotto da Rodeo Drive e Rai Cinema. Inoltre stiamo lavorando su un paio di progetti per il web molto interessanti.

Grazie mille e in bocca al lupo per i progetti futuri.

L’intervista è a cura di Mario Olivieri

Scrittori al RIFF– Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla XIV edizione del Rome Independent  Film Festival (7-15 maggio 2015)

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