Chances o soldi buttati?
Il 4° European Film Forum
Lo scorso 5 settembre nell’ambito della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia c’è stato il 4° incontro dell’European Film Forum, la piattaforma della Commissione Europea per il dialogo con l’industria cinematografica.
I precedenti incontri si sono svolti a Berlino, Cannes e Sarajevo. Altri ne sono previsti a San Sebastian e al MipCom.
Il primo panel era composto da Mette Damgaard-Sorensen (Danimarca – Artistic Director del New Danish Screen), Magdalena Kaminiska (Polonia – produttrice), Antoine LeBos (Francia – sceneggiatore e script-consultant, artistic director de Le Groupe Ouest/partner del Torino Film/Lab.
L’appuntamento con il 4° EFF era alle 14, al terzo piano dell’hotel Excelsior. Il primo tema era Il cortometraggio, come motore della creatività, scoperta di talenti e business.
Partiamo direttamente dall’ultimo punto: il business sui corti al momento è inesistente ed è il motivo per cui tutto il resto – di cui si è parlato – finisce per non contare nulla.
Solo il 10% per cento dei corti vengono distribuiti in sala. E questo ovviamente deve far riflettere sulla necessità che il Mibact continui a mettere a disposizione fondi per lo sviluppo. Sempre a Venezia, ma in un altro momento il Direttore Generale Cinema del Mibact Nicola Borrelli ha dichiarato di essersi sentito per anni solo un curatore falimentare. E, a quanto pare, Europa Creativa non sosterrà più i corti.
Nessuno li vede, nessuno li distribuisce e – punto ancora più importante – se i prodotti non si misurano con il pubblico, se i registi non hanno un budget ragionevole, gli autori non impareranno a scrivere, né a gestire il set. Dunque, i corti sono soldi mal spesi: girano solo per i festival, come costosissimi biglietti da visita, e il massimo di ritorno economico che possono ottenere è la visibilità di un ingresso nella cinquina degli Oscar e un volo a Los Angeles.
Questa mancanza di fruizione è lo scoglio su cui si sta infrangendo tutta la politica dei corti.
La Polonia è la nazione europea che produce il maggior numero di cortometraggi e da Magdalena – che pure è passata a produrre documentari e lungometraggi – arriva una proposta: far girare i corti nei concerti dal vivo, abbinarli ai tour dei gruppi e dei cantanti, sfruttarli come apertura. Accomunarli per tematiche o altro, distribuirli in gruppo, come massa critica.
Del resto… Il corto resta lo strumento principe dei diplomi delle varie scuole di cinema. Per un esordiente è l’unico modo per avere un set se è un regista, verificare la tenuta di un testo se è uno sceneggiatore, trovarsi davanti alla cinepresa se è un attore.
In più… E’ anche una questione di linguaggio. Il corto – secondo Antoine – è più vicino alla poesia e consente agli europei di salvare la propria identità culturale senza farsi schiacciare dalla struttura americana delle storie con eroe al centro e percorso dell’eroe abbinato.
E – aggiungiamo noi – se fosse invece questo il difetto principe delle nostre scuole? Abituare ad un racconto che non vende, che non diverte, astratto, estetizzante e sostanzialmente masturbatorio? I film italiani non hanno storie forti. La colpa dipende forse dall’aver imparato facendo corti?
E poi… Ammettiamo pure che i corti consentano a un autore di misurarsi con la creatività, di emergere, di fare il primo passo… Chi lo aiuterà a fare il secondo? C’è un vuoto tra la scuola e l’attività professionale.
Il Danish screen lavora proprio su questo. Chiama i registi laureati al loro centro di cinematografia e… Li riporta a scuola. Per prima cosa, ha sottolineato Mette, bisogna insegnare ai registi a collaborare con sceneggiatore e produttore. Devono approfondire la storia, arrivare al nocciolo, capire cosa contiene e svilupparla.
(E invece il sistema italiano considera purtroppo i registi degli enfant gâté, titolari del prodotti, a cui tutto è perdonato e permesso… Mai diventeremo industria di questo passo.)
Anche il Groupe Ouest di Antoine lavora sul passaggio dal corto al lungometraggio, in direzione della ricerca di finanziamenti e di pubblico.
In alternativa… Meglio crescere misurandosi con i documentari o con i lungometraggi a low o micro budget. La crisi economica ha aiutato il documentario a cercare vie nuove e ad incontrare più pubblico. I documentaristi – aggiunge ancora Mette del Danish Screen – quando passano alla fiction, ci arrivano con un grado più alto di vicinanza alla realtà, di necessità del racconto.
Anche per Joana Vicente (NYMedia center IFP), che ha parlato nel secondo panel, la crisi economica obbliga a produrre film digitali per abbassare i costi e continuare a sostenere i cineasti indipendenti. Così vengono privilegiati documentari e lungometraggi che hanno un certo impatto sulla società.
In margine alla questione crisi economica… Antoine ha detto la sua. A suo avviso, l’industria potrà anche abbandonare il territorio europeo, ma la cultura europea resterà qui, è questo il nostro patrimonio. Patrimonio da trasferire ai nostri figli. Patrimonio su cui costruire significati. Secondo lui non abbiamo bisogno di cineasti che fanno film perché è bello farlo, ma di autori che creino senso.
Ed ha aggiunto: “Uccidere i padri, oggi, vuol dire tornare a cercare il significato, che è la storia. Il presidente della Disney dice che un buon film è quello che fa soldi, che è l’inverso di ciò che accade in Europa. Gli americani salvano il mondo, noi salviamo noi stessi. Non dobbiamo produrre nuove risposte, ma nuove domande per creare un nuovo senso della vita e delle cose.”
Ma sarà vero che è bello non piacere al pubblico, incassare poco, basta che risultiamo intelligenti? Dobbiamo proprio continuare su questa strada?
Perché… L’americana e pragmatica Joana avverte che i cupi discorsi fatti sui corti fin qui, possono essere completamente ribaltati dalla nuova tecnologia. I cittadini americani in media vedono 4/5 film l’anno a testa, però… guardano molti più video sul cellulare: e questi video sono dei corti. Cambia così anche la narrazione: bisogna individuare diversi tipi di pubblico e fornire loro il prodotto di cui vanno in cerca.
Ancora più diretto Tim Plyming (BBC – settore documentari). La domanda che si è posto arrivando alla BBC era quella che si ponevano tutti: come far arrivare in tv un pubblico più giovane? Ma Tim ha avuto un’illuminazione: tanti di questi ragazzi vivono lontani dalle città, dai luoghi di cultura. Le loro famiglie pagano le tasse e dunque anche i ragazzi pagano di tasca loro il British Museum… Eppure non possono usufruirne. Non è giusto. Dunque il criterio di produzione è diventato un criterio civico: restituire ai cittadini il prodotto per cui già spendono, quello che è già loro. “Quindi, abbiamo messo online il Museo e abbiamo realizzato tanti piccoli corti” Detto fatto, le presenze del pubblico giovane in tv sono aumentate vertiginosamente.
E cosa succede da noi? Abbiamo coinvolto tre dei nostri soci. Ecco il loro contributo alla riflessione.
Mariangela Barbanente – sceneggiatrice e documentarista
Non credo che i documentari strutturino meglio dei corti in senso assoluto. L’unico vantaggio che ha un regista di lungometraggi documentari che passa alla finzione è che si è già confrontato con la tenuta del racconto, con il ritmo del montaggio, il tenere l’attenzione dello spettatore, la costruzione del racconto in tre atti (che esiste anche nel documentario). D’altro canto gli manca totalmente il rapporto con gli attori, non ha mai diretto nessuno (o per lo meno non lo ha mai diretto in un ruolo che non fosse il “se stesso” dei protagonisti dei documentari), non ha il rapporto con la troupe (che nei documentari è ridotta all’osso e a volte è inesistente) e quindi non ha mai allenato la sua capacità di orchestrare i diversi reparti. Poi, cosa significa che lo mettono in contatto con la realtà? Credo che qualsiasi autore che vuole arrivare al cuore di una storia, che ha qualcosa da comunicare, ha un suo modo per “mettersi in contatto” con la realtà. Credo che sia i documentari che il cinema di finzione abbiano come obiettivo l’urgenza di raccontare una storia, di porre delle domande stringenti. La capacità di farlo ha poco a vedere col genere che si sceglie, l’importante è allenarsi a farlo. Anche i registi di documentari spesso cominciano con i corti, che sono “palestra” per ogni genere.
Franca De Angelis – sceneggiatrice e drammaturga
Anno 1996. Francesca Panzarella (altra socia Guild) ed io veniamo a sapere che la RAI (RAI 2 per la precisione) cercava dieci corti da produrre, con l’intento di dare la possibilità a giovani sceneggiatori e giovani registi di debuttare. Avevamo nel cassetto la sceneggiatura di un cortometraggio e la mandiamo alla selezione.
- Prima cosa interessante: qualcuno faceva un’effettiva selezione. Senza conoscere nessuno né in Rai (non ci avevamo mai lavorato) né nella produzione esecutiva, ci chiamano e ci comunicano di voler produrre il nostro corto.
- Seconda cosa interessante: chiedono a noi sceneggiatrici (e a tutti gli altri ragazzi selezionati) chi volevamo alla regia (potevamo anche scegliere di farcela da soli).
- Terza cosa interessante: stanziavano 60 milioni di lire, che all’epoca era una cifra parecchio alta per un corto, diciamo mai sentita.
Mettono tutti gli sceneggiatori selezionati sotto il tutoraggio di una sceneggiatrice di maggiore esperienza.
- Quarta cosa interessante: la signora in questione suggerisce qualche cambiamento ai testi, ma a) suggerisce e non impone; b) non se la prende minimamente se il giovane autore in questione risponde “Non se ne parla proprio” (come facemmo noi). Massima libertà creativa.
I corti vengono girati. Rai e produzione esecutiva si preoccupano effettivamente di farli circuitare per i festival di settore (non erano tanti come oggi, ma qualcuno c’era). Il capostruttura Rai che si era inventato il progetto ci chiama, vuole conoscerci e sapere se abbiamo progetti televisivi nel cassetto. Nel caso mio e di Francesca non ne avevamo, tiriamo fuori la sceneggiatura di un film che però era già opzionato per il cinema, il capostruttura in questione ci dice: vabbé, fa niente, vi metto in una serie.
- Quinta cosa interessante: erano davvero interessati a conoscere sceneggiatori nuovi e a farli lavorare.
Il nostro corto viene selezionato per la cinquina degli Oscar. Partiamo per L.A. e ci mettiamo in fila per ritirare gli accrediti per la cerimonia, davanti a noi in fila ci sono i ragazzi di un corto concorrente, prodotto da Spielberg. Ci mettiamo a chiacchierare. Gli americani ci chiedono quanto sia costato il nostro film. 60 milioni di lire, rispondiamo fieri. E il loro? Un milione di dollari, rispondono come se davanti avessero Totò e Peppino in gita.
- Sesta cosa interessante: scopriamo che all’utilità di investire qualche lira sui cortometraggi per vedere come se la cavavano i giovani, all’estero c’erano già arrivati da un po’.
Il nostro corto non vince (quello da un milione di dollari sì). Ma quando torniamo Francesca ed io riceviamo un paio di proposte per la tv e un paio per il cinema.
- Settima cosa interessante: un corto selezionato in festival importanti può portare lavoro.
Nicola Guaglianone – sceneggiatore
- Il corto serve a procurare/trovare lavoro?
Direi di no. Ho scritto 4 corti per Gabriele Mainetti. Hanno tutti avuto molto successo di festival e di pubblico. Basette è diventato un cult in rete e Tiger Boy è arrivato in shortlist agli Oscar del 2014. Nonostante questo, per produrre il primo lungometraggio Gabriele ha dovuto aprire una sua casa di produzione. Tiger Boy, candidato ai David di Donatello, ha vinto il Nastro d’argento ma è arrivato tra i primi dieci corti selezionati dalla Academy grazie alla vittoria del Flicker Fest di Sidney. Avevo anche preparato il discorso di ringraziamento: “Prima di tutto vorrei dire grazie a un paese che ha creduto in noi, che ci ha sostenuto e spinto ad andare avanti. Thank you Australia!”. Poi purtroppo non siamo entrati nella cinquina finale e il discorso l’ho chiuso in un armadio insieme allo smoking.
- Il corto è il biglietto da visita del regista o anche lo sceneggiatore ne tira fuori qualcosa?
Altrochè. Se il corto ha successo, lo sceneggiatore riceve l’invito a una serie di festival dove ti pagano vitto e alloggio. Stai chiuso tutto il giorno in hotel a 4 stelle e interagisce con gli altri ospiti, tra un prosecco e una tartina di pesce. La verità è che in Italia un cortometraggio, come un film, è del regista. Questa è una cosa che il giovane sceneggiatore prima capisce e prima smette di soffrire.
Se per il regista il cortometraggio è utile per farsi le ossa sul set, per uno sceneggiatore è un modo per cominciare una collaborazione, confrontarsi con altre menti, imparare la cosa più bella dello scrivere con altre persone: cambiare la propria idea per una migliore. Ma bisogna stare attenti. Il racconto breve è anche pericoloso. Avere una idea è facile, il problema è saperla sviluppare per un racconto lungo. “Chi fa corti impara a corteggiare”, diceva Leo Benvenuti.
- Si passa dai corti ai lunghi o è un’illusione?
Dipende dall’ostinazione del regista. Se ha messo abbastanza soldi da parte allora magari può inseguire un progetto per anni. Però dipende soprattutto dal suo talento. Non esistono geni incompresi, neanche in un paese come il nostro.
E a proposito di corti e di diplomi delle scuole di cinema… durante la Mostra del Cinema di Venezia è stato presentato dal Centro Sperimentale di Cinematografia e da RAI Cinema un documentario dal titolo Al centro del cinema che racconta ottant’anni di vita del CSC attraverso le immagini dei diplomi. I corti, appunto. Quello che stupisce, stante che da tre anni il Presidente del CSC è un grande sceneggiatore che tutti abbiamo stimato e stimiamo, è che nella comunicazione del documentario, là dove si fa l’elenco dei cortometraggi presi in esame – dal 1961 al 2008 – si indica solo il titolo e il nome del regista. Gli stessi corti sono serviti come diploma anche per gli sceneggiatori. Perché ignorarli? Il CSC è una scuola, che riceve fondi pubblici. Come il British Museum, la pagano in parte tutti i cittadini. Anche gli sceneggiatori. Non è ora di restituire a chi paga, a chi studia, a chi scrive, ciò che è suo?
L’articolo è a cura di Giovanna Koch
I Guardiani della Soglia – La Writers Guild Italia è nata con l’intento di sostenere gli sceneggiatori. Questa rubrica – che prende il nome da uno dei gradini del classico manuale di scrittura Il Viaggio dell’Eroe di C. Vogler – si rivolge ai più giovani e indaga le vie d’accesso alla professione.
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